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Inconvenienti» del lavoro di gruppo dì M aria C alogero C om andini

Mi viene richiesto di poter ristampare su questo numero di Centro Sociale (che si pro­ pone come un testo di uso didattico) un articolo pubblicato in questa stessa rivista nell’anno 1956 (a. I l i , n. 10-11, pp. 26-30).

Alla ovvia domanda e grave dubbiose metta conto di rimettere in circolazione quelle note, mi viene risposto citando l’opinione di gente del mestiere operatori e inse­ gnanti nel campo del servizio socialeche sì, mette conto. Il dubbio ha il suo fondamento non soltanto nella data della prima pubblicazione, ma nel fatto che quello scritto più che un articolo era un insieme di riflessioni collegate a una particolare occasione, e riferite agli arti­ coli che lo precedevano in quel fascicolo. L ’occasione consisteva in un seminario, tenuto presso il CEPAS, sulla « dinamica di gruppo », diretto da tre docenti americani, D.A. Nylen, H.A. Thelen, H.J. Leavitt, tutti con alte qualifiche scientifiche e professionali, e impegnati in programmi relativi all’insegnamento delle Human Relations (a quel tempo espressione non ancora logorata da un uso ed abuso eccessivi). Gli articoli erano due: il primo, di Niccolò Numeroso (pp. 5-21), era un resoconto accurato e sostanzialmente entusiasta, anche se con qualche riserva, sull'andamento del seminario; l’altro, di Adriano Ossicini (« I gruppi dia­ gnostici», pp. 22-25), anche se largamente consenziente sulle tecniche usate dai tre esperti e quindi sull’aspetto pedagogico-didattico del seminario, manifestava una sua grave preoccupa­ zione: che le terminologie usate e una certa vaghezza di linguaggio qualificante potessero, attraverso il riferimento continuo al gruppo come « realtà autonoma», senza definirne i limiti, « sconfinare in posizioni mistiche », laddove il gruppo « non è una realtà primordiale, ma è una realtà. composita risultante dai rapporti inter-individuali ». Chiariti così gli imme­ diati precedenti dell’articolo, qual’era la mia posizione, affidata alla pratica del « lavoro di gruppo » e alla conoscenza libresca della dinamica di gruppo (io non avevo potuto parteci­ pare al seminario, perché stavo a quella data all’Università di Berkeley, dove per altro seguii un seminario analogo)? Mi rifacevo essenzialmente a quella che era, allora, circa dieci anni dopo la fine della seconda guerra mondialee circa dieci anni prima del 1968 e quasi vent’anni prima di questo angoscioso 1978 mi rifacevo a quella che era ancora in quei tempi una delle nostre preoccupazioni dominanti, analoga per altro a quella che Adriano Ossicini vedeva nella mistica del gruppo di contro alla realtà delle motivazioni com­ plesse e difficili dell’individuo-, il passaggio da una società «fasc ista», per dirla in una parola sola, a una società « democratica ». Di qui il titolo dell’articolo, che riprendeva una citazione da Leavitt riportata da Numeroso (v. sopra, pp. 20-21): « E ’ evidente che se si cerca di far funzionare, nell’ambito di una struttura improntata all’autoritarismo, un gruppo destinato ad operare con largo senso di partecipazione sulla base di principi democratici, occorre richiedere sia ai membri sia al capo di tale gruppo di prescindere temporaneamente dalla loro abituale posizione gerarchica ». « Noi siamo del parere che l’inserimento di una sottostruttura democratica in un’altra diversa struttura di natura gerarchica ed autocratica può facilmente produrre inconvenienti ».

Dopo queste rapide informazioni, la sconsolata conclusione che quel problema è oggi attuale come allora, e forse più profondamente e precisamente di allorasol che si pensino

le discussioni circa il centralismo democratico e il processo decisionale; la spietata orga­ nizzazione del consenso e l’attenzione partecipe per il dissenso; il significato di compromesso nel passaggio dai principii all’azione; il rinnovato porsi dell’individuo dopo la mitologia confusa dell’assemblearismo e del panpoliticismo rispetto alla professionalizzazione, alla divisione delle competenze, alle varie sfere dell’operare [e del pensare) umano; la rinascita dei diritti dell’uomo come norma di giudizio —, la constatazione della attualità bruciante di questi problemi oggi (o sempre?), sono sufficienti a giustificare la ripubblicazione dell’artìcolo? Può darsi. Ma in tal caso, l’articolo dovrà essere pubblicato così come fu scritto: rimetterci le mani ora è impossibile, bisognerebbe riscriverlo da capo. Forse, cosi come, può essere utilizzato anche come documento « storico » di anni in cui la professione di assistente sociale era ai suoi inizi e le ancora verdi speranze resistevano impavide a prove già molto dure.

M .C .C .

Accogliendo l’invito implicito nell’ultimo capoverso dell’articolo di N. Numeroso (« il problema, quindi, è più che mai aperto ») circa le Human Relations, vorrei qui aggiungere alcune osservazioni pertinenti non tanto a questa particolare attività, quanto ad alcuni analoghi aspetti del servizio sociale di gruppo.1

Adopero la dizione servizio sociale di gruppo come indicativa di quella atti­ vità che è diretta all’individuo e per la quale la esperienza di convivere consa­ pevolmente in un gruppo è strumentale per tutti i suoi membri ai fini di vivere, e convivere, in questo mondo (e non nel gruppo) con minore insoddisfazione e maggiore autonomia e partecipazione.

I « compromessi » considerati dal Leavitt sono gli stessi che Simone Weil vede, come unici possibili, per un miglioramento della condizione operaia nella fabbrica: « occorre dar loro il senso di collaborare ad un’opera, dare la nozione del coordinamento dei lavori. . . informare gli operai di tutte le innovazioni, mu­ tamento di metodi, nuove fabbricazioni, perfezionamenti tecnici » ?

Mentre per la Weil questi compromessi sono il risultato della ricorrente lotta fra industriali e sindacati, per gli operatori delle Human Relations i compromessi sono il risultato dell’« inserimento di una sottostruttura democratica in un’altra diversa struttura di natura gerarchica ed autocratica ».

Entrambi riconoscono che il problema è connesso col fatto che l’organizzazione industriale ha per suo fine primario la produzione, laddove l’attività di gruppi democratici e delle organizzazoini operaie hanno come fine primario la condi­ zione degli individui.

Entrambi sanno che la coesistenza di queste due attività « può facilmente produrre inconvenienti ».

Finora il problema del servizio sociale di fabbrica e stato considerato preva­ lentemente in Italia come un problema di dipendenza economica, e cioè di indipendenza dell’assistente sociale, il quale deve operare in proprio, sicuro da ordini che possano fare (o possano far credere che facciano) del servizio sociale

un mezzo per fini differenti.3 Quando poi si fissi l’attenzione, come facciamo in questa nota, in particolare sul servizio sociale di gruppo, questo problema si fa anche più delicato, perché il tipo di esperienze sollecitate dall’animatore di gruppo vogliono suscitare negli individui esigenze opposte a quelle su cui si fonda l’ordine autocratico.

In Italia non credo che ci siano assistenti sociali che si occupano di Human Relations, ma le precedenti osservazioni possono essere utili per chiarire una delle difficoltà nelle quali il servizio sociale di gruppo viene spesso a trovarsi e che, in certo senso, il servizio sociale non può risolvere, perche tale difficolta va risolta in altra sede.

La situazione dell’assistente sociale operante in strutture organizzative che hanno come fine primario un fine diverso da quello del servizio sociale, è molto frequente: le difficoltà potranno essere diverse nel caso che l’organizzazione abbia un carattere sociale come un ospedale, o un carattere tecnico-economico come un ente di riforma, ma teoricamente i problemi sono analoghi.

In un ospedale: l’assistente sociale non potrà lavorare, se non riconoscerà che egli fa, in quell’ente, un lavoro sussidiario, con quel che ciò comporta; i sanitari decideranno non solo la terapia del malato, ma dove e quando egli dovrà dormire, dove, quando, che cosa mangerà, la dimissione, ecc. L ’assistente sociale avrà anche il compito di aiutare il malato a guarire e i sanitari a farlo guarire: dovrà per­ suadere tutto il personale dell’ospedale e il malato stesso che egli è lì anche per quello. Ma egli ha un suo metodo di lavoro: un metodo in cui mezzi e fini non sono più distinti, si condizionano a vicenda, nascendo ininterrottamente gli uni dagli altri. Questo suo metodo di lavoro in un ente di cui il servizio sociale di gruppo è un’attività sussidiaria gli suggerirà di accettare compromessi su com­ promessi in un certo ambito, ma nessun compromesso in un altro. Per esempio, tenendo ben presente dove egli è e perché è lì, accetterà senza batter ciglio che il personale sanitario si senta più importante di lui o che, nella migliore delle ipotesi, occorra molta pazienza e molto tempo prima che si decidano e conti­ nuino a considerarlo come un collaboratore, alla pari.

Pazienza se gli infermieri non saranno sempre là ad aiutarlo per spostare i malati immobilizzati; pazienza se ci vorrà tempo ad ottenere una stanza per­ ché il gruppo dei pazienti possa riunirsi; pazienza se qualcuno brontolerà e con­ sidererà le riunioni del gruppo un perditempo per tutti; pazienza se gli orari saranno difficili; pazienza se ci vorrà tempo per ottenere, intorno al funziona­ mento dell’ospedale, tutte le informazioni possibili o le informazioni sanitarie intorno ai malati e alle loro possibilità fisiche di partecipazione ecc. ecc., sempre pazienza; ma, chiusa la porta della stanza di soggiorno, allora, lì dentro, il me­ dico, l’infermiera, il terapista, l’amministratore sono, se e quando ci saranno, membri del gruppo o esperti, così come l’assistente sociale di gruppo riterrà che dovranno essere e quando riterrà che dovranno essere presenti.

In questo caso, quando si dice assistente sociale è ovvio che si vuole intendere l’assistente sociale leader o animatore o, comunque, responsabile rispetto al

gruppo e all’ente; e quindi portatore di quei valori, quei fini, quel metodo che sono propri del suo mestiere.

Che cosa può accadere? Che, garantita la sovranità dell’assistente sociale in un ambito sia pure assai ristretto in confronto alle molteplici attività dell’ente, l’ente, a poco a poco, si renda conto che l’opera dell’assistente sociale, pur restando sussidiaria, abbia un’importanza analoga a quelle che l ’infermiere o il terapista o il maestro (in un ospedale pediatrico) hanno ai fini di far uscire dall’ospedale non solamente un uomo con tutti gli arti funzionanti, ma un uomo funzionante nella comunità in cui tornerà a vivere. E allora il mestiere dell’assi­ stente sociale diventerà integrante dell’ente ospedaliero e il suo lavoro avrà bisogno di sempre minori compromessi anche in tutto quell’altro tipo di lavoro di gruppo che noi indichiamo come lavoro di équipe e che l’assistente dovrà sempre fare con i rappresentanti dei vari altri servizi o con gli esperti dell’ente ospedaliero. Uno sviluppo di questo genere non è sicuro, ma probabile, e dipenderà in buona parte dalla capacità dell’assistente sociale di fare un buon lavoro sia come membro di un'équipe o di un comitato, sia come leader di un piccolo gruppo, sia come un esperto di rapporti individuali.

Ma in larga misura dipenderà anche dall’ente. Il comportamento dell’ente può variare, per infinite posizioni: dall’ente che richiede il servizio all’ente che non lo comprende fino ad espellerlo da sé o, peggio ancora, a volerlo manipolare ai propri fini.

E qui la differenza fra enti a fini sociali e enti a fini diversi si fa più chiara. Poiché, mentre è assai probabile che lo sviluppo di un’attività di servizio sociale in un ente a fini sociali sia quella cui si è prima accennato, meno rosea è la prospettiva per quanto riguarda un ente a fini diversi. Teoricamente, i pro­ blemi sono quelli stessi che un assistente sociale dovrà affrontare in un qualunque ente, che non abbia per suo fine primario il servizio sociale. Ma, in pratica, egli troverà maggiori difficoltà ad operare in un ente ad altri fini e ad evitare di essere apertamente considerato uno strumento dei « tecnici », o, sotto sotto, un occulto manipolatore di gruppi.

Quando si determini o sia molto probabile che si determini una situazione di questo genere, sia perché l’ente ad altri fini è per tradizione o per altri motivi troppo rigido e incomprensivo dei fini del servizio sociale, sia per una rico­ nosciuta necessità di divisione dei compiti, allora sarà utile che l’assistente so­ ciale lavori non già dentro, e come parte dell’ente ad altri fini, ma al di fuori di questo ente, in un ente di servizio sociale con chiari compiti, il quale tratti da pari a pari e con opportuni accordi e contrasti con l’ente ad altri fini.

E ’, probabilmente, il caso del servizio sociale di gruppo nella fabbrica, dove l’assistente sociale può restare soffocato fra i due fortissimi gruppi (sindacato e organizzatori della produzione) che dominano la vita della fabbrica; ed è proba­ bilmente il caso degli enti di riforma dove, per motivi analoghi e diversi, i compiti del servizio sociale dovrebbero essere affidati alle condotte comunali di servizio sociale oppure ad altri enti di servizio sociale su base nazionale, a cui l’ente di riforma riconosce fini e metodi differenti dai suoi.4

E non solo fini e metodi, ma dimensioni diverse. Una condotta comunale o un ente nazionale di servizio sociale « rappresenta » la comunità e ha presente, nel suo agire, la comunità piccola e grande e non un settore della comunità o quel settore della personalità di un uomo che è impegnato nella fabbrica o nell’agricoltura.

Può sembrare che con questa conclusione noi abbiamo, percorrendo un cam­ mino diverso, indicato i motivi e dei compromessi e degli inconvenienti di cui s’è detto al principio.

La struttura gerarchica può essere immaginata come una piramide in cui una larga base è « schiacciata » da strutture verticali sempre più ristrette fino al vertice, che è il capo. Il capo ha tutta l’autorità, gli altri componenti la scala gerarchica sono insieme sottoposti e detentori di un’autorità delegata fino alla base della piramide che è tutta fatta di sottoposti. Una condizione umana che con il concittadino della democrazia non ha niente a che fare.

Se i principi, e quindi i fini e i metodi, del servizio sociale di gruppo sono tutt’uno con i principi e quindi i fini e i metodi di una società democratica, le difficoltà che gli operatori delle Human Relations incontrano sono le difficoltà stesse che il servizio sociale di gruppo incontra e incontrerà. Il giorno che per qualche imprevedibile miracolo difficoltà di questa natura non ci fossero più, il servizio sociale di gruppo non avrebbe più ragione di essere. In altre parole, la struttura gerarchica è, essa, anomala o, se vogliamo, è essa una non ancora risolta necessità in una società democraticamente orientata.

Il servizio sociale di gruppo, come servizio per l’individuo, ha una sua pro­ fonda ragione di essere anche perché quei gruppi gerarchici esistono, in quanto esistono, non fuori, ma dentro ogni singolo individuo.

Ed è solo aiutando lentamente ciascun individuo ad esigere una convivenza paritaria e a inventare le organizzazioni e i modi di lavoro che più la rispettino, che le strutture gerarchiche realmente si modificheranno.

Se la necessità di incrementare la produzione o la pressione dei gruppi demo­ craticamente allenati, o l’interesse scientifico o altre innumerevoli ragioni che muovono gli uomini all’invenzione agevoleranno di volta in volta questo pro­ cesso, tanto meglio.

Ma deve essere chiaro che il servizio sociale di gruppo crea inconvenienti, tanto più scomodi quanto più la società in cui si muove è vicina al gruppo gerarchico e meno vicina al gruppo democratico.

Se noi consideriamo questi scomodi inconvenienti come positivi o negativi, da affrontare o no, è un problema che non dipende né dalla psicologia, né dalla dinamica di gruppo, né dalle tecniche di qualunque specie. Dipende solo ed esclusivamente dalla nostra scelta morale, da quelli che noi scegliamo come i valori della nostra vita. Se vogliamo cambiare le situazioni o no e in quale direzione. Siamo dunque pronti ad esortare gli assistenti sociali di gruppo al compromesso, purché esso crei degli inconvenienti!

Non vorremmo avere l’aria di contraddire con uno scherzo tutto quanto ve­ niamo da tempo ripetendo circa i compiti del servizio sociale e per es. la sua collocazione nei confronti dell’attività politica e sindacale.

Il servizio sociale di gruppo, come il servizio sociale, opera dentro le strut­ ture esistenti e non si propone di mutarle, bensì di renderle operanti per la gente.

Potremmo qui richiamare gli articoli della costituzione (n. 3, n. 4, n. 32, n. 38) che si riferiscono al diritto di tutti i cittadini all’assistenza sociale.

Il significato di quegli articoli, per chi si occupa di assistenza, è fondamental­ mente uno e tocca la base stessa di uno stato democratico. Può essere espresso così: che bisogna dare al singolo uomo italiano il senso dello Stato, dello Stato di tutti.

E ’ quel senso dell’appartenenza di cui tanto si discorre nel servizio sociale di gruppo e per cui si dice che le decisioni di gruppo sono più valide e durature e funzionanti che le decisioni dei singoli. Le decisioni di gruppo sono le deci­ sioni consapevolmente accettate.

Tutte le tecniche del servizio sociale di gruppo (ricreative, culturali, educa­ zione degli adulti) sono strumenti al fine di dare all’individuo questo senso dell’appartenenza, questa consapevoleza e responsabilità della decisione presa in comune e sicurezza, coraggio, iniziativa.

Quando diciamo che non vi sono princìpi del servizio sociale di gruppo che non siano gli stessi paritari diritti di una società democratica, accenniamo al processo di trasformazione dal suddito in cittadino e in concittadino.

Quando diciamo che il servizio sociale di gruppo ha un posto importante, di sussidio validissimo, in questo periodo della nostra storia, pensiamo non già a creare dello scontento, ma ad aiutare il nascere e maturarsi di questo senso di appartenenza alla comunità di tutti e quindi allo Stato che, di essa, è l ’espressione organizzata, il simbolo funzionante.

Perché un gruppo, anche piccolo, faccia qualche cosa e viva per un certo periodo, i suoi componenti si accorgeranno (scopriranno, se l ’assistente di gruppo sa fare il suo mestiere) che è necessaria una certa strutturazione, sia pure embrionale, una divisione dei compiti, una accettazione consapevole di certi limiti: essere puntuali alle riunioni, versare i soldi a una cassa comune, sce­ gliere un luogo in cui riunirsi, tener conto degli inconvenienti che questo luogo può avere, scegliere i modi adatti per raggiungere qualche scopo comune, compromettere consapevolmente perché tutti siano il più possibile soddisfatti delle decisioni prese (perché nient’altro che la loro libera volontà di adesione li tiene nel gruppo) e via via.

Quel senso dell’appartenenza è, allora, radicato dentro i componenti il gruppo, è, per così dire, sentito e voluto e diventa l’energia da cui scaturisce e che dà ordine all’agire, all’invenzione comune.

Questa scoperta dell’ordinato vivere insieme, del fatto che collaborare e orga­ nizzarsi non significa mortificare la gente, ma dar più spazio alla creatività di

ciascuno, è la scoperta che a lungo andare darà i suoi frutti, anche per capire che cosa è lo Stato e sentirsene parte.

Non ogni stato, ovviamente, ma uno stato che il più possibile riproduca quel tipo di rapporti, di struttura, di funzionamento che ognuno ha scelto consape­ volmente e sperimentato come proprio.

Sperimentare che ogni gruppo, a seconda dei fini che esso ha (la famiglia, la scuola, l’esercizio, la cooperativa, il gruppo sportivo e via via), se vuol funzionare ha bisogno di una sua struttura, insegnerà a capire la necessità di uno Stato e a intervenire coraggiosamente e nei modi adeguati perché i vari gruppi di lavoro attraverso i quali lo Stato opera diventino funzionali ai loro fini.

Il servizio sociale di gruppo opera con metodi che aiutano gli uomini a co­ struire non una società anarchica, né una società gerarchica, ma una loro comu­ nità funzionante.

In questo senso, anche le strutture gerarchiche e la collocazione delle com­ petenze potranno essere capite e usate: tutti per esempio ci auguriamo che si studino minutamente e si approntino anche in Italia quelle organizzazioni per gli interventi di emergenza la cui presenza avrebbe certo risparmiato molti degli innumerevoli guai seguiti alle inondazioni del Nord e del Sud. Una persona che abbia esperienza della vita di gruppo, sa anche che in particolari circostanze è necessario prendere delle decisioni rapide: egli non si meraviglierà per nulla che

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