Dunque, ogni nuova teoresi sulla manifattura internazionale – in cui l‟automotive industry è un elemento essenziale – ha il pregio ermeneutico di essere una miscela fra elaborazione culturale astratta – secondo i principali topoi del mainstream scientista e ultraquantitativo di matrice anglosassone – e realtà storica incipiente.
Sotto questo profilo, nella costruzione teorica di un profilo interpretativo sulle principali evoluzioni del sistema industriale internazionale appare rilevante il contributo degli studiosi della Harvard Business School radunati intorno a Gary Pisano.
In particolare, l‟elemento culturalmente innovativo è rappresentato in primo luogo dal contenuto politico di questa scuola. Gli Stati Uniti e con essi tutto il mondo occidentale hanno sperimentato nel corso del Novecento una inesorabile riduzione del peso della manifattura nei loro equilibri economici generali.
Si tratta di un doppio fenomeno, che ha le sue cause nella crescita del terziario e nei processi di delocalizzazione delle attività industriali verso Paesi a minore costo del lavoro. Allo stesso tempo, si è imposta una cultura segnata dall‟egemonia della finanza. Una egemonia della finanza che è stata contemporanea con la dematerializzazione di pezzi interi dell‟economia statunitense e occidentale.
L‟esito di questo doppio processo è stato quella di un abbattimento valoriale della fabbrica e della manifattura nell‟universo ideologico occidentale, in particolare americano. A partire dagli anni Novanta, però, si è assistito a un cambio di rotta intellettuale. O, almeno, all‟introduzione di alcuni elementi di novità. In particolare, la riflessione sulla globalizzazione ha spinto a sviluppare una più compiuta e matura analisi dei cambiamenti interni alla manifattura internazionale.
La manifattura non è più apparsa come un elemento residuale di una struttura economica basata sui pilastri – accomunati da una immaterialità reale e simbolica – della finanza e dei servizi. Piuttosto, la manifattura è apparsa come una componente ancora essenziale della struttura economica. Sottoposta a una forte mutazione: non soltanto nei termini dello spostamento di fasi produttive in Paesi a nuova industrializzazione e a basso costo del lavoro; ma anche nei termini di una ricostruzione continua dei processi fisiologici e di un riassetto della propria natura in rapporto, appunto, ai nuovi fenomeni della globalizzazione. E, pure, nei termini identitari: che cosa una attività – intesa come macrospecializzazione, in questo caso appunto la manifattura – può dare a una società, a una comunità e a un Paese.
La riflessione di Gary Pisano, raccolta nel volume del 2012 Producing Prosperity: Why America Needs a Manufacturing Renaissance, contempla tutti questi elementi: teorici e “politici”. Questa analisi, che sintetizza il lavoro degli economisti della Harvard Business School che ha fatto da ispirazione per la svolta neo-manifatturiera dell‟ultima fase delle amministrazioni Bush e per l‟intera amministrazione Obama, offre un contenuto interpretativo – inteso come messaggio culturale di fondo – così forte da sopravanzare ogni valutazione metodologica.
In particolare, si ribadisce la natura centrale della manifattura in ogni processo di costruzione di una nuova fase di prosperità. Naturalmente, nella visione di Pisano, si tratta di una manifattura ibridata con l‟economia della conoscenza, il cui nocciolo duro sono le tecnologie dell‟informazione, in un connubio che prova a disegnare il profilo di un concetto di industria coerente, per esempio, con i temi del rispetto dell‟ambiente. E, da questo punto di vista, appare interessante ricordare come nella ri-edificazione della industria automobilistica americana, abbiano un ruolo fondamentale le tecnologie dell‟information technology e le tecnologie di controllo dell‟impatto ambientale: la Ford, l‟unica casa automobilistica americana a non essere fallita, è stata assai spinta dalle politiche industriali statunitensi a sviluppare tecnologie e motori di basso impatto ambientale; la Fiat ha ottenuto la Chrysler dalll‟amministrazione Obama inserendo nelle trattative le tecnologie per motori di piccola cilindrata che, con le loro basse emissioni e i loro bassi consumi, costituiscono una delle caratteristiche della casa automobilistica italiana.
Nel suo discorso nello stabilimento della Rolls Royce, in Virgina, il 9 marzo del 2012, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha detto: “An economy that is built to last…and that starts with manufacturing. For generations, manufacturing provided a ticket to the middle class….America thrives when we build stuff better than the rest of the world. I want us to make stuff here and sell it over there”.
Pisano, da questo punto di vista, adotta un approccio assai empirico: la visione storica della manifattura viene espressa soprattutto dal punto di vista del lavoro; non a caso, alla domanda retorica “Who is competing for your job?”, la sua riposta è “Before 1900 people from my town, before 1950 people from my region, before 1970 people from my country, before 2000 people from my trading zone” (Pisano, 2012). Dal 2000 in avanti, che con un taglio netto viene assunto come l‟acme del processo di globalizzazione avviatosi nei primi anni Novanta e che si sarebbe sviluppato con particolare intensità nella prima decade di questo secolo, la competizione per la conservazione del posto di lavoro viene affrontata, dal lavoratore occidentale, con i suoi omologhi di tutti i Paesi di nuova industrializzazione.
Dunque, in questa concezione la manifattura assume un duplice aspetto. Il primo aspetto è identitario, perché le si assegna una centralità quasi antropologica che, appunto, si esprime prima di tutto nel tema del lavoro, che costituisce una sorta di tassello essenziale nel mosaico civile e politico di una società in grado di sopravvivere alla modernità senza cadere in neo-luddismi o senza abbracciare il totem della finanza. E questo aspetto ha un valore insieme culturale e politico, comprensibile soprattutto se si considera che questa rivalutazione – effettuata prima in ambienti accademici del mainstream come quelli di Harvard e poi sussunta e trasformata in progetto politico dalla Casa Bianca – avviene all‟indomani della maggiore crisi economica dal 1929, innescatasi il 15 settembre del 2008 con il fallimento della banca d‟affari Lehman Brothers.
Il secondo aspetto riguarda il versante prettamente economico e ha una valenza ermeneutica. In questa concezione, di cui va sottolineata la capacità descrittiva dell‟inserimento della manifattura dentro ai meccanismi politico-economico-sociali del mondo occidentale e agli scenari interpretativi del capitalismo internazionale, non esiste alcuna “ideologizzazione” (in senso gramsciano) del problema della manifattura. Anzi, il tema viene affrontato con il pragmatismo fattualistico proprio degli ambienti universitari americani più a contatto con il mondo delle imprese (e più alieni, anche se non in contrapposizione concettuale, alla deriva ultraquantitativa degli studiosi di economia politica). “When manufacturing matters? It‟s not a story about creating “real value” (services create value too)” (Pisano, 2012).
Dunque, non esiste alcun tipo di contrapposizione con il resto dell‟economia. Non si forma alcun genere di perno concettuale intorno a cui si vuole costruire una nuova mitologia della fabbrica. Non si tratta, appunto, di una storia incentrata sulla creazione del “vero valore”. Anche perché il valore è valore. E non ha una differenza qualitativa a seconda dei suoi processi generativi. Non esiste un valore non reale. Non esiste un valore meno valore di altre. Anche i servizi creano valore. E i risultati, nella loro misurabilità, sono tutti identici.
Non ci sono attese messianiche per la manifattura. “It‟s not a story about job. Manifacturing is not a big job creator” (Pisano, 2012). Anche perché il processo di terziarizzazione delle economie occidentali è stato cosi profondo e pervasivo da avere contribuito a modificare radicalmente il concetto di manifattura, così che perfino nelle statistiche pezzi interi del modo di produrre occidentale – si sarebbe detto con Marx – hanno visto traslare componenti tipicamente manifatturiere – trasformatesi in servizi alla manifattura, il così detto terziario industriale – dalle statistiche sull‟industria alle statistiche appunto sui servizi. E anche perché – nonostante le ultime tendenze al reshoring e al backreshoring – i fenomeni storici di delocalizzazione delle fasi a minore valore aggiunto verso i Paesi di nuova industrializzazione hanno raggiunto condizioni di parziale irreversibilità.
Il problema, dunque, è più profondo. Il problema riguarda l‟essenza strategica della manifattura. “Manufacturing matters when it is integral to the innovation process” (Pisano, 2012). Dunque, è questo il vero nodo. La comprensione che nella manifattura alberga un potenziale innovativo che, nell‟esaltazione ideale e teorica del terziario come nuova frontiera dell‟occidente, a lungo le era stato negato.
“We have to be particularly careful when certain kinds of manufacturing capabilities provide a foundation for innovation across a broad range of industries” (Pisano, 2012). In questo schema interpretativo, che coglie bene la capacità della manifattura di condensare il Novecento e di incubare il secolo successivo, diventa essenziale il concetto di intersezione e di multidisciplinarietà, di condivisione orizzontale fra settori e di compartecipazione nelle strutture tecnoproduttive, interne ai processi puramente produttivi come ai campi limitrofi, in una nuova idea di industria che assume un profilo più liquido e plastico, più pervasivo e osmotico.
Sotto questo profilo, assume dunque una importanza essenziale il concetto di “Industrial Commons”: “innovation in different industries often feed off (and feed) the same Industrial Commons” (Pisano, 2012).
Nella visione degli economisti della Harvard Business School, ecco che i comparti principali della manifattura – l‟automobile, l‟aeronautica, le armi, i medical devices, gli strumenti scientifici e l‟equipaggiamento industriale – si trovano sui punti di intersezione di campi comuni: le macchine di precisione, il computer aided design, la tecnologia delle fibre a carbonio, l‟utilizzo delle ceramiche e dei vetri high-tech, l‟utilizzo della realtà virtuale come esito estremo dell‟Information and Communication Technology.
Il punto vero, però, non è dato tanto dalla sovrapposizione specializzativa di comune tessere che vanno a comporre plurimi mosaici (un comparto o l‟altro). Il punto vero è, piuttosto, rappresentato dalla costruzione di processi comuni a tutti questi comparti. E in questa comunione la formazione, l‟incubazione e lo sviluppo di capacità innovative che, a loro volta, vengono diffuse e condivise da più settori. Con una forza pervasiva e una spinta virale (benefica) che appare la qualità migliore e la cifra più pregnante della nuova
manifattura: “Industrial Commons are shared supply chains, shared process technologies, common workforce skills, shared institutional (university) relationships” (Pisano, 2012).
In qualche maniera, dunque, questa visione appare l‟esito di una destrutturazione non deformante e non depauperizzante, piuttosto di un revamping in cui il capitalismo manifatturiero americano (e occidentale) conserva la propria coesione auto-organizzativa, ma riesce ad assumere una maggiore plasticità.
Dunque, ecco che gli Industrial Commons assumono una duplice valenza. Diventano l‟infrastruttura logica e materiale del fare industria. Ed esprimono la valenza di una sorta di sistema nervoso tecno- produttivo che esula perfino dalla singola specializzazione. Naturalmente vi sono specializzazioni che, a loro volta, contribuiscono ad alimentare e ad irrorare la rete degli Industrial Commons perché appaiono particolarmente votate alla multispecializzazione. E, nella visione della Harvard Business School, l‟automotive industry è una di questi.
Peraltro, l‟elemento interessante degli Industrial Commons è la capacità che essi hanno di rinnovare e modificare il concetto di ambiente economico, nella originaria versione marshalliana e nel successivo adattamento porteriano. Nel senso che questa accentuazione sui processi comuni mostra il mutamento della fisiologia più intima del capitalismo manifatturiero occidentale, che ha subito dagli anni Ottanta davvero una modificazione genetica, lasciandosi alle spalle ogni verticalizzazione burocraticizzante e ogni rigidità autoconservativa del proprio patrimonio e della propria cultura industriale: in qualche maniera, il rapporto con l‟ambiente esterno – più o meno prossimo fisicamente – si è molto modificato, sia rispetto al classico paradigma fordistico-tayloristico sia rispetto all‟archetipo à la Coase.
Ecco che, a questo punto, la teoria degli Industrial Commons comporta un ripensamento di alcuni schemi interpretativi del capitalismo classico novecentesco: che cosa è l‟esternalità positiva? La prossimità fisica in che maniera muta? Il concetto di ambiente economico circostante conserva la sua statica validità oppure va rimodulato? Tutto questo, alla luce delle nuove tecnologie che modificano radicalmente il concetto di vicinanza e, appunto, alla luce di una teoria come quella degli Industrial Commons che lascia prefigurare la costruzione di aggregati tecno-produttivi e di competenze che non soltanto trascendono l‟idea di impresa, ma superano anche il concetto di territorialità nei termini in cui è stato conosciuto nel Novecento dagli storici, vissuto in prima persona dagli imprenditori e dai manager e formalizzato dagli economisti.
All‟interno della riflessione e della costruzione di un nuovo senso della manifattura nel capitalismo globalizzato, il maggiore contributo apportato dagli economisti della Harvard Business School è proprio rappresentato dalla capacità di decrittare le nuove tendenze che trasfigurano i concetti tradizionali dell‟economia industriale del secolo scorso. E di farlo con un pragmatismo non ideologizzante. Piuttosto, di farlo con un metodo che prova a capire – partendo dalla realtà effettuale – come i nuovi aggregativi tecno- produttivi si autocompongano, in reazione a fenomeni endogeni (la terziarizzazione incipiente e la
costruzione della neomanifattura) ed esogeni (la globalizzazione). L‟automotive industry – sottoposta a queste plurime sollecitazioni - costituisce uno dei casi di scuola teorici più interessanti.
1.6 Il pensiero plurimo di Timothy Sturgeon: l’approdo analitico finale dell’evoluzione