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Imprese statunitensi operanti in Italia

Il concetto di stabilimento permanente, così com’è ora inteso in Italia, è più ampio di quello risultante dalla Convenzione con gli Stati Uniti. Ne segue, pertanto, cbe l’ Italia dovrà rinunciare a per­ cepire le proprie imposte (eccetto i tributi a favore degli enti locali non coperti dalla Convenzione), anche nei casi in cui uno stabili­ mento di un’ impresa americana in Italia si può ritenere permanente secondo le norme interne, ma non può essere considerato tale in forza della Convenzione.

5. Per quanto riguarda la ripartizione dei redditi fra i vari sta­ bilimenti, le convenzioni con la Francia, il Belgio e la Germania di­ spongono, in generale, che i contribuenti debbono presentare conti generali e particolari, come pure ogni documento necessario alla di­ stribuzione dei profitti, salvo, in mancanza di contabilità regolare e distinta, alle autorità finanziarie dei due Stati contraenti di inten­ dersi fra loro per fissare le regole necessarie alla ventilazione dei profitti.

Nella Convenzione con la Germania è, in particolare, previsto che le supreme autorità finanziarie dei due Stati contraenti stipule­ ranno un accordo speciale per regolare, in modo equo, la ripartizione del reddito delle imprese industriali e commerciali (accordo che non è stato, poi, stipulato).

La Convenzione con gli Stati Uniti d’America precisa che i pro­ fitti da attribuire allo stabilimento permanente sono quelli che si ritiene potrebbero essere stati da esso ricavati se si fosse trattato di un’ impresa indipendente operante nella stessa o in simili atti­ vità, alle stesse o simili condizioni, senza alcun legame con l ’im­ presa di cui è organizzazione permanente. Aggiunge ancora che le autorità competenti dei due Stati possono stabilire d’ accordo i cri­ teri per la ripartizione dei profitti (criteri che non sono stati fissati), e che nel determinare i profitti netti industriali e commerciali dello stabilimento permanente sono ammesse in detrazione tutte le spese, ovunque sostenute, ragionevolmente imputa oili allo stabilimento per­ manente, inclusa una quota di spese amministrative, esecutive e ge­ nerali.

Trattasi come si vede, di criteri assai generali, fondati, più che altro, sul presupposto che lo stabilimento permanente presenti una sufficiente autonomia economico-contabile, autonomia che, invece, il più delle volte, manca (si pensi, ad es., ad un semplice ufficio acqui­ sti che secondo le convenzioni con la Francia, il Belgio e la Germania costituisce stabilimento permanente). In pratica si deve, pertanto, far ricorso a criteri integrativi, come il giro di affari dello stabili­ mento in rapporto al giro di affari complessivo dell’ impresa, il capi­ tale investito, il numero e la qualifica dei dipendenti ed a ogni altro elemento tecnico o economico di cui si dispone.

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6. Il diverso significato che il concetto di stabilimento perma­ nente ha nella legislazione interna rispetto a quella internazionale, nonché da convenzione a convenzione, e la mancanza di criteri uni­ formi per la ripartizione dei profitti fra i vari stabilimenti perma­ nenti, rendono più incerta e difficile la determinazione della base im­ ponibile, danno luogo a disparità di trattamento fra imprese appar­ tenenti a Paesi diversi e sono, spesso, la causa del permanere nono­ stante le convenzioni — di doppie imposizioni. Il problema, tuttavia, non si presta ad essere risolto in maniera unilaterale, non trattandosi di questioni esclusivamente interne, ma di questioni che involgono interessi internazionali. La soluzione ideale, ovviamente, consiste­ rebbe nell’introduzione di criteri uniformi nelle legislazioni interne degli Stati; ma se ciò appare difficilmente realizzabile, è, quanto meno, da augurarsi che un indirizzo uniforme sia adottato nelle Con­ venzioni contro le doppie imposizioni. _

Considerato lo scopo di questo scritto, non riteniamo sia il caso di suggerire soluzioni in inerito al significato da attribuire al ter­ mine &« stabilimento permanente » ed ai criteri di ripartizione dei profitti fra i vari stabilimenti. Trattasi, invero, di problemi che ri­ chiedono ampi studi ad hoc e possibilmente da parte di rappresen­ tanti responsabili delle amministrazioni fiscali interessate. Sforzi in questo senso non sono mancati in passato (ved. le convenzioni tipo di Londra e di Messico compilate sotto gli auspici della S.d.lS1.) e continuano ad esser fatti al presente (ved. i lavori in corso del Co­ mitato fiscale dell’ O.E.C.E.) ; malauguratamente, però, essi non han­ no dato finora i frutti che si speravano.

L’ intensificato ritmo dei rapporti internazionali ed il nuovo cli­ ma di cooperazione in cui essi si svolgono, costituiscono un nuovo impulso alla ricerca di soluzioni e lasciano sperare che fecondi risul­ tati saranno raggiunti. Ma quello che più conta e che le soluzioni cui si sarà pervenuti siano accettate dal maggior numero possibile di Paesi.

R E C E N S I O N I

Antonio Be rliri, Principi di diritto tributario, Voi. X, Milano, Giuffrè, 1952, p. YI+394, L. 2.000 e voi. II, Tomo I, Giuffrè, p. 440, L. 2.500.

I due volumi sino ad ora usciti del vasto trattato di diritto tributario di Antonio Berliri (e che contengono : la parte generale ; i soggetti di diritto tri­ butario attivi e passivi; imposte, tasse, monopolii e divieti; rapporto di im­ posta e obbligazione tributarla), rappresentano a mio modesto avviso, un im­ portante contributo all’ avanzamento della teoria giuridica in questo campo e costituiscono una conferma — se ancora ve ne fosse bisogno — che il diritto tributario è ricco di importanti problemi teorici e si presta a costruzioni giu­ ridiche rigorose, non meno di altri settori del diritto di meno recente elabora­ zione e caratterizzata forse da un meno intenso dinamismo.

Uno dei meriti principali di questa trattazione del B. è di essere efficace­ mente polemica e di suscitare, con la propria penetrante critica, la precisa­ zione e l ’approfondimento (oltreché beninteso l ’eventuale rigetto) delle posi­ zioni attaccate. Non credo quindi di fare un torto al prof. Berliri, al suo spirito vivacemente critico, ma anzi di porgergli il migliore omaggio, soffer­ mandomi proprio soltanto su alcuni punti circa i quali — nonostante la soli­ dità e la acutezza delle sue tesi — a mio modesto modo di vedere, è da acco­ gliersi una soluzione contraria alla sua. Per altro, mi è d’obbligo avvertire che i punti su cui, modestamente, mi sembra che le impostazioni e le osservazioni del Berliri siano da accogliere sono dì gran lunga più numerosi : soltanto per la brevità di questa recensione, non mi soffermo a sottolinearli e a raccogliere i fecondi spunti che essere forniscono.

Non mi sembra che possa essere accettata la tesi del prof. Berliri (cfr. voi. I p. 235 ss. e voi. II p. 170 ss.) secondo cui nell’ ordinamento giuridico ita­ liano attuale l ’imposta è una obbligazione solo a volte di dare ed a volte anche di fare, tesi fondata sul fatto che in certe imposte l ’obbligazione viene adem­ piuta mediante la applicazione e l ’ annullamento di marche o contrassegni. S vero che il negozio di acquisto dei valori bollati è cosa diversa dal soddisfa­ cimento dell’obbligazione tributaria e si configura puramente come un negozio di diritto privato, secondo la tesi autorevolmente svolta dal Giannini e dal Pugliese. Ma ciò non comporta che l ’operazione di applicazione e annullamento di queste marche sia un fare, dal punto di vista del soddisfacimento dell’obbli­ gazione dell’imposta assolta in questo modo. Queste operazioni di applicazione ed annullamento, è vero, non rappresentano neppure, come qualcuno sostiene, la mera apposizione al documento della ricevuta del pagamento dell’ imposta. La carta bollata e le marche non sono una semplice ricevuta, sono qualche cosa di più. Appunto: esse costituiscono il mezzo di pagamento, quello che è stato definito, in modo un po’ figurato ma efficace, la moneta tributaria. Il ter­ mine « moneta » è certamente, in questa espressione, non rigoroso, dal punto di vista giuridico almeno, poiché, come giustamente osserva il Berliri, la marca

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ha un valore ed una utilità economica proprio e unicamente perchè permette di estinguere l ’obbligazione tributaria. Se questa viene abolita, la marca perde immediatamente valore. Ma per quanto il Berliri si sforzi di dimostrare il con­ trarlo, la marca non è altro che un mezzo di pagamento, non una merce in sè. Essa serve solo per un certo tipo di pagamento. Tuttavia, non potendo servire per altri scopi che questo, ciò dimostra che essa è solo un sostituto del denaro, per gli scopi particolari previsti dalla legge tributaria. Mentre il potere di ac­ quisto nominale della moneta proriamente detta diventa della controparte, con il passaggio dall’un soggetto all’ altro, il potere di acquisto della marca diventa dell’erario con la sua distruzione. Il pagamento dell’obbligazione tributarla viene effettuato anziché consegnando moneta, distruggendo questa particolare moneta, poiché è questo il modo di consegnarne il potere di acquisto nominale all’erario. Ora anche consegnare il prezzo, in una compravendita, è in un certo senso, un fare, ma ciò non pertanto la operazione di consegna del prezzo ri­ guarda una obbligazione di dare.

Un altro punto centrale, su cui mi sembra non si possa convenire con la impostazione data dal Berliri, per altro con una profonda e vasta indagine, è quello della definizione della imposta, in relazione al suo fine. Il Berliri re­ spinge (voi. I p. 215 ss.) ogni definizione giuridica dell’imposta basata sulla considerazione del suo scopo e pertanto critica, da questo punto di vista, la definizione di Santi nomano, secondo cui l ’imposta è « la prestazione obbliga­ toria di denaro ad enti pubblici, per il raggiungimento generale ed indistinto di fini pubblici, da parte di chi possiede una capacità contributiva in vari modi determinata » (che è sostanzialmente anche la definizione del Griziotti e quella accolta dal Vanoni, nelle lezioni del 1939) e la definizione del Giannini A .I l, secondo cui l ’imposta è « una prestazione pecuniaria che lo Stato od altro ente pubblico ha il diritto di esigere in virtù della sua potestà di imperio, origi­ naria o delegata, nei casi, nella misura e nei modi stabiliti dalla legge, allo scopo di conseguire una entrata ».

Osserva il Berliri che poiché il legislatore è libero di scegliere il presup­ posto che vuole, per fare sorgere l’obbligo della imposta (salvo, violando la Costituzione, il fatto che questa imposta sarà anticostituzionale, ancorché im­ posta), in relazione a tutti i possibili scopi, la considerazione di un valore « a priori » è estranea alla definizione di imposta, in senso giuridico. Cosi come l’illecito, per la scienza del diritto penale più avveduta, non è definibile con riferimenti contenutistici, ma è soltanto un fatto a cui la legge collega una sanzione, allo stesso modo, afferma il Berliri, l ’imposta non è definibile in modo contenutisttico ma semplicemente come « quella obbligazione che il legi­ slatore assoggetta alla disciplina propria dell’imposta » e, più descrittivamente « l ’obbligazione di dare o di fare coatttivamente, imposta in forza di una legge o di un atto da questa espressamente autorizzato, a favore di un ente pubblico, avente per oggetto una somma di denaro o un valore bollato e non costituente la sanzione di un atto illecito, salvo che la sanzione consista nella estensione a carico di un terzo di una obbligazione tributaria ». Per distinguere imposta e sanzione si deve dunque badare alle loro strutture giuridiche, conclude il Berliri. D ’ accordo, ma nei casi dubbi in cui gli elementi strutturali indicati dalla legge siano insufficienti a stabilire se si è in presenza di imposta o di sanzione di un illecito (e perchè non potrebbe esistere un tertium genus, della

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imposta sanzionatoriai), il riferimento finalistico, desunto dagli elementi esi­ stenti, può servire proprio per integrare gli elementi strutturali, riconoscendo all’obbligo la natura giuridica di imposta o di sanzione (o di questo eventuale tertium genus) con tutti gli effetti giuridici che ne discendono. La definizione del Berliri invece qui non soccorre. Ma non mi sembra che l ’esigenza, più che fondata, di depurare la costruzione giuridica in questo campo di elementi con­ tenutistici che contrastano con la natura deU’obbligo di imposta come obbligo ex lege e con il fatto che la legge non è contenutisticamente vincolata, nel nostro ordinamento (salvo per la statuizione di limiti negativi, nella Costitu­ zione), comporti di ritenere inammissibili definizioni come quella del Santi Ko- rnano e del Giannini A.D. A ben guardare, queste definizioni, non sono conte­ nutistiche : esse individuano la forma del giudizio di valore che il legislatore compie, non il suo contenuto. Dire che è illecito ciò a cui si collega una san­ zione è non già compiere soltanto una tautologia, ma indicare la forma del giudizio di valore del legislatore. Allo stesso modo dire che è imposta ciò che colpisce una capacità contributiva, in qualche modo determinata dal legisla­ tore, quando si rinuncia a dare un contenuto positivo a priori al concetto di capacità contributiva così come correttamente si deve, salvo i limiti costituzio­ nali negativi, significa compiere una tautologia e in tal guisa indicare la forma del giudizio dì valore : il campo dei possibili interessi che il legislatore, con la legge in questione, intende regolare. Del pari dire che l ’imposta serve a dare una entrata significa affermare che l’obbligo non ubbidisce a giudizi di valore della forma di quelli che si hanno quando si sanziona un illecito, ma ad un altro tipo. Troppo spesso si trascura, da parte di alcuni, la forza scientifica delle tautologie, che sta nella forma del giudizio che esse compiono, nel rap­ porto funzonale che istituiscono, indipendentemente dai valori assegnati poi alle variabili (per usare il linguaggio della logica matematica, che non è cosi lontana dalla logica giuridica), dal contenuto concreto del giudizio. Non è detto che le nozioni dì origine economica e politica che compaiono nel diritto tribu­ tario siano necessariamente contenutistiche. A volte sono presentate contenuti­ sticamente, per un difetto di impostazione giuridica (come è del resto giusti­ ficabile, agli inizi della elaborazione di una scienza) e quindi cadono giusta­ mente sotto la censura del giurista. Ma questa censura non si applica di neces­ sità a altre presentazioni di queste nozioni, compiute con il sufficiente rigore fo r ­ male: si tratta allora di nozioni che servono a costruire il sistema giuridico nel modo appropriato per questo singolo campo. Naturalmente con questa os­ servazione non voglio neppure dire che di per sò le nozioni contenutistiche di carattere economico e politico non abbiano cittadinanza nel diritto tribu­ tario: seppure con limiti ed adattamenti, a mio modesto avviso, questo può essere esplicitamente richiesto dall’ordinamento, in certe ipotesi. Mi preme soltanto di sottolineare che il riferimento a nozioni di origine economica e il riferimento contenutistico non sono di necessità coincidenti e che le avvertenze che valgono per questo non valgono di necessità per quello.

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Associazione bancaria italiana, Archivi Storici delle Aziende di Credito, con

una presentazione di Armando Sapori e una prefazione di Gino Barbieri, Roma, 1956, 2 voli., pp. XXIV-691, 399 + 333 illustrazioni, L. 12.000. Come è ben noto, questi due grossi volumi furono disposti e curati dal­ l ’Associazione Bancaria Italiana — in previsione del III Congresso internazio­ nale degli Archivi, svoltosi a Firenze nel settembre dello scorso anno — per accertare, a dirla con il Barbieri, « la ricchezza degli Archìvi Storici dei nostri più importanti istituti di credito, che hanno custodito e conservano con geloso amore i documenti della loro attività esplicata nei secoli scorsi ». Scopo dichiarato della pubblicazione era, infatti, quello di sottolineare l ’im­ portanza di questi archivi, non soltanto ai fini di una migliore comprensione della storia bancaria e di quella economica in generale, ma anche della storia sociale, intesa quest’ultima nel significato più ampio.

Nel suo insieme l ’opera si articola in tre parti; in quattro, se si considera la cospicua e preziosa documentazione fotografica, che delle altre tre costi­ tuisce utile integrazione. Formano la prima parte saggi monografici, lavorati prevalentemente su materiale archivistico bancario; la seconda e la terza, studi sui più antichi istituti di credito e sui loro archivi. Ma, com’è quasi superfluo rilevare, tutte e tre le parti puntano al solo obiettivo di documen­ tare la utilità che può rappresentare, per il progresso dell’indagine storica, per­ sino letteraria e filosofica, l ’approfondimento della conoscenza dei principali archivi delle antiche Banche italiane.

In verità, i saggi monografici presentati non sono tutti di storia bancaria. Ve ne sono alcuni che toccano da vicino addirittura la storia della cultura. Certo, bisogna riconoscere che, in questo campo, anche se abbiamo ben pre sente l ’ articolo di Armando Sapori sulla cultura dei mercanti toscani, ap­ parso anni addietro nella Rivista di Storia economica, non molti studiosi avrebbero potuto pensare ad un siffatto utilizzo dei documenti contabili. Piut­ tosto strana, per esempio, sarebbe apparsa la pretesa, che sembra avanzare il Nicolini, di voler illustrare l ’ azione di Camillo Colonna e della sua Acca­ demia filosofica con polizze e documenti di credito ; oppure, quella del Barbieri, di poter aggiungere nuovi elementi biografici, ai moltissimi già noti sul dram­ matico personaggio manzoniano della Monaca di Monza, compulsando i registri del Monte di Pietà della Milano del tempo. In realtà, e l ’una e l ’altra ricerca sono state non solo possibili, ma particolarmente feconde, appunto perchè si è ricorso ad una fonte archivistica estremamente seria, e di certo lungi ancora dall’essere esaurita.

Se dunque, gli Archivi delle aziende di credito possono recare siffatti con­ tributi al progresso della cultura, è evidente che luce maggiore essi possono recare alla conoscenza della storia economica. Non richiameremo ì molti e pregevolissimi studi che la storiografia, a buona ragione, già da tempo vanta in materia, ma accenneremo allo studio del Miani-Calabrese, TJn sondaggio statistico fra gli usi commerciali nella Napoli del ’600, compreso in questa raccolta, per sottolineare come permangano ancora inesauste e molteplici le possibilità di sfruttamento del materiale archivistico bancario. Questo, sempre che non si voglia tener presente che anche la storia bancaria italiana ha bi­ sogno di essere studiata ed analizzata, e che molti insegnamenti possono an­ cora venirci da essa. Nell’orbita di questi studi, il volume presenta, tra gli

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altri, quasi a voler sottolineare la varietà e complessità delle deficienze esi­ stenti in questo campo, una pregevole indagine del Camaiti (L ’attività ban­ caria in Siena nel ’600 attraverso la ricostruzione e l’ analisi statistica di 100 bilanci del Monte dei Paschi di Siena); una minuta esposizione del Demarco (Una pagina di storia bancaria italiana: la espansione territoriale della Banca Nazionale Sarda e i tentativi di soppressione del Banco di Napoli (1860-1863)) ; un’utile analisi del Mira (Note sul Monte di Pietà di Perugia dalle origini alla seconda metà del XVI secolo). Da ricordare, inoltre, specie su questa Rivista dedicata alla finanza pubblica, l ’ interessante ricerca del Lodolini (1 Monti Camerali nel sistema della Finanza pontificia), nella quale l ’A., intesi i Monti Camerali come enti giuridici a sè stanti e come prestiti pubblici ad interesse, sottolinea l ’importanza che essi ricoprivano quali gangli della pub­ blica economia e del benessere dei privati e quale prezioso strumento nella difesa armata del Cattolicesimo.

Ma che anche la storia delle Banche abbia bisogno di approfondimento risulta in modo chiaro ed inconfondibile soprattutto dalla lucida e, a volte, polemica presentazione che all’intera raccolta ha voluto far precedere Ar­ mando Sapori. Secondo le sue parole, infatti, mentre « le ricerche sulla banca e sul credito si sono rivolte fino ad ora a preferenza al periodo delle origini che è quanto dire ai secoli della affermazione e del dominio della banca pri­ vata — si sono trascurati i secoli del sorgere e del crescere della banca pub­ blica ». Tuttavia, egli non sottolinea soltanto l ’opportunità di colmare codesta lacuna, ma anche di farlo alla luce di un’obbiettiva storiografia. Per esempio, è di notevole rilievo e degno della miglior considerazione l ’interrogativo che egli pone circa la validità di certa « storiografia che definisce ’ ’catastrofico” il periodo napoleonico in Italia ». In fondo, ci sembra pienamente accettabile il suo convincimento che da un più attento esame di quel periodo possa « darsi che tale giudizio si modifichi a quella guisa che, al seguito di indagini più complete, si va riducendo la condanna, già sembrata senza appello, della do­

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