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L’importanza della valutazione del magnesio nel paziente critico

Effetti infiammator

Capitolo 2: L’importanza della valutazione del magnesio nel paziente critico

Per quanto descritto fino ad ora, possiamo affermare che le alterazioni relative ai valori di magnesio nel sangue, nei pazienti critici umani, siano comuni e significative. Uno studio condotto su pazienti pediatrici critici umani, che manifestavano ipermagnesemia, ha descritto una riduzione dell’indice di sopravvivenza ed un aumento della durata di ospedalizzazione all’interno dell’unità di terapia intensiva rispetto ai pazienti normomagnesemici (Broner et al. 1990).

La morbilità e mortalità associate alle alterazioni sieriche del magnesio suggerirebbero quindi, l’importanza di una misurazione routinaria dei livelli del catione ed un eventuale terapia di reintegro se necessaria, per ridurre l’ospedalizzazione, la mortalità dei pazienti e, per quanto riguarda l’ambito veterinario, i costi che gravano sul proprietario (Martin et al. 1994).

Nello studio di Martin et al. (1994), gli autori avevano rilevato che le alterazioni della magnesemia erano comunemente presenti e tra le più frequenti se comparate agli altri elettroliti, in particolare avevano riscontrato una maggior incidenza di carenza del catione rispetto al suo eccesso, in parallelo con gli studi condotti in umana (Ryzen et al. 1985; Chernow et al. 1989).

All’interno dello studio di Martin et al (1994) i valori di magnesio erano significativamente differenti tra i vari pazienti critici, ma i gruppi di soggetti con patologie gastrointestinali e shock e traumi presentavano i valori medi più bassi di magnesio sierico, rispettivamente 1,80 mg/dl e 1,70 mg/dl, considerando un valore limite di 1,89 mg/dl, inferiormente al quale poter parlare di ipomagnesemia.

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Le cause sembrano essere state associate alla perdita del catione attraverso il tratto gastrointestinale, secondariamente a fenomeni infiammatori e/o neoplastici ed è stato attribuito un certo grado di incidenza alla diarrea cronica ed al vomito; nel caso dello shock, invece, il fenomeno della redistribuzione del catione potrebbe giustificare l’ipomagnesemia.

In un altro studio (Bebchuk et al. 2000), invece, su 21 cani con sindrome della dilatazione-torsione gastrica, l’analisi del magnesio e la sua carenza non sono risultate patofisiologicamente rilevanti in questi soggetti, nonostante la patologia, e non hanno inciso sulle aritmie cardiache rilevate in questi pazienti.

I pazienti ipermagnesemici dello studio di Martin et al (1994) presentavano il doppio del normale rischio di andare incontro a morte per la loro patologia, rispetto agli altri soggetti critici con valori di magnesio sierico normali.

Le possibili spiegazioni erano o che la condizione patologica dei pazienti con alti valori di magnesio fosse più grave degli altri, così da determinare una incidenza di mortalità più elevata, o che esistesse un significato patologico diretto tra gli alti livelli di magnesio e la prognosi infausta.

La durata dell’ospedalizzazione dei soggetti ipomagnesemici, invece, era due volte più lunga se comparata con il decorso ospedaliero dei cani che presentavo normali valori di magnesio.

Uno studio sperimentale condotto in medicina umana (Cannon et al. 1987) ha voluto valutare eventuali correlazioni tra magnesio sierico, altri elettroliti ed il successo della rianimazione cardiopolmonare.

I soggetti, 22 in totale, erano vittime di arresto cardiaco e presentavano fibrillazione ventricolare o tachicardia, dissociazione elettromeccanica, o asistolia, i valori di magnesio erano alterati nel 59% dei soggetti; il gruppo di controllo costituito da 19 pazienti, non presentava aritmia ventricolare o alterazioni dei valori di magnesio significative, con un’incidenza di normomagnesemia del 90%.

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La totalità dei pazienti ipermagnesemici ed ipomagnesemici è deceduta, nel gruppo di soggetti che presentavano valori di magnesio nella norma il 44% è stato rianimato con successo. Lo studio, quindi, conferma una correlazione statisticamente positiva tra normomagnesemia e successo della rianimazione cardiopolmonare, mentre non rileva correlazione tra quest’ultima e gli altri elettroliti presi in esame.

Questo reperto suggerisce l’importanza di monitorare le aritmie cardiache insieme con i valori sierici di questo catione, soprattutto nei pazienti in cui sia stata rilevata ipermagnesemia (Martin et al. 1994).

Lo studio di Martin et al. (1994) getta le basi per ipotizzare che le alterazioni dei valori di magnesio nel sangue siano comuni anche nel paziente critico canino e che per questo meritino ulteriori approfondimenti.

Un aspetto non da poco per quanto riguarda l’inquadramento degli squilibri del magnesio ed il paziente critico è il reperto della stretta associazione tra ipomagnesemia ed altre alterazioni elettrolitiche, quali ipokalemia ed iponatriemia (Whang et al. 1990; Whang et al.1984).

La simultanea carenza di magnesio e potassio può essere giustificata dalle cause patologiche sottostanti, responsabili di determinare la deplezione di entrambi questi due cationi, ad esempio l’utilizzo di una terapia diuretica o la diarrea che porterebbero a una consistente escrezione sia di magnesio che di potassio. In realtà la patogenesi è legata anche agli effetti che l’ipomagnesemia determina di per sé sull’altro catione (Kobrin et al. 1990; Kelepouris et al. 1998).

Come accennato in precedenza, relativamente al fenomeno dell’ipokalemia refrattaria legata all’ipomagnesemia, i canali ROMK, presenti sulla membrana apicale della porzione tubulare distale del nefrone, e che regolano l’escrezione renale del potassio, risentono di un meccanismo di inibizione mediato dal magnesio; per cui quando questo catione si trova a valori di concentrazione normali, i canali ROMK consentono per lo più l’influsso del potassio, quando, invece, il magnesio è carente,

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il suo meccanismo inibitorio viene meno, e l’efflusso di potassio aumenta, con conseguente perdita di quest’ultimo per via renale (Huang et al. 2007).

Nello studio condotto in umana da Liamis et Al nel 2012 per valutare le cause sottostanti all’ipomagnesemia, le sue caratteristiche cliniche e biochimiche e le concomitanti alterazioni elettrolitiche ed acido-base, l’ipokalemia era compresente nel 26,1% dei casi.

Nello stesso studio la carenza di sodio, invece, in concomitanza con l’ipomagnesemia aveva un’incidenza del 25,1%, ma gli autori escludono una diretta correlazione tra la carenza di magnesio e la carenza di sodio, basandosi su un’ulteriore indagine, sempre condotta da Liamis et Al, qualche anno prima nel 2007. Le cause sono, quindi, state associate alle patologie sottostanti dei pazienti presi in esame, responsabili di inficiare sia l’omeostasi del magnesio che quella di acqua e Sali, come l’insufficienza cardiaca o l’utilizzo dei diuretici.

Tra tutte le alterazioni elettrolitiche rilevate nello studio tra i pazienti ipomagnesemici presi in esame da Liamis et al, nel 2012, quello che però presentava una incidenza maggiore, con precisione del 31,1%, era l’ipofosfatemia; anche in questo caso però non viene ipotizzata una correlazione diretta tra la carenza di magnesio e quella dei fosfati, quanto una possibile relazione con le cause patologiche sottostanti, come l’aumento della perdite gastroenteriche di fosfato, dell’ingresso di quest’ultimo a livello intracellulare, il suo diminuito apporto con la dieta e la fosfaturia indotta dall’ipokalemia.

Secondo altri studi infatti, la carenza di magnesio causa solo raramente la riduzione dei valori dei fosfati, anche se può permetterne la perdita per via renale (Knochel 1977).

L’ultima tra le alterazioni elettrolitiche correlate alle variazioni dei valori di magnesio è l’ipocalcemia, associata anch’essa alla carenza dello ione magnesio.

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Nello studio di Liamis et al, del 2012, l’incidenza dell’ipocalcemia associata ad ipomagnesemia era del 22%, le cause sono principalmente correlate con l’influenza del magnesio relativamente al rilascio dell’ormone paratiroideo (PTH), che nel caso dell’ipomagnesemia risulta alterato, e alla resistenza che i tubuli renali offrono all’azione del paratormone (Shils 1980; Cronin et al. 1983).

A supporto di questa teoria, è stato dimostrato che una terapia reintegrativa di magnesio che permetta di ristabilire la normale concentrazione del catione nel sangue, è in grado di stimolare il rilascio dell’ormone paratiroideo immagazzinato oltre che determinarne anche la neo sintesi (Habener et al. 1975).

Un altro reperto clinico comune, che tendenzialmente caratterizza il paziente critico, è l’ipotermia.

Uno studio condotto in umana nel 2001 da Polderman et al, nell’unità di terapia intensiva dell’ospedale universitario di Amsterdam, ha voluto valutare gli effetti benefici dell’ipotermia indotta sui pazienti che erano andati incontro ad un grave danno cerebrale, ai fini di limitare il danno neuronale post ischemico e controllare gli elevati valori di pressione intracranica (ICP).

Dal trattamento, però, erano emersi diversi effetti collaterali, uno fra tutti la tachiaritmia cardiaca, e che oltretutto aveva costituito seriamente un rischio mortale per i pazienti. Da questo reperto gli autori hanno ipotizzato ed indagato che la causa dell’aritmia fosse legata agli squilibri elettrolitici indotti dall’ipotermia terapeutica. Il rischio di sviluppare aritmie diventava potenzialmente drammatico per temperature corporee inferiori ai 30° C. Tra i motivi legati alla perdita di elettroliti dovuta all’ipotermia gli autori hanno riportato la poliuria indotta dall’ipotermia, e l’utilizzo di farmaci come il mannitolo. Gli elettroliti coinvolti erano magnesio, potassio e fosfato.

Lo ione magnesio è coinvolto in oltre 300 reazioni enzimatiche, e come già menzionato, uno dei suoi importanti ruoli come cofattore e regolatore, coinvolge la

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pompa sodio-potassio; bassi livelli di magnesio sarebbero quindi, responsabili di aritmie cardiache, irritabilità neuromuscolare, ipertensione e vasocostrizione (Nadler et al. 1995) e per questo associata all’aumento del rischio di mortalità nel paziente critico (Chernow et al. 1989).

Figura 2.1 Rappresentazione schematica delle variazioni elettrocardiografiche dovute ad

ipomagnesemia moderata (A) e grave (B), comparate a quelle date da iper-kalemia e – calcemia, ed ipo-kalemia e –calcemia (Seelig 1969)

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È chiaro che le alterazioni elettrolitiche possono di per sé costituire un rischio, così come contribuire ad incentivare le complicazioni cardiache legate alle basse temperature corporee e al trauma neurologico.

Nello studio di Polderman et al. (2001) non solo si considera che la riduzione dei valori sierici degli elettroliti sia dovuta all’aumentata escrezione urinaria, ma si tiene conto anche di una componente data dallo shift intracellulare degli ioni; i pazienti infatti sono stati trattati con alti volumi di infusione per indurre uno stato iperdinamico, la sola perdita urinaria di elettroliti, quindi, non avrebbe ragione di determinare l’abbassamento dei loro livelli nel sangue, ma le perdite dovrebbero essere compensate.

Lo shift è dovuto ai valori di pH che a causa dell’ipotermia si abbassano, determinando l’acidosi, le cariche positive quindi, come gli ioni potassio, si muovono verso l’interno della cellula, come meccanismo compensatorio.

È anche probabile che alla base della perdita renale di elettroliti si nasconda un’alterazione della normale funzionalità renale, considerando la criticità dei pazienti presi in esame; questo aspetto si sommerebbe alla diuresi indotta dall’ipotermia che, da sola, sarebbe un elemento troppo debole per giustificare le alterazioni elettrolitiche rilevate (Polderman et al. 2001).

L’ipomagnesemia, ipokalemia, ipocalcemia ed in misura minore l’ipofosfatemia, sono quindi associate alle aritmie cardiache, a maggior ragione se più di uno solo di questi stati è presente nel paziente. È giusto considerare che per quanto riguarda i pazienti presi in esame nello studio di Polderman, il danno cerebrale che li caratterizzava è di per sé associato ad una danno del miocardio ed ad alterazioni elettrocardiografiche (Keller et al. 1993), ciò non toglie però, che il monitoraggio degli elettroliti e, nel nostro caso di particolare interesse, il magnesio, costituisca un aspetto rilevante nella gestione del paziente critico.

Lo studio, tiene conto dell’ipotermia indotta come strumento terapeutico, nello specifico del danno cerebrale, ma i meccanismi alla base dei conseguenti squilibri

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elettrolitici sono gli stessi dell’ipotermia a cui i pazienti critici vanno spontaneamente incontro.

Uno studio condotto su topi (Vink et al. 1988) ha indagato sulla natura del danno che colpisce il sistema nervoso centrale secondariamente ad un trauma, rilevando che per la maggior parte le conseguenze sono dovute non al danno primario, ma alle alterazioni biochimiche che lo seguono; in particolare, gli autori hanno valutato i valori di magnesio libero intracellulare.

Nel gruppo di animali che avevano subito il danno, rispetto al gruppo di controllo, il magnesio era significativamente diminuito, fino al 69% nell’arco di un’ora, contro il 13% di riduzione del magnesio totale. Gli animali che avevano subito un danno minore mostravano scarsi deficit neurologici a distanza di 24 ore, al contrario di quelli che avevano subito un danno più consistente; l’outcome di questi pazienti è risultato essere correlato al grado di carenza di magnesio, infatti i topi appartenenti al gruppo di animali meno danneggiato presentava anche una diminuzione dei valori di magnesio meno importante, in contrasto con il gruppo più colpito ed in cui l’alterazione dei valori del catione risultava essere più consistente.

Il rapporto tra la deplezione post traumatica di magnesio e l’outcome neurologico degli animali si pensa possa essere dovuto al danno secondario tissutale; i topi infatti se trattati per via endovenosa con solfato di magnesio (MgSO4), prima di subire il

danno neurologico, non andavano incontro alla deplezione del catione, come succedeva invece nel gruppo di controllo trattato con una soluzione salina, in cui il magnesio si abbassava del 79% dopo circa 3 ore.

Un rilievo da considerare è che, secondo lo studio di Vink et al (1988), il trattamento preventivo con solfato di magnesio migliorava significativamente l’outcome neurologico degli animali già dopo 24 ore, in confronto al gruppo di controllo. Uno studio sperimentale (Salem et al. 1995) condotto su 299 topi, ha voluto valutare se la progressiva carenza di magnesio potesse avere dei risvolti sull’outcome dei

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pazienti che presentassero endotossiemia; gli autori hanno suddiviso lo studio in tre esperimenti.

Nel primo sono stati valutati i valori di magnesio totale e ionizzato nel sangue degli animali a cui erano state somministrate in maniera randomizzata o una soluzione placebo o endotossine, tutto ciò utilizzando un campione basale e successivi campioni a diverse distanze di tempo dall’infusione.

Nel secondo esperimento gli animali sono stati suddivisi e valutati in base all’apporto nutrizionale di magnesio, per cui alcuni topi non erano stati sottoposti a nessun tipo di restrizione alimentare, alcuni erano stati alimentati per tre settimane con una dieta carente di magnesio, e gli ultimi allo stesso modo, ma per un periodo di sei settimane, sempre con metodo randomizzato.

Nel terzo esperimento, i topi che erano stati sottoposti alla restrizione di magnesio, sono stati trattati alcuni con cloruro di magnesio (MgCl2), altri con una soluzione

placebo e valutati.

I risultati ottenuti sono significativi ed interessanti. La somministrazione di alte dosi di endotossine ha determinato, infatti, un forte aumento delle concentrazioni di magnesio totale circolante, e similmente anche il magnesio ionizzato è risultato aumentato a dosaggi di endotossine oltretutto inferiori rispetto al magnesio totale. Il gruppo di soggetti che erano stati sottoposti a restrizione alimentare di magnesio nel secondo esperimento quindi, presentavano un’incidenza di mortalità maggiore, a causa dell’associazione tra endotossiemia e carenza di magnesio.

Nei topi in cui l’apporto di magnesio era normale, il tasso di mortalità era del 43%, in quelli sottoposti a tre settimane di restrizione invece era del 65%, ma il picco veniva raggiunto negli animali che avevano subito una restrizione di sei settimane, in cui l’incidenza della mortalità arrivava all’ 83%.

Infine negli animali che erano stati preventivamente trattati il tasso di sopravvivenza aumentava significativamente rispetto al gruppo di controllo.

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Considerati, quindi, l’aumento delle concentrazioni di magnesio totale e ionizzato nel sangue dovuta alle endotossine, dell’incidenza di prognosi infausta legata alla carenza di magnesio e dell’effetto benefico della terapia preventiva con magnesio sull’outcome dei soggetti, Salem et al, (1995), concludono che il magnesio possa giocare un ruolo importante in caso di endotossiemia, predisponendo a un peggioramento dell’outcome nel caso della carenza del catione, e determinando benefici significativi nel caso venga applicato un trattamento terapeutico con magnesio.

Lo studio supporta la teoria che l’incremento della concentrazione del magnesio circolante possa essere associato al danno cellulare (Salem et al. 1995).

Uno studio più recente (Lee et al. 2011) ha dimostrato che l’utilizzo del solfato di magnesio (MgSO4) possa ridurre il danno acuto polmonare indotto

dall’endotossiemia, a sostegno del ruolo dello ione magnesio come modulatore dell’infiammazione (Kao et al. 2011).

Gli autori hanno confermato l’efficacia del trattamento con solfato di magnesio, in maniera dose-dipendente, nel ridurre la risposta infiammatoria del polmone, lo stress ossidativo ed il danno polmonare acuto nei topi, in cui era stata indotta l’endotossiemia. (Lee et al. 2011).

Lo studio di Malpuech-Brugere et al, del 2000, ha valutato gli effetti della carenza di magnesio nei topi concentrandosi sulla risposta di fase acuta dell’infiammazione; dall’osservazione è emerso che conseguentemente al ridotto apporto di magnesio con la dieta gli animali andavano incontro ad una “simil crisi allergica” caratterizzata da risposta leucocitaria e variazioni delle sottopopolazioni di leucociti.

I livelli plasmatici delle proteine di fase acuta erano aumentati, così come la concentrazione delle alpha2-macroglobuline risultavano essere più alti rispetto al gruppo di controllo, accompagnato da un aumento epatico dei livelli di RNA messaggero codificante per queste proteine.

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Altri rilievi di laboratorio hanno incluso il reperto di un largo numero di macrofagi nella cavità peritoneale dei topi e alti livelli di interleukina-6 nel plasma.

I risultati di questa indagine suggeriscono che la carenza di magnesio extracellulare possa essere responsabile dell’attivazione delle cellule infiammatorie dell’organismo (Malpuech-Brugere et al. 2000).

Un altro aspetto legato all’ipomagnesemia e alle conseguenze di quest’ultima nel paziente critico ha a che fare con la presenza di canali scambiatori di sodio e magnesio (Tursun et al. 2005) e dei canali TRPM 7 (transient receptor potential melastatin) (Fleig et al. 2004) nelle cellule del miocardio.

È in base a queste conoscenze che Watanabe et al, nel loro studio del 2011, ritengono che il magnesio costituisca un fattore funzionalmente importante per garantire lo sviluppo dell’energia necessaria alla riossigenazione delle cellule cardiache; i topi utilizzati nell’indagine, infatti, erano stati sottoposti ad una restrizione di magnesio con la dieta, e ad un esperimento che determinava ipossia cardiaca e successiva riossigenazione.

Nei topi in cui i valori di magnesio erano inferiori al normale mostravano una scarsa tolleranza all’ipossia e ridotta sensibilità alla riossigenazione dei miocardiociti, se invece si cercavano di mantenere livelli adeguati di magnesio la capacità di recupero della funzionalità cardiaca aumentava.

Lo studio suggerisce, quindi, fra le tante potenzialità del magnesio, che l’entrata del catione nella cellula del miocardio dal comparto extracellulare, possa avere un effetto protettivo contro il danno da ipossia/riossigenazione.

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Capitolo 3: Cenni sulle metodologie di determinazione

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