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ALUNNI STRANIERI IN CLASSE: COSA PENSANO LE INSEGNANTI DI UNA SCUOLA PRIMARIA?

6. L’importanza della formazione

Nessuna delle intervistate ha mai avuto a che fare con un tipo di formazione che avesse come oggetto di studio l’Intercultura. Formazione che però viene ritenuta necessaria al fine di svolgere delle attività per aiutare e favorire l’integrazione del bambino non solo in ambito scolastico ma anche in ambito sociale e che per tanti versi avrebbe sicuramente aiutato queste insegnanti ad attuare strategie e a non “inventare” delle pratiche.

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Insegnante I: «È assolutamente necessaria una formazione e soprattutto una formazione che riguardi l’Intercultura perché per tanti anni siamo andati avanti un po’ a tentoni.

Nel senso che la nostra scuola è da anni un polo di inserimento di bambini stranieri, neoarrivati e non solo. Negli anni passati succedeva che potessero arrivare a settembre ma anche a dicembre o a gennaio. Non avendo supporto esterno ci dovevamo

“inventare” delle strategie che invece adesso sono diventate una pratica che deve essere

“insegnata”. Non si può andare avanti a tentativi, si deve avere una strada ben chiara da seguire, anche perché ogni bambino è diverso e quindi una preparazione è assolutamente necessaria».

Insegnante A: «Per me la formazione è molto importante perché nel mio percorso scolastico, quando sono arrivata in questa scuola, non avevo assolutamente nessun tipo di esperienza di alunni stranieri perché venivo da una scuola di campagna dove non esistevano, per cui per me è stata fondamentale, oltre l'esperienza sul campo, anche una formazione».

Insegnante G: «Io sono una grande sostenitrice della formazione, nel senso che secondo me è importante per i docenti avere una formazione continua. In ambito interculturale la formazione è importante per trovare delle strategie e conoscere delle attività e delle proposte che aiutino a creare questo "famoso clima di classe positivo". Penso che nel momento in cui accogliamo bambini stranieri dovremmo svolgere delle attività che mettano i bambini nella condizione di presentare le loro caratteristiche, di raccontare cos’è che gli piace fare così da conoscere i gusti e le opinioni di tutti, facendo sì che il discorso non si concentri solo sulla diversità culturale ma sulle diverse caratteristiche di ognuno di noi. Così facendo si creerebbe un gruppo classe positivo, aperto e accogliente».

Insegnante D: «Non si può più pensare di vivere rinchiusi nella propria nazione, nella propria città, nel proprio quartiere. I flussi migratori ci impongono, al di là della nostra scuola, un’attenzione particolare all’Intercultura e non puoi fare inclusione se non sei inclusivo. Ci vuole una formazione interculturale, formazione che ci piacerebbe tanto fare, perché se ci fosse stata fin dall’inizio alcuni errori si sarebbero evitati».

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In sintesi, le problematiche riscontrate dalle insegnanti sono per lo più legate alla famiglia del bambino straniero e non al bambino di per sé, il quale viene visto come tutti gli altri.

Attraverso l’intervista dialogica è stato possibile rivivere la propria esperienza e questo fa sì che ci sia una trasformazione consapevole della dimensione professionale e personale, in quanto la propria storia rappresenta l’identità professionale che ci caratterizza. La capacità di ricostruire e di raccontare la propria esperienza permette di dare senso a situazioni ambigue e di riconoscere gli effetti delle azioni prodotte.

3.3. CONCLUSIONI

L’omogeneità non è una qualità “naturale” di un gruppo ma è una condizione imposta dalle istituzioni. Fare deviare “tutti i bambini “stranieri”, sia gli alunni neoarrivati che non parlano l’italiano, sia i bambini nati in Italia da genitori stranieri, in uno stesso plesso scolastico, significa immaginare di costruire due scuole diverse: una per gli italiani, una per gli stranieri, indipendentemente dalle loro competenze linguistiche ma in base all’unico criterio della diversa cittadinanza (Granata A., 2016). Questo processo viene chiamato “segregazione imposta” (Abdallah-Pretceille, 2005; Granata A., 2016) e deriva da un’azione ordinata e autoritaria. Questo accade sia nei regimi autoritari che in quelli democratici. La caduta di diverse dittature durante la “Primavera araba” ha fatto sì che iniziasse un periodo di instabilità e frammentazione sia a livello sociale che a livello culturale. Emerge il pluralismo che era vincolato dal potere dittatoriale, il quale imponeva un modello unico. Anche se scuole, strutturate attraverso criteri gerarchici e autoritari, seguivano l’idea di omogeneità in cui il maestro impartiva nozioni agli alunni senza che questi avessero la possibilità di domandare o di contraddire (Merjri, Hagi, 2013; Granata A., 2016).

Allo stesso modo, in Italia, e in connotati positivi, la diffusione della scolarizzazione di massa, di una lingua uguale per tutti, ha fatto sì che si creasse un popolo omogeneo ed unito. In quel contesto, l’omogeneità, era uno strumento necessario per sostenere l’uguaglianza sociale data dalla democrazia. In entrambi i casi è stata la legge a volere l’omogeneità. L’omogeneità culturale diventa un modello imposto dalle istituzioni e diventa “regola per tutti coloro che ne fanno parte” (Cesari Lusso, 2000; Granata A., 2016). Al contrario, “l’eterogeneità culturale viene vista come una forma di deviazione

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della norma, a tratti pericolosa e impegnativa da gestire. Questo sentire comune si riflette direttamente sugli immaginari delle persone e degli insegnanti, portati a costruire i propri gruppi e le proprie classi soltanto sul principio di somiglianza” (Granata A., 2016).

L’altro, sia che sia un nuovo bambino o un genitore che non parla l’italiano, è spesso visto come una minaccia perché porta all’interruzione di un equilibrio preesistente. “È un sentimento di timore comune perché è la nostra mente che funziona così: semplifica, divide in categorie, elimina le informazioni contraddittorie, ragiona per stereotipi e pregiudizi. Il confronto con l’altro ci fa paura. L’omogeneità ci rassicura e conferma le nostre certezze. C’è qualcosa di primordiale in questo modo di riflettere e più che imporci di “amare la diversità” dobbiamo cominciare a gestire dentro di noi, senza imbarazzi, le ambivalenze e i conflitti intrapsichici che la relazione con l’altro ci suscitano” (Granata A., 2016). Nel momento in cui incontriamo l’altro dobbiamo metterci in gioco, dobbiamo mettere in discussione quello che siamo, il gruppo al quale apparteniamo, il percorso che abbiamo costruito. Tanto più tale percorso è stato lungo e faticoso, tanto più la messa in discussione dei propri principi e dei propri valori sarà difficile. “Prendere atto dei limiti del nostro punto di vista ci porta a porci domande profonde su chi siamo e su ciò in cui crediamo. È il prezzo del decentramento culturale, che un ambiente eterogeneo può mettere in moto: guardare il mondo dal punto di vista di un altro” (Granata A., 2016). È quindi necessario partire dai bambini, insegnando loro l’ascolto, la curiosità, l’importanza del confronto.

“Agli insegnanti, dunque, è data la responsabilità di contribuire all’evoluzione della cultura, con le sue eresie, le sue trasgressioni, le sue innovazioni, le trasformazioni.

Perché nessuna cultura sopravvive senza una nuova generazione capace di farla propria e di interrogarla con le proprie domande e sovversioni” (Granata A., 2016).

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CAPITOLO IV CONCLUSIONE

Quanto fin qui esposto mette in evidenza come la multiculturalità faccia sempre di più parte delle nostre vite e come i flussi migratori portino ad un incremento delle famiglie straniere e quindi ad un aumento non solo di adulti ma anche di bambini. Questi bambini posseggono delle capacità interculturali che sono necessarie per fronteggiare i processi di globalizzazione che stiamo vivendo, processi caratterizzati dalla complessità e dal bisogno di ricercare nuovi modi di comunicare e di comprendere; per tali ragioni essi hanno il compito di aiutarci a cambiare il nostro Paese proprio perché rappresentano un fattore di apertura e di opportunità. Si può, dunque, dire che il cambiamento è legato alla multiculturalità e alla presenza dei bambini stranieri sul territorio e di conseguenza nelle scuole italiane.

Il costante aumento di bambini stranieri nelle scuole italiane fa sì che ci sia la necessità di tutelarne la cultura e la lingua d’origine attraverso attività interculturali che portino all’acquisizione dei diritti di cittadinanza e alla partecipazione alla vita della società in cui si è inseriti.

La scuola è chiamata a valorizzare le differenze etniche così da non ostacolare la formazione dell’identità del bambino. È, dunque, necessario creare un rapporto simmetrico, di apertura e di scambio affinché venga valorizzata la diversità e affinché si possa includere il diverso. La scuola è, inoltre, chiamata a promuovere in ogni individuo il senso critico e la capacità di mettere in discussione se stessi; tutto questo attraverso la promozione dell’educazione interculturale.

L’inserimento dei bambini stranieri nella scuola italiana non è semplice; sia che siano alunni stranieri ma nati in Italia, sia che siano alunni stranieri nati all’estero; la loro presenza comporta non solo problemi didattici, ma anche burocratici, organizzativi e relazionali e l’accento è posto sulla professione delle insegnanti, in quanto è necessario interrogarsi sui bisogni adatti ai bambini stranieri, sui contenuti didattici e sulle modalità comunicative adottate. Il mio obiettivo è stato, quindi, quello di capire come le insegnanti di una scuola primaria gestiscono la diversità culturale e la nuova realtà scolastica che si è creata.

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Ciò che ho compreso, anche grazie ai racconti delle insegnanti che ho deciso di intervistare, è che per gestire la presenza di alunni stranieri in classe e quindi la loro diversità culturale è necessario ricercare strategie volte ad indirizzare l’azione educativa verso atteggiamenti di fiducia, tolleranza e cooperazione. Queste strategie devono riuscire, inoltre, a far sviluppare nei bambini valori condivisi e il senso di appartenenza ad una comunità valorizzando la diversità e i diversi punti di vista. Degli esempi possono essere le attività di inter-cultura organizzate dalla scuola presa in esame proprio per favorire lo scambio interculturale oppure attività di classe rispetto all’origine e alla provenienza culturale di uno o più bambini stranieri cercando di non far sentire inferiore il bambino/i risaltando i punti di forza di ogni singola cultura e se la classe è talmente tanto variegata è bene far esternare i diversi tratti culturali. Così facendo verrà rafforzato il senso di identità personale, di gruppo, di classe e di scuola e verrà insegnato loro l’ascolto, la curiosità e l’importanza del confronto.

In una scuola a colori la sfida principale è quella di gestire la differenza in modo tale da non essere ricondotta all’uniformità e all’omogeneità e proprio per questo agli insegnanti è data la responsabilità di partecipare all’evoluzione culturale in quanto nessuna cultura sopravvive senza una nuova generazione in grado di interiorizzarla e di indagarla.

È bene che gli insegnanti sappiano gestire questa realtà e un limite potrebbe essere quello di un’inadeguata formazione interculturale. Sempre dalle interviste emerge, infatti, che nessuna delle insegnanti ha mai avuto una formazione che avesse come oggetto di studio l’Intercultura. Formazione considerata necessaria per migliorare le attività di integrazione e per favorire l’inclusione del bambino straniero e che avrebbe aiutato queste insegnanti a mettere in atto delle strategie e a non “improvvisare” delle pratiche.

Essere consapevoli della complessità e dell’importanza del proprio ruolo porta ad una maggiore attenzione ai problemi che gli alunni stranieri manifestano e quindi alla richiesta di una maggiore formazione da parte dell’insegnante.

Tutti i fattori presi in esame in ogni singolo capitolo sono tasselli di un unico puzzle, elementi imprescindibili che possono costituire uno spunto di riflessione sulla diversità culturale e sulle conseguenze che le nostre scelte, opinioni, strategie, come educatori, insegnanti e formatori hanno nella vita e nel futuro di questi bambini.

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