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Il problema dei futuri contingenti può venir studiato specularmente a un altro puzzle temporale di rilievo in cui emerge il problema dei tempi verbali. La sua formulazione non proviene immediatamente dall'opera di Aristotele, né viene annoverata fra i Sophismata, ma emerge dalla rifessione sull'immutabilità della conoscenza divina. Possiamo trovarne alcune formulazioni nelle Sentenze di Pietro Lombardo, dove ci si chiede se Dio conosca adesso tutto ciò che ha conosciuto precedentemente (Deus scit quidquid scivit).

Commentando questa distinzione Alberto imbastisce una quaestio nella cui soluzione sostiene che – se approvassimo l'opinione dei cosiddetti Nominales – sarebbe corretto pensare che Dio conosce adesso ogni cosa che ha conosciuto in precedenza.

In sostanza la posizione dei Nominales, che sono anzitutto dei grammatici, si fonda sulla base di un principio di unità semantica: come c'è una unitas nominis che garantisce la permanenza di un unico significato del nome nei suoi diversi casi (homo, hominis,...), così c'è un'unità semantica dell'enunciato che permane al variare dei tempi verbali che ricorrono nelle distinte enunciazioni29. In questa prospettiva la conoscenza divina è

rappresentabile come un set di singoli enunciati temporalmente definiti che occorrerà ancora e ancora – nelle enunciazioni determinate – con uno stesso valore di verità stabilito eternamente. In questo modo un enunciato risulterebbe vero o falso indifferentemente dal variare dei diversi tempi 29 Su questo punto cfr. M.-D. CHENU, La théologie au douzième siècle, Vrin, Paris, 1957, p.

verbali che si adopereranno. Ovviamente secondo questa interpretazione anche i cosiddetti termini indessicali (come 'ora', 'prima' o 'poi') non hanno un ruolo nel determinare il valore di verità di un enunciato e sono delle variabili che ricorrono sempre e comunque vincolate all'istante/periodo di riferimento30.

Alberto rifiuta la posizione dei Nominales appellandosi a ciò che Aristotele afferma nelle Categorie (5, 4a25-b5)31:

Sed quia hoc non est probabile, quod mundum fore et mundum fuisse sint enuntiabile unum, eo quod Philosophus probat in Praedicamentis, quod una oratio sine sui mutatione, sed mutatione rei, susceptibilis est contrariorum: quia ex eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa est: idcirco videtur mihi, quod sint duo enuntiabilia, mundum fore, et mundum fuisse, et unum verum, et aliud falsum: et videtur mihi, quod de complexis loquendo, Deus non scit quidquid scivit, propter transitum et transmutationem quae est ex parte rerum: nec facio vim de illa solutione, quod mutetur quid in quo modo se habere: quia videtur mihi fuga esse32.

30 ALBERTUS MAGNUS, Super Sent., l. 1, d. 41, a. 6, Ed. Paris., p. 350b: «sed unum numero enuntiabile non est resumendum nisi respectu ejusdem temporis, ut cum dicitur, mundum fore est verum: illud verum est ratione aeternitatis antecedentis tempus. Si autem modo resumatur, debet resumi ratione ejusdem temporis: hoc autem non significatur nunc ut futurum vel praesens, sed significatur ut praeteritum: ergo significatur per istam, mundum fuisse est verum, et mundum fore tunc, et fuisse modo, etiam enuntiabile unum et ratione ejusdem temporis verum est, sed diversis modis significati. Et hoc plane extrahitur de Littera: quia Magister ita solvit: et tenendo illam Nominalium opinionem, planum est respondere objectis».

31 ARISTOTELES LATINUS I 1-5, Categoriae, ed. L. Minio-Paluello, pp. 12-13. Non è affatto scontato che l'appello di Alberto alla dottrina esposta nelle Categorie sia in linea con lo spirito del testo di Aristotele. Maggior confusione è generata dal fatto che Aristotele non sembra distinguere fra i cosiddetti token e type sentences, cfr. P. CRIVELLI, Aristotle

on Truth, Cambridge University Press, New York 2004, pp. 183-189. In ogni caso, come

testimonia Tommaso, questa è la via adottata da tutti i moderni, cfr. THOMASDE AQUINO,

In I Sent., d. 41, q. 1, a. 5, ed. P. Mandonnet, p. 975.

Gli enunciati 'il mondo esisterà' e 'il mondo è esistito' non possono essere una singola proposizione (enuntiabile): nel primo caso, infatti, ci si riferisce ad uno stato di cose (s1) in cui il soggetto 'mondo' non è ancora

esistito; nel secondo caso, invece, ad uno stato di cose (s2) in cui esso è

esistito almeno per qualche tempo. Malgrado in entrambi i casi si presenti una situazione all'apparenza identica – vale a dire la possibile non esistenza del mondo – i due casi sono ben diversi, e precisamente per il fatto che il divenire assoluto dal non-essere all'essere di una cosa e i suoi mutamenti relativi cambiano le condizioni di verità degli enunciati che vertono su quella medesima cosa. Il ragionamento di Alberto sembra ammettere che laddove un qualcosa muti, anche una possibile enunciazione che abbia questo qualcosa per soggetto possa cambiare valore di verità da vero a falso o viceversa. Ma poiché ogni enunciazione può esser soltanto vera o (aut) falsa in un momento determinato (principio del terzo escluso), allora devono esserci (almeno) due proposizioni.

Fissata l'interpretazione del problema nei termini enunciativi che abbiamo esposto, possiamo dire che Dio non conosce tutto ciò che ha conosciuto, poiché altrimenti avrebbe almeno qualche conoscenza falsa. Al contrario, la conoscenza di Dio è tutelata nel suo carattere immutabile dal fatto che le trasformazioni e i mutamenti ricadono interamente dal lato degli enunciati33. Analogamente al caso dei futuri contingenti, anche in tale

contesto il ruolo dell'evento, della res esistente in atto, è determinante per Alberto a risolvere la questione semantica dei tempi verbali.

33 ALBERTUS MAGNUS, Super Sent., l. 1, d. 41, a. 6, Ed. Paris., p. 351a: «hoc nulla mutationem ponit in Deo, sed tantum scibilia aliter se habere ad suam scientiam, quam prius se habuerunt. Unde sua scientia aliter transit supra rem, quando est, et aliter quando non est».