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LA VICENDA EDITORIALE

Dopo la divulgazione delle tre raccolte di novelle, Paola Drigo pubblica due romanzi con la casa editrice Treves311; il primo dei due, Fine d’anno, è quello di cui tratterò in questo capitolo. Questo lungo racconto esce per la prima volta sulla rivista «Pan», con il titolo di Fine d’anno in campagna312. Questo testo piace molto al celebre critico d’arte Bernard Berenson313 e, da questo momento, sfruttando l’occasione per ringraziarlo, la Drigo ha modo di dare avvio a quello scambio epistolare di cui ho già parlato e che, in questa sede, mi tornerà particolarmente utile per ricostruire la vicenda editoriale del testo.

Alcuni mesi dopo la prima pubblicazione e il primo confronto, l’autrice torna con l’amico a parlare di questo racconto, riferendogli di aver cercato, senza successo, di collocare il testo presso l’editore Vallecchi:

Siete ben gentile nel dare a leggere il mio “Fine d’anno in campagna” ai vostri amici. Mi fate delle réclame. Quel racconto non è fra le cose mie quella che forse io stimo di più; ma certo è scritto, (come tutti gli altri miei, del resto) con sincerità, ed in più, con commozione. Probabilmente questo si sente, e da ciò deriva il suo piccolo pregio, e la simpatia che l’accompagna.

Ma sapete che l’Editore Vallecchi di Firenze a cui, oltre un mese fa, proposi la pubblicazione di quel racconto appunto – (volevo stamparlo, solo, in un libricino di poca mole, simile a La naissance du jour di Colette) – mi ha risposto con molti elogi e complimenti, ma, in conclusione, tergiversando senza concludere? Ho sempre dimenticato di raccontarvi tale catastrofe definitiva, perché non conosco le consuetudini del Vallecchi, e se sia abituato a fare molto il prezioso, ma io ho poca voglia d’insistere, e finora infatti sono rimasta muta come un pesce314.

L’obbiettivo della scrittrice è dunque quello di stampare il testo in un libro autonomo. I mesi successivi sono caratterizzati, come ammette la Drigo stessa, da lunghi momenti di

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RIGO, Fine d’anno, Milano, Treves, 1936 e EAD., Maria Zef, Milano, Treves, 1936. Come per i

racconti, queste prime edizioni sono quelle da cui cito.

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EAD.,Fine d’anno in campagna, «Pan», II, 3 e 4, marzo e aprile 1934.

313 Scrive la Drigo il 31 luglio 1934: «Grazie delle Sue parole, che mi fanno orgogliosa e timida. Passai a

Firenze oltre un mese anche quest’anno, e in quel frattempo seppi per puro caso che il mio racconto, uscito in Pan, aveva avuto la fortuna di piacere a Berenson. Non so se fosse vero, ma io, che La conoscevo, ne provai una vera gioia, e per esprimerglieLa pensai di mandarLe quella vecchia storia di vent’anni fa – L’Amore – che mi pareva tuttavia viva e fresca, come un segno di saluto e di riconoscenza». EAD., Come un fiore fatato,. cit., p. 77.

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inerzia, durante i quali, non riuscendo a produrre nulla di nuovo, cerca di trovare un editore per il breve romanzo:

Bisognerà che mi scuota, che reagisca all’inerzia, non tanto per gli altri, quanto per me, poiché infine il costruire un qualche cosa era per me fino a ieri ragione di vita. Ma mi pare di non avere nulla da dire…Frattanto per Fine d’anno sto tentando con Mondadori. Mondadori è essenzialmente un commerciante e mi faccio poche illusioni315.

In questa lettera, datata 26 febbraio 1935, sembra svanire anche la possibilità di pubblicare il libro con la prestigiosa casa editrice Mondadori. Nell’agosto dello stesso anno, la Drigo comunica all’amico Berenson di essere riuscita a combinare con Treves, dovendo accettare però che il racconto esca accompagnato da altri testi:

Io avrei voluto che il racconto uscisse solo – ché veramente l’andar solo era il suo destino – ma a l’editore lo ritiene troppo breve per formar libro, e mi ha costretto ad unirvi altre cose, altre poche cose, che ho dovuto scegliere fra le già edite, perché di nuovo, inedito, non ho assolutamente nulla. […] Ho dovuto adunque scegliere, cioè preferire, cioè escludere: credevo mi fosse facile; ed invece è stato un piccolo dramma, come per una madre scegliere fra i suoi figli, ché non uno di tutti i miei racconti, non uno – più o meno riuscito – è stato scritto con cuore freddo, tanto per scriverlo. Infine ho scelto per mettere insieme a Fine d’anno: L’Amore, Il Signor de Montreux, e, forse, La Fortuna, o Codino, o La Signorina Anna? (vedete, sono ancora incerta)316.

In ottobre, l’autrice rassicura l’amico sull’uscita del volume; il ritardo è dovuto al fatto che ella dovrebbe lavorare alle ultime trenta pagine dato che, come riferisce, «ciò che ho già consegnato all’editore non basta a raggiungere le 200 pagine indispensabili a comporre il volume e perciò devo dare qualche altra cosa – che non ho – »317.

In questi mesi, mentre cerca insistentemente di scrivere le rimanenti pagine, la Drigo comunica a Berenson, in una lettera datata 11 novembre 1935, di aver improvvisamente trovato la fine di un lungo racconto che aveva interrotto e messo da parte due anni prima: da questo momento la scrittrice inizia a parlare del suo romanzo più importante, Maria Zef. 315 Ivi,p.138 316 Ivi, pp. 180-181. 317 Ivi, p. 195.

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Tra il gennaio e il febbraio del 1936, dopo aver concluso questo secondo romanzo, Paola si reca a Milano a casa Treves, dove finalmente riesce ad ottenere ciò che da tempo desiderava. Ancora presa dall’eccitazione, comunica la bella notizia a Berenson:

[…] voglio dirvi subito – e dirlo a voi prima che ad ogni altro – che ho combinato con Casa Treves, e combinato proprio come desideravo. Non c’è stato bisogno di lotta; anzi, mi hanno accolto con tanta deferenza e cortesia, e fatto degli elogi così alti del mio lavoro, che ne sono rimasta quasi confusa. Hanno detto che ho dato due cose “magnifiche”…ma figuratevi! […] Fine d’anno in campagna uscirà, come volevo, solo, senza compagni. Sono grata a quel racconto: ad esso devo la nostra cara amicizia. Poi uscirà anche l’altro (ma, silenzio!)318.

Il racconto uscirà nella tarda primavera, con il titolo definitivo Fine d’anno. Le prime recensioni di questo testo, anche quelle positive, non soddisfano pienamente la scrittrice, convinta che non riescano a toccare la vera profondità del racconto. Di lì a poco, il successo di Maria Zef oscurerà totalmente il romanzo breve, non più dato alla stampa fino alla recente pubblicazione del 2005319.

LA PROTAGONISTA E IL DIFFICILE RAPPORTO CON IL MONDO CONTADINO

Fine d’anno non è una vera e propria opera narrativa, ma ha alla base l’esperienza (come vedremo in parte anche autobiografica) di una donna che racconta un breve periodo della propria vita, la fine di un anno appunto. La voce della donna che si racconta, la quale non svela mai il suo nome, è lucida, ma allo stesso tempo angosciata; questo personaggio femminile, simile a quelli che abbiamo incontrato nell’ultima raccolta, La signorina Anna, riferisce il tempo difficile della tarda maturità, della crisi e della solitudine.

La situazione familiare della donna, a inizio racconto, è la seguente: ella è vedova e madre di un figlio il quale, ormai adulto, è lontano e fornisce ben poche notizie di sé, mentre lei non può che attenderlo in preda all’ansia. La protagonista, fino alla recente morte del marito, ha vissuto in una situazione di protetta agiatezza, senza il bisogno di

318

Ivi, p. 212.

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lavorare e sempre al fianco del suo uomo che, con l’aiuto del suocero, si occupava di dirigere la tenuta, denominata la Marzòla, situata nella campagna veneta attorno all’antica villa abitata dalla famiglia nella stagione estiva. Adesso l’azienda, a seguito della morte del marito e poi del fattore che se ne occupava, è ormai gravemente in dissesto e sull’orlo del fallimento: la donna si trova, per la prima volta, ad affrontare il problema del proprio sostentamento, e con esso “il mondo della realtà”.

Vediamo adesso, direttamente dal testo, con quali verità la protagonista si ritrova a contatto e in quale modo presenta la propria situazione al lettore.

La donna ci informa subito del fatto che siamo «alla fine di dicembre, un dicembre freddo, ventoso; i campi intorno lividi; in montagna, la neve fino a mezza costa»320. La situazione climatica procura subito i primi disagi alla protagonista, la quale, per potersi meglio riscaldare, ha abbandonato la parte più nobile della villa per trasferirsi al pianterreno, in una stanzetta molto piccola. Gli amici e i parenti, immaginando quei luoghi in maniera piuttosto superficiale e idilliaca, si felicitano con lei per aver preso la decisione di trascorrere l’inverno in campagna, convinti che qui ella si sarebbe potuta godere la natura, in un’atmosfera sempre soleggiata, e avrebbe approfittato del silenzio per dedicarsi all’arte; inoltre l’aria campestre avrebbe senza dubbio giovato alla sua salute. Al contrario, la donna diviene fin da subito perfettamente consapevole di ciò che l’aspetta:

In realtà, la pace era relativa, e all'arte e alla salute c'era ben poco tempo e voglia di pensare: io sapevo bene di che si trattava, e sola io, avrei potuto parlare con cognizione di causa di ciò che mi aspettava quell'inverno in campagna.

[…] dovevo stare in campagna quell'inverno, e forse altri inverni ancora, tutt'altro che per un elegante capriccio o per dedicarmi alla vita contemplativa, bensì per prendere in mano personalmente ed energicamente l'amministrazione dissestata321.

Ella inoltre sa già che la sua permanenza in campagna non avrà nulla a che fare con un rilassante soggiorno.

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EAD., Fine d’anno, cit. p. 4

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La prima cruda verità che la donna deve accettare, è quella riguardante il fattore che per numerosi anni si era occupato di amministrare il tutto: alla luce dei fatti odierni, quell’uomo, che era sempre sembrato l’onestà in persona, aveva accumulato in quel periodo imbrogli, disordini e guai che, al momento della sua improvvisa morte, erano emersi presentando in maniera lampante la drammaticità della situazione. La donna, adesso, attraverso conti, registri e dichiarazioni dei contadini, deve cercare di fare un po’ di chiarezza. Dai primi colloqui interminabili con questa gente di campagna, sostanzialmente reticente e insincera, scaturisce la prima vera e propria disillusione:

Ah, la bonaria, la pura, idilliaca gente dei campi!...Da lontano, quando passavo otto mesi dell'anno in città, quando insomma i contadini li vedevo, si può dire, a volo d'uccello, a questa retorica avevo creduto anch'io; adesso, avrei potuto giurare che interessanti dal punto di vista umano ed anche artistico lo erano certo, ma bonari e idilliaci assolutamente no, e a starci insieme, e ad aver bisogno di loro per chiarire rapidamente e onestamente una situazione, c'era da rimetterci la vita322.

Nell’ampio territorio che circonda la villa, denominato La Marzòla, vivono, in totale isolamento, dieci famiglie di coloni: la donna si rende subito conto che i campagnoli con cui si trova a contatto non sono esattamente le persone che aveva immaginato durante la sua vita agiata e disinteressata alle problematiche di queste zone. Nonostante essi costituiscano una vera e propria comunità e tutti i fittavoli siano alle dipendenze della famiglia da centinaia di anni, la padrona nota fin da subito che questi non vivono affatto in buon accordo: si invidiano, si spiano e giungono perfino ad odiarsi. Questo, che non è altro che il mondo della gente dei campi, non può che lasciare sconcertata e turbata una persona che non aveva mai avuto modo di conoscerlo. Ella lo trova freddo e violento, diffidente, caratterizzato da un’acutissima astuzia capace di enormi crudeltà e, per il proprio interesse, in grado di formulare ragionamenti assai superiori alla forza degli istinti.

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Alla luce di tutto ciò, la donna si inganna nuovamente nel momento in cui crede di trovarsi tra fazioni inconciliabili, ma ben presto comprende che quando essi hanno da opporsi a lei, non esitano a formare una massa compatta:

L'esperienza di poche settimane era bastata a rivelarmi che quando si trattava di dire una falsità a me, o di nascondere un abuso, o anche semplicemente di difendersi dal più lieve pericolo, i rancori, le invidie sparivano, e, come in certe combinazioni chimiche sensazionali, gli elementi disgregati e in contrasto istantaneamente si fondevano, si coalizzavano. Allora mi trovavo di fronte una massa compatta, una specie di muraglia della China a scopo offensivo e difensivo: la classe contro la classe. Cessato il pericolo, riprincipiavano a spiarsi, a invidiarsi, ad odiarsi323.

L’atteggiamento che ella percepisce nei suoi confronti è di grande deferenza, ma, allo stesso tempo, si accorge che i contadini non fanno che studiarla e osservare tutte le sue mosse: giorno dopo giorno ella si sente sempre più soffocata da un interesse intenso, spiata «con quella vigilanza accanita, concentrata e quasi cupa, di chi dipende totalmente dalla volontà di un altro, e vorrebbe trivellargli l’anima per vedere che c’è dentro, e se gliene verrà bene o male»324.

Dopo un primo periodo di peregrinazioni senza meta, ella delinea il suo programma. Di lì a pochi giorni avrebbe iniziato con delle vere e proprie ispezioni nei poderi per cercare di capire che fine avessero fatto la notevole quantità di derrate, segnate nei registri, che sarebbero già dovuto essere depositate nell’Agenzia Centrale: queste sono probabilmente ancora sparse per le fattorie e, per rintracciarle, la donna è consapevole di dover perlustrare tutte le zone con i propri occhi, conscia di non avere nessuno di cui fidarsi. Nonostante durante le sue ispezioni ella cerchi di assumere un atteggiamento il più possibile virile325, spesso la sua acuta sensibilità di donna si presenta come un ostacolo: 323 Ivi, p. 7. 324 Ivi, p. 8. 325

«Ogni giorno alle otto precise ero pronta ed uscivo, – pellicciotto, frustino e stivaloni, – fiancheggiata questa volta dai miei cani, Lu e la Fina, ch'eran felici delle mie scorribande; attraversavo la campagna gelida, immobile, brillantata sotto la brina come sotto un finissimo pulviscolo d'argento, – che silenzio intorno!, – e dove non arrivavo a piedi arrivavo a cavallo, montando Sise, un cavallino roano dalle gambe pelose, che correva a rompicollo giù per le cavedagne». Ivi,p. 9.

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Tracciare un programma e svolgerlo, – direi quasi virilmente, – con metodo, con energia, con severità, mi era stato possibile, ma la mia natura femminile si vendicava del sopruso e reagiva soffrendo, soffrendo assurdamente, in modo ridicolo, dei risultati stessi che dal mio programma scaturivano. Sì, avevo l'aspetto risoluto e marziale, ed ero munita di frustino e stivaloni, ma delle magagne dei miei dipendenti, quando mi avveniva di scoprirne, arrossivo e mi sentivo umiliata assai più dei veri colpevoli. Essi non soffrivano, avevano soltanto paura…E se è sempre cosa ben triste assistere allo spettacolo della slealtà, della bassezza umana, doppiamente triste era dover cercare, dover quasi provocare questo spettacolo, e trovarmelo, ahimè, con grande facilità dinnanzi agli occhi326.

Come avremo modo di vedere anche più avanti, la padrona, pur essendo consapevole della giustizia di ciò che sta facendo, non riesce fino a fondo a sentirsi in pace con se stessa e con il suo ruolo e si rende solo adesso conto di quanto sia utile la figura del fattore, colui che difende il padrone dai contatti diretti con i coloni e si occupa delle parte più ingrate: alla luce dell’attuale dissesto però la soluzione di prenderne un altro non è assolutamente attuabile.

Il giorno di San Martino («il gran giorno nel quale il contadino veneto che si rispetta tiene «a comparire», come egli dice, col suo padrone; e càpita, col suo tabarro a ruota, con due capponi grassi in mano, o con un cestino di mele del Canadà, da aggiungere come «onoranza» al denaro del fitto»)327 la padrona si ritrova ad aspettare inutilmente i contadini, in un ambiente glaciale e quasi privo di elementi donneschi, se si esclude un mazzo di fiori smorti, un registrino rilegato in carta di Varese a fiorellini gialli e la così detta scatola verde, contenitore in cui sono riunite le carte, i contratti e le chiavi più importanti. In quella lunga giornata l’unica abitante della zona che si presenta è la Martina, una povera donna non considerata nemmeno fra i coloni e che vive in una catapecchia che da anni sarebbe dovuta essere demolita, ma non era mai stato fatto per pietà dell’inquilina: la padrona congeda la poveretta fra le lacrime, dopo averle garantito che “novità” non sarebbero state fatte.

Come unico conforto di quel pomeriggio, monotono come tutti gli altri, in cui la donna diviene sempre più cosciente del suo stato emotivo, affermando infatti: «ero sola, e,

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Ivi, p. 10.

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quel che più conta, mi sentivo sola, infinitamente sola e lontana da tutti»328, giunge da Ginevra la lettera di Alberta, una sua cara amica che sapeva vagamente che ella era in campagna per sistemare “qualche cosa”. La donna annuncia il suo prossimo arrivo. Nei giorni seguenti la padrona si sforza di avere un incontro con i capifamiglia. Se da questo da una parte emerge la naturale tendenza del contadino all’esagerazione della lamentela e alla volontà di apparire misero e nudo agli occhi del padrone, dall’altra è evidente una forte preoccupazione e scoramento di coloro che, aspettandosi sempre tutto dalla loro terra, sono stati traditi, e sono consapevoli del fatto che il loro lavoro non è più sufficiente a farli vivere: da parte della donna, non è così semplice rimanere sorda e cieca dinanzi alla fame, al freddo e alla malattia. Ella stessa decide quindi di modificare il suo stile di vita, provando ad abolire tutto il superfluo:

Chiusa la villa per tre quarti e ritiratami in poche stanze, la macchina non l'adoperavo quasi più, avevo indosso i vecchi tabarri, in testa le vecchie casseruole degli scorsi anni; avevo rinunciato anche alle ordinazioni di libri, di musica, alle belle riviste italiane e straniere: nella casa grande e simpatica, ma lontana dalle comunicazioni e bisognosa di servitù bene organizzata e numerosa, Bettina e Marco, due ragazzi nati e cresciuti sotto di noi alla Marzòla, disimpegnavano tutto il servizio329.

La donna si rende conto che queste misere rinunce possono solamente cercare di impedire che il dissesto aumenti, non certamente sanarlo, e che è necessario preparare l’animo a un sacrificio. Il notaio, giunto dalla città, dopo aver attentamente esaminato la situazione, afferma che non si può fare altro che amputare tutto ciò che non è più salvabile. Rimasta sola con se stessa la padrona inizia a riflettere sulle parole del notaio: non riesce a pensare all’idea di abbandonare la Marzòla, ma allo stesso tempo sa che, per una donna sola, lasciare la sua residenza cittadina, e con questa consuetudini di vita e amicizie, significa divenire prigioniera della campagna e rimanere desolatamente

328 E ancora: «Da oltre una settimana non vedevo anima viva, voglio dire dei nostri, delle mie

conoscenze; i pochi amici, i villeggianti delle ville relativamente vicine erano esulati in città prima del consueto per l'apertura delle scuole[…]E non un uccello per l'aria; non lo stridere d'un insetto; non alito di vento: l'immobilità e il silenzio assoluti davano alla campagna un senso, non di quiete, ma di sconsolata assenza di vita, quale mi era avvenuto raramente di sentire in mezzo alla natura. Un'altra giornata che finiva!» Ivi,p. 13.

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abbandonata. Mentre riflette sul da farsi, deve continuare ad occuparsi di tutte le cure materiali e del riassetto delle abitazioni rurali, percependo sempre più la tristezza per la mancanza di una persona di fiducia che si occupi dei suoi affari: mai nessuno le parla per darle una buona notizia o per la naturale voglia di contatto umano, ma solamente per annunciarle cose spiacevoli, per chiederle di fare delle spese o prendere decisioni su argomenti dei quali, il più delle volte, è totalmente ignorante. Arriva alla sera stanchissima e, dopo essersi sbarazzata delle vesti che ha addosso, prova a leggere un buon libro in attesa della cena, durante la quale accende una sigaretta fra un piatto e l’altro. Dopo cena siede allo scrittorio del suo studio e, nelle giornate di maggiore

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