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Perché le imprese sono diverse le une dalle altre

Nel documento Novembre 20167 (pagine 80-83)

3. Le catene globali del valore nella nuova fase della globalizzazione

4.3 Perché le imprese sono diverse le une dalle altre

I divari di produttività osservati sono dunque caratterizzati da un elevato grado di persistenza. La variabilità dei risultati che si registra passando da un’impresa all’altra sembra riflettere l’esi-stenza di determinanti di carattere strutturale, inerenti alle stesse imprese. Ma che cosa effetti-vamente significa il termine “strutturale” in questa prospettiva?

Per inquadrare adeguatamente i risultati di questa analisi è necessario introdurre alcuni ele-menti concettuali: non per comporre una qualche rassegna rituale della letteratura economica sul tema; ma per chiarire il punto di vista logico – la prospettiva – a partire dalla quale la ma-teria è inquadrata nell’analisi del CSC. A questo fine vengono meglio esplicitate le basi logiche che stanno a fondamento dell’analisi; e, in particolare, le ragioni per cui si ritiene che l’esistenza di divari di performance tra le imprese, espressa non soltanto in termini di efficienza, come av-viene in questo capitolo, ma anche in termini di altre variabili (come quelle analizzate nei ca-pitoli 5 e 6), sia un connotato costitutivo di ogni sistema produttivo.

Le basi teoriche di questo modo di guardare al fenomeno rientrano nell’ambito di quella che va sotto il nome di Dynamic Capabilities View (DCV), secondo cui la possibilità (ex-ante) di un’im-presa di ottenere un risultato economico invece che un altro è funzione diretta delle “capacità” – intese in senso ampio – che si sono nel tempo accumulate al suo interno. Queste capacità di-pendono dunque dalle scelte passate dell’impresa (e sono in questo path-dependent) e defini-scono il perimetro della sua azione.

Il termine capability è stato introdotto nell’analisi economica da G.B. Richardson (1972) per de-finire il complesso dell’esperienza e del saper fare (skill) che caratterizzano e distinguono una specifica impresa rispetto alle altre. Questo concetto deve a sua volta molto al contributo di Edith Penrose (1959), la cui analisi contiene una estesa discussione del fatto che le competenze sono fortemente legate alla specifica impresa che le detiene. Le risorse di cui dispone l’impresa consistono in un insieme di attitudini e conoscenze che scaturiscono non soltanto dalla natura e dalle caratteristiche dei suoi componenti, ma anche dal fatto che essi hanno svolto la loro at-tività al suo interno e interagendo tra loro, sviluppando in questo modo un “saper fare” che li rende in grado di gestire i problemi di quella organizzazione, a parità di altre condizioni, me-glio di chi abbia svolto fino a quel momento la sua attività altrove. Dunque il fatto che le risorse di cui dispone un’organizzazione siano maturate al suo interno conferisce loro maggiori po-tenzialità rispetto a quelle che sia possibile semplicemente “acquistare sul mercato” in qua-lunque momento (ammesso che siano disponibili); e al tempo stesso rende quelle risorse massimamente efficienti all’interno di quel contesto rispetto ad altri.

Nella formulazione di Richardson queste risorse, definite appunto capability, sono quello che serve per gestire l’attività dell’impresa, che è un un fenomeno complesso che si sviluppa at-traverso una serie di fasi integrate e sequenziali, e che per realizzarsi richiede tempo, un coor-dinamento attivo da parte di un management e, in funzione di questo, la costruzione di un’architettura amministrativa. Questo principio, che può apparire ovvio a chiunque non si occupi professionalmente di economia, è in realtà diametralmente opposto a quello che

carat-terizza l’analisi economica standard, secondo la quale il funzionamento di un’impresa può es-sere invece stilizzato semplicemente nella forma di una “funzione di produzione”, in cui la produzione è concepita come qualcosa che si realizza meccanicamente e istantaneamente, come se si trattasse di “una ricetta per la bouillabaisse, in cui tutti gli ingredienti (K, L) sono buttati in una pentola, … scaldati (f.), … e l’output (X) è pronto” (Leijonhufvud 1986, p. 203).

In questa rappresentazione da libro di testo l’impresa – intesa come una organizzazione com-plessa – semplicemente non c’è, e tutto accade da solo. Ma in realtà produrre, oltre a essere prima di tutto la conseguenza di una volontà precisa (di una intenzione), è un processo che comporta la soluzione di una serie di problemi che emergono nel corso dello svolgimento del-l’attività produttiva, che non sono sempre prefigurabili ex-ante e che richiedono volta per volta risposte “creative” da parte di chi lo governa. E, in aggiunta, richiede un ruolo attivo anche da parte di tutti gli altri soggetti che agiscono dentro l’organizzazione, dal momento che lo stesso contratto di lavoro è per sua natura incompleto16.

Il cardine del processo di costruzione delle capability, in un quadro in cui la conoscenza si svi-luppa nello stesso svolgersi dell’attività produttiva e all’interno di una determinata impresa, è l’apprendimento che si realizza attraverso il learning by doing, ovvero attraverso l’esperienza la-vorativa. Sotto questo profilo l’approccio della DCV nasce su presupposti dichiaratamente smi-thiani17. Il principio alla base di questo tipo di apprendimento è la divisione del lavoro; su di esso vale la pena di spendere due parole per dissipare possibili equivoci.

Seguendo Loasby (1998, 1999 e 2000), si può dire che in Smith la divisione del lavoro – trainata dall’espansione del mercato – svolge un ruolo chiave in ragione delle economie che possono es-sere ricavate dal crescente ammontare di conoscenza che essa porta con sé. Il meccanismo si in-cardina sul fatto che la divisione dei compiti consente ai soggetti coinvolti di focalizzarsi su un ambito di attività più ristretto, mettendoli in condizione di acquisire un grado crescente di spe-cializzazione. È importante sottolineare che in questo schema la forza più importante che ge-nera apprendimento non è tanto lo sviluppo delle capacità (degli skill) che già esistono, ma proprio la creazione di capacità nuove: nel senso che, in un contesto di aumento della domanda, il lavoro può continuamente seguitare a dividersi, ogni volta avviando nuove forme di specia-lizzazione e dunque nuove conoscenze. Man mano che diversi soggetti divengono specialisti in diverse aree di attività quello che succede è dunque che l’ammontare complessivo di cono-scenza che essi generano endogenamente come gruppo diventa sempre più ampio (cosa che non accadrebbe se il lavoro non venisse diviso). In questo senso si può dire che “la teoria del-l’impresa fondata sulle capability può facilmente essere inquadrata nella teoria dello sviluppo economico di Smith, [in quanto] la divisione del lavoro è una divisione della conoscenza, e la conoscenza cresce perché viene divisa” (Loasby 1998, pp. 165 e 173).

Le radici smithiane delle capability ne fanno il motore di un sistema economico che, in quanto è alimentato su base endogena da processi di apprendimento che possono non esaurirsi mai, è

16La questione è ampiamente discussa da Simon in una lunga serie di contributi (cfr. in particolare 1991 e 1997).

caratterizzato da un cambiamento permanente su base strutturale, e appare dunque per così dire impossibilitato dalla sua stessa natura a “trovare” un equilibrio verso cui tendere. E che, per le stesse ragioni, produce una continua differenziazione tra le imprese (ciascuna delle quali sviluppa le proprie conoscenze a partire da quelle già detenute).

Su questi presupposti si inseriscono gli sviluppi successivi del quadro teorico, dai quali gra-dualmente emerge la DCV come chiave di lettura della natura strutturale dei divari di compor-tamento tra le imprese. Il learning by doing come processo permanente è alla base in particolare del concetto di routine, la cui formulazione originaria risale a Cyert e March (1992 [1963]) e che ha tro-vato una risistemazione nell’analisi di Nelson e Winter (1982). Il punto di partenza è che l’ap-prendimento indotto dall’esperienza (dalla “storia”) si accumula all’interno delle regole, procedure, convenzioni, strategie e tecnologie (che costituiscono appunto le routine) attraverso cui un’impresa opera. Questo specifico modo di agire, che risulta dal progressivo accumularsi al-l’interno dell’impresa di saperi definiti, si mantiene nel tempo (pur evolvendosi) come l’elemento che caratterizza la stessa identità dell’organizzazione. Le routine implicano dunque per loro na-tura continuità (path-dependence); ma implicano anche che la conoscenza che sta dentro le persone diventi gradualmente qualcosa che appartiene all’impresa in quanto tale. Questo significa che le conoscenze di tipo tacito (incardinate sull’esperienza individuale) evolvono gradualmente verso una forma di conoscenza collettiva che si realizza attraverso un processo di interazione sociale al-l’interno dell’impresa e quindi verso una vera e propria organisational knowledge18.

Rappresentare il funzionamento di un’impresa, invece che in termini di una funzione di pro-duzione, in termini della sua dotazione di “risorse organizzative” comporta uno slittamento de-cisivo del significato stesso della sua azione. Mentre infatti nel primo caso si assume implicitamente che tutto quello che le viene chiesto è semplicemente di scegliere la migliore tra alternative definite, in un quadro in cui la conoscenza è per definizione open source (date le con-dizioni iniziali, tutte le imprese si comportano nello stesso modo), nel secondo il principale problema dell’impresa è invece quello di scoprire o inventare quello che in quel momento è ancora sconosciuto. Nel primo caso si tratta di un problema sostanzialmente allocativo; nel se-condo di un problema prevalentemente creativo, che va risolto ogni volta in un modo diverso e a partire da risorse per definizione diverse da quelle dei concorrenti. In questo quadro la com-petitività aziendale è funzione non solo del livello dei costi, ma soprattutto della natura delle competenze detenute, che divengono un elemento di differenziazione strutturale tra le imprese.

18Il termine organisational si riferisce in questo caso all’impresa intesa come organizzazione, e non alle sole compe-tenze necessarie ad affrontare i problemi organizzativi. In questo senso l’intera locuzione potrebbe essere tradotta con l’espressione “competenze gestionali”. Una rappresentazione del meccanismo attraverso cui si realizza il pas-saggio descritto nel testo è contenuta nello schema suggerito da Nonaka (1994); schemi interpretativi analoghi si possono ritrovare in Bhatt (2000) e in Sanchez (2005). In una prospettiva più radicale si può affermare che la

or-ganisational knowledge è in quanto tale un attributo piuttosto dei gruppi che degli individui, nel senso che le stesse

conoscenze tacite di una organizzazione non possono essere ridotte alla semplice somma di quelle degli indivi-dui che le compongono (si veda Hodgson 1993). È comunque lo stesso Winter (2003) a suggerire una definizione delle organisational competences in termini di routine.

Ma, soprattutto, lo sviluppo di una qualsiasi forma di sapere su presupposti endogeni

(dyna-mic learning) comporta che l’impresa debba porsi il problema di governare le sue risorse in

un’ottica di lungo periodo, in cui il concetto di funzione di produzione, che presuppone risorse date, è inutilizzabile. In questa prospettiva la conoscenza deve evolvere (accumularsi) attra-verso un investimento continuo, poiché se questo non avvenisse (se il processo di apprendi-mento si interrompesse) la capacità di competere dell’impresa gradualmente si dissiperebbe. Questo significa che i vantaggi competitivi non possono essere acquisiti stabilmente attraverso il raggiungimento di un equilibrio (come se si trattasse semplicemente di individuare le con-dizioni che consentono di ricavare dalle risorse detenute una rendita di lungo periodo), ma de-vono essere rinnovati continuamente (da cui l’espressione dynamic capability).

Nella sua formulazione più recente19, la DCV sottolinea a questo riguardo anche che, ai fini del conseguimento di un vantaggio competitivo, le dynamic capability non dipendono esclusiva-mente dal “talento innato” di alcuni soggetti, né implicano necessariaesclusiva-mente l’esistenza di ca-pacità straordinarie; ma emergono dalla caca-pacità dell’impresa di ricreare continuamente la sua base di risorse grazie a un atteggiamento intenzionalmente orientato a questo fine. In questo senso i vantaggi competitivi non nascono da un agente economico che si limita a calcolare con-tinuamente prezzi e quantità, preoccupandosi di uguagliare ricavi e costi al margine; ma dai vertici di una organizzazione che formula incessantemente strategie originali sulla base di una visione soggettiva (contrastando in questo modo la path-dependence delle conoscenze fino a quel momento acquisite). È questa capacità che consente l’adattamento permanente dell’impresa ai mutamenti di contesto; ed è anche in ragione di questo che l’eterogeneità dei comportamenti e dei risultati delle imprese appartiene alla natura stessa del processo competitivo.

Nel documento Novembre 20167 (pagine 80-83)