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«Sono io forse venuta al mondo oggi?» Non solo Maria Zef: Paola Drigo dai primi racconti al grande romanzo.

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN LINGUA E

LETTERATURA ITALIANA

TESI DI LAUREA IN LETTERATURA ITALIANA

«Sono io forse venuta al mondo oggi?»

Non solo Maria Zef: Paola Drigo dai primi racconti al grande

romanzo.

CANDIDATO

RELATORE

Kety Passalacqua

Chiar.mo Prof. Giorgio Masi

CONTRORELATORE

Chiar.ma Prof.ssa Angela Guidotti

(2)

S

OMMARIO

I

NTRODUZIONE---p. 1 I.

B

IOGRAFIA --- p. 6 II.

L

A FORTUNA --- p. 12 LA FORTUNA --- p. 13 LA BARBA DI DÜRER --- p. 21 L’AMORE --- p. 27 DI GUARDIA --- p. 35 FIORI D’ARANCIO --- p. 43 LA DONNA E LA LENTE --- p. 49 RITORNO --- p. 54 LINGUA E STILE NELLA RACCOLTA LA FORTUNA --- p. 62 III.

C

ODINO --- p. 64

IL SIGNOR DE MONTREUX --- p. 64 IL VOTO ALLE DONNE --- p. 70 CODINO --- p. 74 TANGO --- p. 79 LA ZIA E TONET --- p. 85 NOTTURNO --- p. 91 IL VOLONTARIATO DI TORQUEMADA --- p. 96 LA LINGUA E LO STILE NELLA RACCOLTA CODINO --- p. 103 IV.

L

A SIGNORINA

A

NNA --- p. 105

(3)

LA SIGNORINA ANNA --- p. 107 PAOLINA --- p. 117 PARE UN SOGNO --- p. 128 UN GIORNO --- p. 133 IL COMPAGNO DI SCUOLA --- p. 137 IL DRAMMA DELLA SIGNORA X --- p. 144 V.

F

INE D

ANNO --- p. 148 LA VICENDA EDITORIALE --- p. 148 LA PROTAGONISTA E IL DIFFICILE RAPPORTO CON IL MONDO CONTADINO --- p. 150 TEMATICHE DEL ROMANZO --- p. 161 NARRAZIONE O AUTOBIOGRAFIA? --- p. 167 VI.

M

ARIA

Z

EF --- p. 170 LA VICENDA EDITORIALE --- p. 170 LA SCRITTRICE E IL SUO ROMANZO --- p. 173 LA VICENDA --- p. 176 IL PAESAGGIO --- p. 194 PERSONAGGI SECONDARI E TEMATICHE AD ESSI RELATIVE --- p. 202 L’EVOLUZIONE DELLA PROTAGONISTA VERSO UN INSOLITO FINALE --- p. 215 LINGUA E STILE NEL ROMANZO MARIA ZEF --- p. 231 TRADUZIONE TELEVISIVA DEL ROMANZO --- p. 233 VII.

R

ACCONTI SPARSI --- p. 236 LA PARTENZA DI SISE --- p. 236

(4)

FINESTRE SUL FIUME --- p. 243

A

PPENDICE

:

I

L DRAMMA DELLA

S

IGNORA

X

---p. 251

(5)

1

I

NTRODUZIONE

La produzione narrativa della Drigo è in linea con l’intensa attività di scrittura novellistica e di narrativa breve femminile tra Otto e Novecento; è innegabile il fatto che, in questo periodo, venga prodotta una quantità molto ampia di testi da parte di donne, oggi spesso dimenticate o perfino sconosciute.

Recentemente, numerose studiose si sono riproposte la riscoperta di questi testi, ben consapevoli delle loro peculiarità. Saveria Chemotti, negli atti di un convegno su Paola Drigo del 2007, così scrive:

La scrittura delle donne, infatti, è scrittura originale, diversa per i temi, per i messaggi, per l’impasto stilistico da quella della tradizione maschile: scruta la vita da un punto di vista diverso, penetra gli avvenimenti della storia pubblica e di quella privata, coglie e descrive la sfera della propria quotidianità e della propria soggettività[…] L’io che compare in molti racconti e romanzi femminili non è solo ricerca di coscienza trasparente a se stessa, di soggettività certa di sé. L’io intrattiene legami segreti col mondo e con gli altri che cerca di portare in forma di parola1.

Quello che secondo questa parte della critica sarebbe ora necessario, è la ricostruzione di una storia della scrittura femminile che tenga conto del fatto che «lo spazio creativo delle scrittrici appare ed è “altro” da quello degli scrittori»2; non può che essere altra la loro percezione della realtà e, di conseguenza, il modo in cui esse danno forma alla propria soggettività.

Anche Patrizia Zambon, che ha recentemente riportato alla luce alcune opere della Drigo, ha messo più volte in evidenza l’importanza della novellistica femminile in questo particolare periodo storico. Cito direttamente dall’introduzione alla pubblicazione dei Racconti di Paola Drigo:

Mi è occorso di scrivere in altra sede, realizzando, nel 1998, un’antologia specificatamente dedicata alle Novelle d’autrice tra Otto e Novecento […], come uno degli aspetti più interessanti fra quelli che caratterizzano la storia letteraria italiana nel passaggio dalla civiltà artistica dell’Ottocento a quella complessa e fermentata dei primi decenni del Novecento, è la consistente presenza di scrittrici, che trova una sua ragione

1S. C

HEMOTTI, La voce e le parole. Una premessa sulla scrittura femminile italiana, in Paola Drigo

settant’anni dopo, a cura di Beatrice Bartolomeo e Patrizia Zambon, Pisa-Roma, Serra editore, 2009, p. 17.

(6)

2

anche nella individuazione nella professione della scrittura di aspetti particolarmente congeniali alle donne3.

E ancora, più avanti, dopo aver elencato alcune delle maggiori novelliste del momento, continua così:

Le scrittrici sono dotate ognuna di personalità propria, hanno gusto e individualità, hanno anche visioni del mondo spesso non sovrapponibili; e tuttavia si configura nella ricca e mossa, incalzante produzione delle novelle d’autrice tra Otto e Novecento una circolazione di temi, modi, motivi, situazioni narrative anche, così insistita, per certi versi così serrata, da costituire, ritengo, quasi un «sistema» nella civiltà letteraria del periodo, con i suoi significati perché con le sue ragioni.4

Persino Virginia Woolf, in un articolo del 1929, intitolato Le donne e il romanzo, sosteneva che «i libri di una donna non sono scritti come li scriverebbe un uomo» e che spesso, in questi, fossero trattati dei temi, in primis quello della maternità, che non potevano essere affrontati da un uomo.

Paola Drigo è considerata dunque, da gran parte della critica, la scrittrice più importante del primo Novecento veneto anche perché è “donna”. Lo è sia per la fedeltà a determinati temi, sia perché sono per lo più le donne le protagoniste dei suoi racconti: non credo che questo avvenga per una scelta ideologica, bensì perché la scrittrice è più propensa, come forse sono più propense le donne, ad indagare, vedere e ascoltare ciò che esprimono tacitamente le figure femminili, in un’epoca in cui gli uomini, più di oggi, non sono interessati a guardare e comprendere, perché attratti da “altro”.

Al contrario, io ritengo che ci sia qualcosa in lei che, fortunatamente, non appartiene allo statuto femminile o maschile: come vedremo, emerge dai suoi testi un pessimismo integrale e una visione della vita così tragica da rifiutare ogni tipo di consolazione; questa, a volte, si accompagna anche ad una pungente ironia. Per usare le parole della Garofano direi che la Drigo «sente come ferita il dolore senza fine, senza senso e senza

3

P.ZAMBON, Introduzione, in P.DRIGO, Racconti, a cura di Patrizia Zambon, il Poligrafo, Padova, 2006, p. 15.

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3

rimedio del mondo, e intende come proprio dovere quello di esercitare lo stesso sguardo implacabile su se stesso, sul mondo e su ogni umana illusione»5.

La produzione narrativa della Drigo, che si estende dal 1912 al 1937, consiste in ventitré racconti, dei quali venti inseriti in tre raccolte, e due romanzi, o racconti brevi. L’ultimo romanzo, Maria Zef, è sicuramente l’opera più conosciuta dell’autrice: oltre alle numerose riedizioni negli anni seguenti alla prima pubblicazione del 1936, la storia ha avuto maggiore notorietà grazie a un film, prodotto da Vittorio Cottafavi e Siro Angeli, trasmesso dalla rete televisiva Rai nel 1981; visto il successo del film, l’anno seguente Livio Garzanti ha ripubblicato, dopo diversi anni, il romanzo della Drigo.

Le altre opere dell’autrice però non hanno avuto la medesima fortuna; basta pensare che un romanzo molto particolare come Fine d’anno, uscito anche questo nel 1936, non è più stato pubblicato fino al 2005, anno in cui Patrizia Zambon ne ha curato una nuova edizione corredata da un’ottima introduzione. La stessa curatrice, prima di ridare alla luce il più noto Maria Zef, nel 2011, ha pubblicato in un volume sette dei ventitré racconti drighiani. Di questi testi solamente l’ultimo, Finestre sul fiume, era stato pubblicato dalla stessa curatrice nel 1988 e, con un’acquaforte originale di Velasco Vitali e una nota di Sandro Bertone, nel 1995; per gli altri sei testi le uniche edizione fino ad allora esistenti erano le pubblicazione in rivista, e successivamente in volume, volute dalla stessa Drigo.

In questo mio lavoro mi propongo di fornire un quadro completo ed esaustivo dell’opera narrativa dell’autrice. Per fare ciò ho scelto, dopo aver fornito le notizie biografiche della Drigo, di dedicare gli altri sei capitoli alle tre raccolte di novelle e ai due romanzi principali, per poi chiudere con i due racconti pubblicati dalla scrittrice in rivista, senza mai essere inseriti in nessun volume. Ad ogni singolo racconto, della maggior parte dei quali, come ho già detto, non si è più parlato dopo la prima e unica pubblicazione, ho

5

D. GAROFANO, Intorno a Paola Drigo: fortuna critica di una «scrittrice virile» nel panorama della letteratura italiana femminile tra Otto e Novecento, in Paola Drigo settant’anni dopo, Cit., p. 286.

(8)

4

riservato un apposito paragrafo all’interno del quale ne fornisco un esaustivo riassunto e ne evidenzio le principali tematiche. Come unica eccezione, riporto in appendice il testo completo de Il dramma della Signora X: lo svolgimento riflessivo piuttosto che narrativo non mi ha permesso di riassumere l’opera senza perderne la grande forza espressiva, per cui ho ritenuto giusto riportare le esatte parole della scrittrice accompagnate, anche qui, dal mio commento.

Particolarmente difficile è stato reperire il volume della raccolta La signorina Anna, posseduto solamente in sette biblioteche italiane e poco accessibile a causa della rarità e del deterioramento delle poche copie; grazie alla disponibilità dei bibliotecari della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, sono riuscita a consultare, leggere e commentare i racconti.

Più spazio è stato dedicato nella mia tesi ai romanzi Fine d’anno e, soprattutto, Maria Zef, i quali hanno richiesto un’analisi più dettagliata e approfondita.

Come criterio di progressione ho scelto quello cronologico: ho ritenuto fondamentale presentare l’opera narrativa della scrittrice mettendo in evidenza, oltre alle caratteristiche principali, come le tematiche trattate nei vari testi siano talvolta da associare a determinati periodi della vita della Drigo. Questa scelta mi ha ovviamente permesso di palesare come da un lato le maggiori tematiche della scrittrice sono ben evidenti fin dalle prime prove e, dall’altro, la progressiva evoluzione di pensiero e l’affinamento della tecnica che ha portato la stessa dai primi racconti alla notorietà del grande romanzo.

Alla luce delle considerazioni fatte nella prima parte di questa introduzione, ho cercato anche di mostrare come i rapporti dell’autrice con alcuni grandi scrittori di fine Ottocento non siano meno importanti di quelli che la legano alle novelliste contemporanee.

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5

La tesi si conclude con la bibliografia, anche questa organizzata secondo un ordine cronologico, nella quale sono riportati, oltre alle opere della Drigo, gli studi e le recensioni più importanti, dagli anni delle prime edizioni ai giorni nostri.

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6

I.

B

IOGRAFIA

Paola (nei documenti Paolina Valeria Maria) Bianchetti nasce il 4 gennaio 1876 a Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso.

La madre, Luigia Anna Loro, nata a Venezia nel 1846, è figlia dell’avvocato Giovanni Battista Loro, il quale fu anche deputato al Parlamento nazionale per Asolo e Catelfranco. Personalità non meno influente del nonno materno è il padre di Paola, Giuseppe Valerio Bianchetti, nato ad Asolo nel 1842 e anch’esso avvocato, oltre che giornalista; egli partecipa attivamente alla vita politica del territorio e, in seguito alla guerra del 1859, in cui si arruola con il fratello Carlo per combattere contro gli austriaci, e poi a quella del 1866, nella quale combatte a fianco di Garibaldi fino al punto di essere ferito e fatto prigioniero a Bezzecca, viene definito da Giuseppe Biasuz un «intransigente repubblicano»6: egli, infatti, rimane per tutta la vita fedele agli ideali mazziniani, repubblicani e laici di questa prima giovinezza. La stessa Paola, pubblicando le lettere del Carducci e di Alberto Mario al padre, ci testimonia come egli fosse una personalità di una certa influenza nella vita culturale della città, oltre che in quella politica7.

Dopo Paola, Anna Loro, unita in matrimonio con Valerio Bianchetti dal 1875, dà alla luce altri tre figli: Gian Jacopo nell’ottobre 1878, Giovanni Battista nel luglio 1881, Carlo nell’agosto 1883.

Nel 1884 la famiglia si trasferisce a Treviso. L’abitudine familiare agli interessi culturali e il carattere intransigente del padre sono alla base della formazione di Paola e ne indirizzano il futuro: Paola Bianchetti ha l’opportunità di frequentare, prima donna nella storia dell’istituto, almeno il ginnasio, al “Canova” di Treviso.

6

G.BIASUZ, Amici veneti del Carducci: 1. G. Valerio Bianchetti, «Padova e la sua provincia», XII n.s., 4, 1966.

7 P.D

RIGO, Lettere del Carducci e di Alberto Mario a Valerio Bianchetti, «Pègaso», III, 3, 1931. Anche

l’archivio dei corrispondenti di Carducci, conservato oggi a Bologna a Casa Carducci, contiene numerose lettere del padre e della madre della Drigo, e, fra tutte queste, anche due lettere di Paola all’ormai anziano poeta, datate 1903 e 1906.

(11)

7

L’importanza che la figura paterna assume nella vita della scrittrice è dichiarata da Paola stessa nel momento in cui ne descrive l’improvvisa morte, avvenuta nel 1888, quando Valerio aveva solo quarantacinque anni8. Questa figura l’avrebbe accompagnata per sempre, fino al punto di influenzarla nella scrittura più tarda; infatti, molti anni dopo, nel 1937, così giustifica a Pietro Pancrazi la stringatezza di Maria Zef:

Ero bambina quando perdetti mio padre, ma ricordo che quand’egli, passando per la stanza dove studiavamo, si accorgeva che stavo scrivendo il componimento italiano, ne sogguardava sorridendo le prime righe, poi mi dava una tiratina di treccia e se ne andava dicendo; “non metterci pignoli e uetta”!

“Pignoli e uetta”, condimento usuale dei budini casalinghi… Cerco di evitarli quanto posso, e forse ci riesco anche troppo9.

A seguito della morte di Valerio mutano anche le condizioni economiche della famiglia, la quale si trova in gravi difficoltà finanziarie: la madre, per sopperire al disagio finanziario, è costretta a vendere, con l’aiuto di Carducci, alla Biblioteca Nazionale di Firenze, molti autografi ereditati dal Giuseppe Bianchetti, zio di Valerio. Anna Loro, con i figli, rimane ancora qualche tempo a Treviso mentre Paola sostiene, in tutta probabilità, gli esami del primo anno da privatista, nella Scuola Normale Superiore femminile “Elena Corner Piscopia” di Venezia; malgrado gli ottimi voti ottenuti nelle materie letterarie, viene rimandata alla sessione autunnale, alla quale però non si presenta.

Dalle già citate lettere di Anna Loro a Giosuè Carducci, si può ricostruire il fatto che Paola, nel 1889 e nel 1891, con il sostegno determinato della madre, tenta di ottenere un posto di studio in uno dei due istituti superiori femminili di Magistero, prima Roma, poi Firenze, ma la cosa non va a buon fine; viene allora iscritta, per l’anno 1891-1892, alla Scuola superiore di preparazione al Magistero di Firenze. Non è da escludere anche la frequentazione del Collegio reale delle fanciulle a Milano, dato che proprio in

8

«Quando mio padre morì, la sua morte fu così tragica, così disumana, non per il modo, ma perché era lui che moriva, lui così degno di vivere, così vibrante di vita, così necessario, a noi parve che una grande ombra nera si fosse frapposta tra la nostra casa e il sole». Ivi, p. 286

9

Fondo Pietro Pancrazi, Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti, Gabinetto G.P. Vieusseux, Firenze, lettera del 16 febbraio 1937. Cito da R.MELIS, Nota biografica, in P.DRIGO, Come un fiore fatato: lettere di P.D. a Bernard Berenson, Padova, Il Poligrafo, 2016, p. 51.

(12)

8

collegio ella riferisce di essersi legata in una profonda amicizia con Enrichetta Palanca, poi moglie di Enrico Bignami.

Nel 1893 tutta la famiglia si trasferisce a Padova, ma qui Paola non risulta iscritta nei registri annuali della Scuola normale superiore femminile “Erminia Fuà Fusinato”. Probabilmente ella rinunciò in questi anni a proseguire i propri studi, essendo giunti in età di studi ginnasiali anche i due fratelli Gian Jacopo e Giovanni Battista. Paola trascorre quindi la sua giovinezza fra Padova e la casa materna di Asolo, alternando brevi soggiorni in altre città, fra cui Milano e Bologna.

Alcuni anni dopo, il 20 ottobre 1898, ella sposa Giulio Drigo, agronomo e molto agiato proprietario terriero di Padova, nato nel 1857 e quindi di diciannove anni più vecchio di lei: da questo momento in poi, Paola coltiva rapporti di amicizia con il mondo dell’aristocrazia e della borghesia imprenditoriale padovana, la quale, seppur moderatamente legata alle istituzioni monarchiche, guarda con simpatia alle ancor vive memorie risorgimentali. Nel 1899 nasce il figlio Paolo e, l’anno successivo, la secondogenita Maria, che subito muore.

Dopo i primi anni trascorsi a Padova nella casa avita dei Drigo, la famiglia si trasferisce a Mussolente, ai piedi del massiccio del Grappa, dove Giulio Drigo aveva acquistato un’antica e imponente dimora risalente all’epoca ezzeliniana e più volte rimaneggiata nel tempo: la storica Ca’ Soderini, rinominata attualmente “Villa Paola” o “Villa Drigo”, circondata da un enorme parco di suggestiva bellezza. In estate la vita in questa villa è caratterizzata dalle piacevoli conversazioni con amici e dalle importanti frequentazioni; durante gli inverni, invece, solitamente la famiglia si trasferisce a Padova, alternando il soggiorno a brevi periodi in altre città come Milano, Roma e anche Parigi.

In questi stessi anni, proprio nell’ambiente cittadino milanese, Paola Drigo stabilisce i primi contatti editoriali attraverso i quali inizia la sua vicenda professionale di scrittrice,

(13)

9

pubblicando nel febbraio 1912 la novella Ritorno sulla rivista di lettura del «Corriere della Sera», «La Lettura», diretta allora da Renato Simoni. Da questo momento in poi, ella pubblica su numerose altre riviste: l’anno seguente raccoglie alcuni di questi testi, più un inedito, L’amore, nel suo primo volume di racconti, intitolato La fortuna, che esce con i Fratelli Treves.

La famiglia trascorre i primi anni della guerra a Roma, dove il figlio Paolo frequenta il liceo Visconti. Gli anni che seguono non sono fra i più felici: sono gli anni della malattia di Giulio Drigo che lo ridurrà progressivamente in carrozzella, mentre il giovane Paolo si trova in territorio di guerra e Ca’ Soderini, oltre ad essere vicina al fronte, tra il 1917 e il 1918, si ritrova direttamente coinvolta nelle operazioni belliche. Unica nota positiva di questi anni per la scrittrice è la pubblicazione, nel 1918, ancora con Treves, di Codino, volume in cui ella raccoglie sette novelle scritte nel corso degli anni precedenti. Negli stessi anni Paolo era stato anche iscritto dal padre alla Facoltà di Filosofia e Lettere di Padova, ma, dispensato dalla frequenza perche arruolato, frequenta solo l’ultimo anno, laureandosi in lettere nell’aprile 1922, pochi mesi prima della morte di suo padre Giulio, avvenuta il 9 settembre.

Da questo momento in poi Paola non torna più stabilmente a Padova, ma alterna soggiorni di qualche mese in varie città italiane e all’estero: nonostante la pubblicazione di alcuni racconti in rivista, questi per lei sono anni solitari e particolarmente difficili. In questo periodo ella scrive anche numerose lettere ad un critico che stima moltissimo, Pietro Pancrazi, mandandogli le proprie opere e chiedendo aiuto per un’aspirazione nutrita da tempo, a cui tiene moltissimo, entrare fra i collaboratori del «Corriere della Sera». Inizia anche a cercare un editore per la sua terza raccolta di novelle, ma le difficoltà nel reperirlo si sommano a quelle personali: mentre il figlio Paolo si trasferisce da Bolzano a Roma, dove lavora al settore Professionisti e artisti della Confederazione nazionale fascista, ella è costretta a trascorrere i mesi autunnali e

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10

invernali in campagna, luogo in cui iniziano a farsi sentire i problemi economici dovuti alla crisi agraria e alla precedente cattiva gestione delle sue terre. Dopo numerosi anni di “vita protetta”, si trova costretta ad occuparsi di problemi economici e amministrativi; da questa esperienza scaturisce comunque l’immagine concreta di una donna energica e progressivamente sempre più autorevole.

Alla fine del 1931, ella sta già scrivendo quello che sarà la sua opera più importante, Maria Zef, ma nel gennaio 1932 i primi sintomi della malattia interrompono bruscamente ogni impegno e la costringono a permanere, per alcuni mesi, alla casa di cura di Crespano del Grappa. Nella primavera del 1932 esce finalmente la sua terza raccolta di novelle, La signorina Anna, presso il più periferico editore vicentino Ermes Jacchìa.

Nel frattempo, il figlio Paolo si sposa e nel 1933 ha a sua volta il primo figlio, cui avrebbe fatto seguito una figlia, che Paola però non arriverà a conoscere.

Negli anni successivi la Drigo, ripresasi dalla malattia, si impegna molto affinché Fine d’anno in campagna, un suo racconto, quasi una cronaca della crisi vissuta nei mesi precedenti, possa venire pubblicato; ottiene infine che esso esca, sulla rivista «Pan», nei numeri di marzo e aprile 1934. Il racconto riscuote grande successo e fra gli ammiratori vi è Bernard Berenson, il critico d’arte con il quale ella, da questo momento, tiene una fitta corrispondenza che durerà fino alla morte.

Il 22 novembre 1934 muore ad Asolo la madre Anna. L’anno seguente, mentre inizia a trattare con la casa editrice Treves per la pubblicazione in volume di Fine d’anno in campagna, Drigo riprende anche il racconto su Mariutine, al quale lavora intensamente, portandolo a termine alla fine di gennaio 1936. Sono anche questi anni di malattia: ella inizia a soffrire di forti dolori allo stomaco, erroneamente diagnosticati come colite. Nel maggio 1936, mentre il figlio Paolo fa domanda come volontario per la guerra in Etiopia, esce Fine d’anno. La salute della donna continua ad aggravarsi e ben presto è

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costretta a ricoverarsi in una casa di cura a Padova, dove le viene diagnosticata un’ulcera al duodeno. Negli ultimi giorni di questo anno esce la prima edizione, alla quale faranno seguito numerose altre, del romanzo Maria Zef.

Nel gennaio 1937, per curarsi meglio, si trasferisce, sempre a Padova, al numero 96 di un appartamento della Riviera Paleocapa, ma è costretta a trascorrere l’estate nuovamente nella casa di cura di Crespano del Grappa. Mentre Maria Zef ottiene un grande successo di pubblico, nonostante sia forte la delusione di non aver vinto il «Premio Viareggio», l’autrice vince finalmente la lunga battaglia con il «Corriere della Sera», pubblicando, il 18 agosto, Finestre sul fiume, il suo primo e unico elzeviro. Nel settembre, aggravatasi ulteriormente, si trasferisce in una casa di cura di Merano; il 16 dicembre viene trasportata a Padova al fine di essere sottoposta all’operazione che ha sempre rifiutato. Ella muore nella clinica padovana di via Armando Diaz il 4 gennaio 1938; i funerali si svolgono due giorni dopo a Padova, in forma solenne, dopo di che Paola viene seppellita a Mussolente, nella villa Ca’ Soderini.

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12

II.

L

A

F

ORTUNA

La fortuna, libro dedicato all’amatissimo padre, è la prima raccolta di novelle di Paola Drigo, pubblicata nel 1913 dai Fratelli Treves e contenente sette testi: La fortuna, La barba di Dürer, L’amore, Di guardia, Fiori d’arancio, La donna e la lente, Ritorno. Tutti questi testi sono scritti fra il 1912 e il 1913 e alcuni di essi sono stati pubblicati in riviste, prima di essere inseriti nel volume. Durante questi due anni la Drigo scrive e pubblica in rivista anche alcune novelle che, come vedremo, saranno inserite nella raccolta Codino, del 1918.

Ciò che credo sia giusto anticipare prima di provare ad analizzare nel dettaglio l’opera, è che questi primi racconti appaiono decisamente anacronistici, sia dal punto di vista narrativo che da quello stilistico, rispetto alla stagione letteraria nella quale vedono la luce, caratterizzata dalle audaci sperimentazioni delle avanguardie. Come vedremo, i riferimenti ai modelli ottocenteschi sono numerosi; è un po’ come se la scrittrice cercasse il modo di accattivare il lettore inserendo nei suoi testi i temi più utilizzati e “alla moda”. In primo luogo ella sembra guardare al tardo Ottocento e avere come punto di riferimento la novella realista e verista; il suo ambiente in prevalenza, infatti, è quello degli umili e dei “vinti” dal destino.

Così scrive il contemporaneo Valgimigli:

Fame, miseria, desolazione, privazione di ogni cosa più necessaria al vivere elementare, e insieme accettazione del male, della fame, della miseria; passare per le vie del mondo con questo peso e chinare il capo, coprirsi e chiudere gli occhi, e finalmente cadere: questi sono i motivi che la Drigo predilige e gli accenti più suoi […].

Disperazione cupa e muta di chi sa che tutto è vano e vuoto, e non ha altra difesa che in questa disperazione medesima, che è un modo anche questo di accettazione rassegnata, di raggiunta impassibilità; cielo chiuso e buio, mondo senza consolazione.

La Drigo ha occhi fermi e implacati. La sua verità è sempre una verità scoperta e chiara, dura e amara.10

Il suo modo di scrivere, spesso privo di sentimentalismo, porta i contemporanei a utilizzare per lei le definizioni di “maschia donna” e “scrittrice virile”, alludendo alla

10

M.VALGIMIGLI, Una scrittrice virile: Paola Drigo, in Uomini e scrittori del mio tempo, Firenze, Sansoni, 1943, pp. 419-420.

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13

sua capacità di guardare sempre le cose con occhi ben fermi e di porsi davanti a una verità dura e chiara. In realtà credo che questo aspetto della scrittrice, che, come ho già detto, non ha a che fare con il sesso, non si delinei subito nei primi racconti, ma che la sua opera sia una sorta di percorso evolutivo che la porterà ad allontanarsi dal pietismo iniziale e a descrivere il mondo che la circonda con una lucidità sempre maggiore. Vedremo adesso come emergono dai testi le principali tematiche e quali sono i maggiori modelli di riferimento.

LA FORTUNA

Il primo racconto è quello che dà il nome all’intera raccolta. Fu pubblicato per la prima volta sulla rivista «Nuova Antologia»11, inserito poi nella raccolta Treves e recentemente ripubblicato nel volume di Racconti a cura di Patrizia Zambon12. In quest’ultimo sono riportate solamente sette delle ventitré novelle della scrittrice ed è la curatrice stessa a informarci sulla scelta che sta alla base della selezione:

[…] la più immediata sarebbe rilevare che si sono scelti i racconti migliori, ma questo criterio ha poi in realtà interagito con almeno altri due. Il tentativo di assumere almeno un po’ la prospettiva di Paola Drigo ha suggerito di porre in raccolta tutti e tre i racconti eponimi (ma del volume del 1918 Codino in effetti è l’unico testo), quello di svolgere la scelta nell’intero arco temporale, e tipologico (e ci riferisce a una tipologia di genere, non tematica), dell’opera drighiana l’assunzione in antologia anche di un testo singolare come

Finestre sul fiume (ma in questo caso il criterio coincideva a pieno con il primo citato)13.

La novella in questione si apre con un dialogo fra il dottor Fabrizi, particolarmente audace e sincero a causa del vino, e il conte Ademaro Novelli-Casazzi: il contino Folco, unico figlio di Ademaro, si è innamorato di una giovane contadina e dato che «la razza è indebolita, immiserita, le tare ereditarie accentuate, la fecondità diminuita, la mortalità

11

P.DRIGO, La fortuna, «Nuova Antologia», XLVII, 970, 16 maggio 1912.

12

EAD., Racconti, cit., pp. 35-71.

13 P.Z

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14

nei bambini spaventosa, e il contino Folco è, di otto figli nati, l’unico vivo e ultimo…»14, l’idea del matrimonio deve essere presa in considerazione.

Già in queste prime pagine si mette in evidenza uno dei temi più significativi di questo testo: la rappresentazione, del tutto dannunziana, di una nobiltà in crisi, divisa fra edonismo e oscuri presagi funebri e afflitta da una sorta di malattia misteriosa che arriva al punto di metterne in dubbio la stessa sopravvivenza15.

La ragazza in questione, colei che avrà il compito di dare nuova vita a questa stirpe, si chiama Rosa e viene presentata secondo lo stereotipo della donna di campagna in ottima salute e perfetta per avere figli: «la ragazza poi è un fiore, una bellezza, anzi un vero tipo di bellezza: alta, complessa, formosa, colorita, con denti e capelli splendidi. Come fattrice […] sarebbe il vero tipo che vi abbisogna, che rinsanguerebbe la razza, che vi darebbe prodotti sani e vigorosi»16.

Il giorno stesso don Evaristo Percoto, arciprete di Collefiorito, si reca a parlare alla contessa Clemenza Novelli-Casazzi, ritratto perfetto della nobiltà decaduta che si oppone alla vitalità della giovane campagnola:

Ella era sola, e lavorava a maglia presso alla finestra, colla testa molto bassa perché era molto miope. Era tutta vestita di seta nera, e portava i guanti anche in casa, perché aveva sempre freddo alle mani. Radi capelli grigi ben pettinati le incorniciavano il volto di un pallore anemico leggermente venato di rosa, gli occhi azzurrognoli e cisposi completavano la malinconia del suo aspetto, simile a quello di qualche vecchia immagine di santa, dimenticata sotto un velo di polvere in qualche vecchia chiesa, sbiadita dall'ombra e dal tempo17.

Otto giorni dopo le nozze sono decise, e Don Evaristo si assume il compito di parlare con i genitori della fanciulla e di annunciare loro l’opportunità insperata di maritare la

14 P.D

RIGO, La fortuna, Milano, Treves, 1913, p. 5. Tutte le novelle della raccolta sono citate da questa

edizione.

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Il personaggio dannunziano che meglio interpreta la figura del nobile in crisi è Giorgio Aurispa, il protagonista del Trionfo della morte. Questo eroe, travagliato da un’oscura malattia interiore che lo svuota delle energie vitali, va alla ricerca di un nuovo senso della vita, che permetta di attingere all’equilibrio e alla pienezza. Nessuna esperienza risulta essere positiva; prevalgono in lui, sull’aspirazione alla vita piena e gioiosa, le forze negative della morte, come suggerisce il titolo. Al termine del romanzo al protagonista non rimane che uccidersi, trascinando con sé la donna amata.

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P.DRIGO, La fortuna, cit., p. 6

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figlia Rosa al contino Folco Novelli-Casazzi. Questa sembra subito essere una vera e propria fortuna, un segno della benevolenza di Dio, un vero e proprio premio per la loro vita esemplare; i patti sono chiari: le nozze sarebbero state entro un mese, i nobili signori si sarebbero occupati di tutte le spese e avrebbero inoltre restaurato la loro casetta e azzerato il debito accumulato nel tempo, i due coniugi avrebbero potuto vedere loro figlia una volta all’anno. Quale pazzo non avrebbe aperto le porte ad una tale fortuna?

Il dottor Fabrizi si reca a quel punto a casa di Rosa per avvertire la madre che sua figlia avrebbe dovuto cambiare vita e non si sarebbe più dovuta dedicare alle umili faccende; la descrizione della fanciulla stessa18 e della casa in cui abita19 non sono altro che un insieme di topoi pascoliani che ricordano le più belle pagine dei Nuovi Poemetti. Sappiamo che in Pascoli la raffigurazione della vita contadina si caricava di scoperti intenti ideologici: il poeta voleva infatti celebrare la piccola proprietà rurale, presentandola come depositaria di tutta una serie di valori tradizionali e autentici, in contrapposizione alla vita nobiliare. In sostanza la vita del contadino appariva al poeta come un rifugio rassicurante, un baluardo contro l’incombere di una realtà storica minacciosa: il fatto che la Drigo usi, in questi passi, la stessa terminologia, può già essere, a mio avviso, un campanello di allarme che anticipa qualcosa sulla sorte della protagonista. Anche la madre della fanciulla, grazie al proprio istinto, sembra percepire l’insinuarsi di qualche forte sconvolgimento nella vita della figlia: «ma anche la madre in quel momento guardava la figlia, e la guardava come se la vedesse allora per la prima volta e non dovesse rivederla mai più».20

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«Il volto era bello, purissimo di linea, delicato di tinte, illuminato da due immensi occhi lionati. Una gran treccia bruna incorniciava quella radiosa purità di medaglia antica. Solo le mani e i piedi, un po' larghi e tozzi, rivelavano la razza» Ivi,p. 8.

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«La casetta era là, dietro a loro, tacita e affumicata, vigilata dal gran pioppo. Il prato le si stendeva dinanzi, e in quel prato i meli erano carichi di frutta. La chioccia traversava il cortile con aria di importanza seguita dai suoi pulcini insonnoliti, il gattino nero si leccava la coda sull'uscio della cucina. Le prime lucciole apparivano e sparivano lungo le siepi». Ivi, p. 9

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Ciò che in particolare caratterizza Rosa viene messo in luce dallo stesso Folco, che la definisce una donna «di una primitività selvaggia»21; egli ne parla come di una creatura sostanzialmente buona, che ha fra i suoi pregi dolcezza, sommissione e docilità:

Chi poteva voler male ad una creatura che non apriva bocca se non per sorridere e per ringraziare, che non aveva volontà, che non aveva esigenze, che non aveva civetteria, disposta sempre alla condiscendenza, alla gentilezza? Le armi più acute e più velenose si sarebbero spuntate. Ella era piena di riguardi e di deferenza verso la suocera, che seguiva nelle interminabili novene, nelle interminabili visite agli altari; piena di premura e di pazienza per lo suocero cui teneva compagnia per ore e ore ascoltando senza batter ciglio ogni giorno la stessa storia sul «periodo più florido della famiglia Novelli-Casazzi». E col marito, sempre eguale, obbediente, sorridente, gentile, pronta ad accorrere alla sua chiamata, disposta a tacere e a restare nell'ombra se egli la dimenticava22.

La speranza di tutti è che ella, grazie all’educazione, possa notevolmente migliorare. Questa constatazione ci pone davanti ad un altro tema fondamentale di questa novella e di questa raccolta, il contrasto fra civiltà ed educazione da una parte e istinto dall’altra: Rosa ha molti pregi, ma deve essere “civilizzata”, deve essere trasformata in una creatura più idonea alla sua nuova vita.

Per prima cosa le viene fatto arrivare un abito da Torino più adatto alla sua nuova condizione di contessa, poi viene rinominata Eufrasia, nome più distinto e ricorrente nella famiglia dei Novelli-Casazzi, infine si ritiene utile farle prendere delle lezioni di lingua francese tutto ciò è finalizzato in primo luogo alla prossima presentazione della ragazza ai parenti. A tutto ciò lei non si oppone mai, non ha nessun tipo di volontà e nessun tipo di esigenza: ogni volta che apre bocca è per sorridere o per ringraziare. Ma nonostante la totale sottomissione, la giovane manifesta involontariamente, con i gesti, il proprio desiderio di libertà: ha scoperto in camera un piccolo cannocchiale che utilizza per guardare la natura fuori dalla sua finestra, nella direzione della casetta dei suoi, e questo è l’unico gesto che sembra procurarle un’insolita felicità.

Nonostante gli sforzi della fanciulla e della famiglia nobiliare, durante la colazione con i parenti, la figura di Rosa è in netto contrasto con quella dei commensali: «– O ella è

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Ivi,p. 9.

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troppo bella per loro, o essi sono troppo brutti per lei. Fatto sta che non armonizza coll'ambiente, che fa l'effetto di una pennellata troppo audace in un quadro dalle tonalità tutte grigie. La sua bellezza […] qui urta lo sguardo e lo spirito come una nota di troppo squillante gioia. Questo ambiente, anziché incastonarla come una gemma, l'opprime, la schiaccia. Evidentemente, essi sono troppo brutti per lei…»23.

Un bel giorno Rosa inizia finalmente a percepire la sua fortuna: sarebbe diventata madre, la sua creatura sarebbe venuta al mondo in tanta gioia di attesa e non avrebbe mai conosciuto la miseria e la privazione. Folco ormai ha ripreso la sua vita da scapolo e si fa vedere di rado, ma a lei non interessa, sempre circondata dai suoceri, sorride a quello che è in lei e alla sua futura condizione di madre.

Dopo la nascita del bambino, Rosa ha poche possibilità di rimanere sola con lui, ma una notte riesce a convincere la nutrice a lasciarlo dormire con lei; è su di lui che adesso proietta il proprio desiderio di libertà, non ha più bisogno di scrutare il mondo attraverso il cannocchiale, finalmente si sente libera, libera anche di recuperare quella parte irrazionale e istintiva che la nobile famiglia stava cercando di sopprimere: infatti ella si rivolge al piccolo Ademaro utilizzando il suo dialetto veneto, le stesse parole che sua madre disse a lei quando era in fasce e che, a sua volta, le erano state dette dalla nonna di Rosa.

Questa felicità dovuta alla maternità, però, di lì a poco si rivela solo un’enorme illusione. Dopo otto mesi di vita rigogliosa il bambino inizia a stare male e con lui la povera Rosa che, sempre più pallida, trascorre le sue giornate appoggiata alla culla. Lei non pensa che il piccolo sia in pericolo di vita, ma il suo istinto le fa intuire che i suoceri e il dottor Fabrizi abbiano un segreto; riesce ad ascoltare di nascosto alcuni loro discorsi, capisce ben presto che il bambino è “condannato” e che porta nel suo sangue i germi di miseria e di debolezza dei suoi predecessori. Il tentativo che è stato fatto è

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quello di far sposare il contino Folco con una donna sana e vitale, ma è stato tutto inutile; dopo due mesi di quell’agonia, il bambino muore.

Il grande dolore smuove Rosa e le fa balenare l’idea di ribellarsi: ha rinnegato la sua famiglia, cambiato nome, cambiato vita, tutto questo per la prospettiva di una vita ricca per il suo bambino, ma «ora che sapeva che i suoi figli erano condannati, che l’uno dopo l’altro sarebbero morti sotto i suoi occhi, fra le sue braccia impotenti a difenderli, che uno ad uno avrebbero portato nelle vene un germe di miseria e di morte...ora...ah no!...».24

Finalmente Rosa, nella parte conclusiva del racconto, diviene un personaggio dinamico: non è più l’Eufrasia dolce e mansueta, non è disposta a procreare nuovi infelici, a vedere morire fra le sue braccia le sue creature per alimentare il nome e la vanità dei nobili. Adesso il ritmo del racconto aumenta, ella corre verso casa, vuole recuperare la sua vita e la sua libertà, si accascia davanti alla porta e spera di essere riaccolta, ma non è più possibile:

Un’ora dopo il dottor Fabrizi e Giovanna colla balia grondante di sudore, irrompono nel cortiletto, e Rosa riparte con loro, nascosta negli scialli, col viso coperto e le mani fredde. Ritorna al suo posto.

Come il cane alla catena, fino alla morte25.

Lo svolgimento di questa vicenda mostra alcune convinzioni della scrittrice Drigo: in primo luogo ciò che emerge da queste pagine è la constatazione che ella non crede affatto che la giustizia di Dio premi i buoni in questo mondo. L’uomo ha la possibilità di ribellarsi, di provare a cambiare la propria vita e cercare la sua fortuna, ma incombe su di lui sempre e costantemente il lugubre presagio di un destino prestabilito, a cui è impossibile sottrarsi. Emerge qui chiaramente una forte influenza del fatalismo verghiano. Alla base della visione di Verga stanno posizioni radicalmente pessimistiche: la società a tutti i suoi livelli, dai più elevati ai più bassi, è dominata da uno spietato

24

Ivi, p. 23

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antagonismo fra individui, gruppi e classi; le leggi che la regolano sono la sopraffazione del più forte sul più debole e l’interesse individuale. Questa è una legge di natura, universale, che governa qualsiasi società, in ogni tempo e in ogni luogo, e, come legge di natura, essa è immodificabile: per questo motivo ogni intervento giudicante appare inutile e privo di senso, e allo scrittore non rimane che usare la tecnica dell’impersonalità. Gran parte dei personaggi di questa raccolta, come quelli di Verga, non hanno nessuna possibilità di cambiare la propria situazione, possono solo rassegnarsi.

I nobili Novelli-Casazzi cercano un matrimonio alternativo per provare a salvare la propria stirpe, ma ciò a cui sono destinati si ripresenta sempre con forza: la purezza e la vitalità di Rosa non bastano a spezzare il destino di morte con cui la famiglia deve fare i conti ormai da diverso tempo.

Anche la protagonista stessa, quando si rende conto che non ha più nessun senso la sua sottomissione, prova a ribellarsi al destino e a ritornare nella sua casa, ma la sorte è sempre più beffarda: oramai la moglie del fratello ha preso il suo posto, ella aspetta un bambino26.

E allora la fortuna non è la buona sorte di cui parla don Evaristo ai genitori di Rosa; è, alla latina, il potere pervasivo del destino, che condiziona interamente la vita umana e impedisce la realizzazione della volontà e dei desideri individuali. Di fronte ad essa ci si

26 Come vedremo analizzando anche il racconto Ritorno, il più delle volte la ripresa della vita precedente,

per questi personaggi, è impossibile. Anche in un racconto di Maria Messina, Casa paterna, la protagonista Vanna, dopo un’accesa discussione con il marito, resasi conto di non avere niente in comune con lui, torna nella casa dei genitori: questi, assieme ai fratelli e le cognate della ragazza, non le riserbano una grande accoglienza, si vergognano di lei e la trattano con indifferenza, al punto di “costringerla” a scrivere al marito affinché vada a riprenderla. Tutta la natura intorno a lei sembra dirle che un ritorno è impossibile: « – Non si torna indietro – sussurravano le rose molli e profumate sfiorandole i capelli. – Non si torna indietro! – ammoniva il mare da lontano, gettando sulla riva la spuma argentea , come se avesse voluto spingersi fino alla terrazza. – Non si torna. Tutto cambia. I fratelli hanno un altro viso. La madre ha un’altra voce. Altre donne hanno occupato il posto mentre eri lontana. E ciascuno ti accoglie, come si accoglie una straniera di passaggio». M.MESSINA, Casa paterna, in Novelle d’autrice fra Otto e Novecento, a cura di Patrizia Zambon, Roma, Bulzoni editore, 1998, pp. 227-243.

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può solo rassegnare, ogni ribellione, ogni tentativo di cambiamento risulta totalmente inutile e privo di senso.

Emerge anche da questo racconto il fallimento del processo di civilizzazione di Rosa: nonostante la sua sottomissione, come abbiamo visto, rimane sempre presente il desiderio di libertà ed è solo la voce della natura che guida la protagonista all’autentica comprensione delle cose del mondo. L’istinto della libertà insegna a Rosa ad usare il cannocchiale, ed è ancora l’istinto a farle percepire che non le è stata detta tutta la verità sulla malattia del figlio; sarà lo stesso istinto a farla fuggire verso casa, ma qui esso non potrà niente contro la sorte.

Fino a un certo punto la vicenda sembra una riproposta della ben nota favola della fanciulla povera che diventa nobile, con il più diretto antecedente della novella boccacciana di Griselda27. Come abbiamo visto però, Rosa non è affatto felice nella sua nuova vita da contessina, tutto ciò che deve fare le costa una fatica terribile e il marito la trascura e la tradisce; ella è veramente felice solo quando sa che diventerà madre, ma emerge anche qui un forte tono di tragica ironia: il piccolo Ademaro morirà dopo pochi mesi. A rendere ancora più tragico il destino della donna contribuisce il passo in cui l’autrice descrive, con toni idilliaci, il momento in cui madre e figlio sono finalmente da soli:

...Tepore dal seno materno a cui ancora la fresca guancia si posa, divina innocenza di quel sonno, incoscienza divina, inesprimibile profondità dello sguardo materno, inesprimibile felicità, sogno, realtà, speranza, dolcezza, unica verità, unico bene, unica estasi a nessuna altra eguale…

...Tu dormi, piccoletto, ed ella ti guarda. I suoi occhi ti baciano, i suoi occhi ti accarezzano. Manine, capelli, dolci occhietti chiusi, sentite la carezza?

...Lo sai? Ella ti parla. Ti parla nel suo dialetto natìo28.

Da queste parole si evince anche l’importanza che il tema della maternità occuperà nelle pagine della Drigo.

27

La protagonista di quest’ultima novella del Decameron di Boccaccio, Griselda, dopo essere riuscita a sopportare tutte le prove di fedeltà a cui viene sottoposta da Gualtieri, riesce a guadagnarsi l’amore del marito e del popolo e a vivere una vita serena con i suoi due figli. Rosa, la protagonista di questo racconto, non avrà nessun riscatto per aver sopportato continue umiliazioni.

28 P.D

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Nonostante questi ottimi presupposti di amore e felicità, in conclusione, anche un personaggio come Rosa, uno dei pochi personaggi drighiani totalmente integro e immune da meschinità, ha come unica scelta quella di sopportare il proprio male e ritornare nel posto in cui la sua “fortuna” ha stabilito che stesse.

LA BARBA DI DÜRER

Questo racconto venne pubblicato per la prima volta nella rivista «L’illustrazione italiana»,29 poi entrò a fare parte del volume La fortuna. In primo luogo esso si contraddistingue per un’ambientazione non tipica delle più note pagine drighiane: non siamo nelle campagne venete o friulane, bensì in una grande città tedesca, Norimberga. Questo è lo spettacolo che si presenta al piccolo Hans Hubner non appena scende dal treno:

Vede una città strana, nera: alte case scure coi tetti che finiscono in punta, strade tortuose e ripide, balconi carichi di gerani fiammanti, chiese color di bronzo e traforate come merletti, e, su tutta quell’ombra, su quella fosca patina greve, l’immacolata bianchezza della neve, che ha già coperto le case, le torri, le strade, che cade silenziosa soffice e lenta, come se non dovesse smetter mai più.30

Non certo un atmosfera rassicurante, per un bambino partito da solo da una calorosa Sicilia ricca di mandorli in fiore. Non molto più rassicurante è quella vecchia signora, alta e grassa che lo ha prelevato alla stazione, sua nonna: continua a chiamarlo Hans, mentre lui si chiama Giovanni, Nennè per sua madre, ma adesso, dopo un terribile terremoto31, quella vecchia è l’unica persona al mondo che gli resta. Come più volte gli aveva detto suo padre, ella abita e custodisce la casa del Dürer, ed è proprio qui che arrivano.

29 E

AD., La barba di Dürer, «L’illustrazione italiana», XXXIX, 43-44, 27 ottobre e 3 novembre 1912. 30

EAD., La fortuna, cit., p. 26.

31

Il terremoto a cui si fa riferimento si verificò il 28 dicembre 1908 e danneggiò gravemente le città di Messina e Reggio nell’arco di 37 secondi: metà della popolazione della città siciliana e un terzo di quella calabrese persero la vita. Si tratta di una della più gravi catastrofi naturali in Europa per numero di vittime e del disastro naturale di maggiori dimensioni che abbia colpito il territorio italiano in tempi storici.

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Il primo elemento che emerge nel rapporto fra i due è l’incomunicabilità: Nennè inizia a parlare il suo timido dialetto siciliano, la nonna domanda nel suo aspro tedesco e la parziale comunicazione avviene solo un po’ di tempo dopo grazie all’utilizzo della lingua francese conosciuta in parte da entrambi.

La mattina presto la nonna inizia ad accogliere i turisti, mentre Nennè incomincia a intraprendere la “vita da randagio”, esce per le piazze e torna a casa solo per i pasti; la nonna cerca in tutti modi di persuaderlo a desistere da quel vagabondaggio ma lui è troppo selvaggio, sembra che non si possa addomesticare. La sera sta a casa, in compagnia di un merlo irrequieto e di un gatto, ma nei suoi occhi da fanciullo c’è tanta malinconia, nostalgia e disperazione. Spesso capitano anche le tre intime amiche della nonna a tenerle compagnia: lui odia quelle strane donne che lo ignorano apertamente e ridono di lui non appena l’amica si allontana. Allora, non appena le vede arrivare e sa che si intratterranno nella casa fino alla mezzanotte, prende il suo lumicino e si reca nella stanze stracolme di stampe di Dürer; lì osserva attentamente tutti quei volti e spesso gli pare di incontrare qualcheduno di già noto per le strade e i sobborghi di Norimberga: da quel momento il piccolo inizia ad interessarsi vivamente alle stampe e ai libri contenuti nell’abitazione.

Consapevole del fatto di non riuscire ad amare quel popolo e perennemente torturato al pensiero della terra che ha abbandonato, di lì a poco Nennè si trova costretto ad occuparsi anche di un’incombenza pratica: la nonna si ammala e lui le giura che non sarebbe scappato e avrebbe aperto la porta a tutti i visitatori.

Un giorno la comparsa di una famiglia di Italiani gli dà lo stimolo per iniziare a raccontare ai turisti tutte quelle lunghe storie che ormai da tempo sente raccontare con massima fierezza alla nonna e che ama arricchire con la sua mirabile genialità e intuizione. Con quella donna italiana riesce ad avere il contatto umano che da tempo sembrava non appartenergli più:

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Ella sorrideva, e sotto quel sorriso – era dolce? era distratto? era indifferente?...Nennè non sapeva, ma gli pareva un lembo di cielo della sua Italia, ma gli pareva qualche cosa della sua mamma, – egli a poco a poco si faceva coraggio, disserrava il suo cuore, raccontava...e fra le vecchie cose straniere le bizzarre parole «terremoto, Messina, morte», passavano con un fremito di pianto trattenuto, colle visioni dolci e terribili di un altro cielo32.

Una piccola speranza si accende in lui, perché la bellissima signora gli ha promesso che sarebbero passati a trovarlo prima di ritornare in Italia, ma dopo alcuni giorni arriva una semplice cartolina di saluti e Nennè capisce che oramai se ne sono andati; in un primo momento è preso dalla disperazione, poi inizia a ragionare sulle parole della cartolina: “Se torni in Italia, vieni a trovarci”.

Decide che sarebbe dovuto tornare in Italia, ma non ha denaro e la nonna non avrebbe mai compreso le sue atroci sofferenze; ha bisogno di salutare Messina ed il suo mare, poi sarebbe tornato a Norimberga più tranquillo per riprendere il suo lavoro ed accudire la povera donna ammalata.

Pensa a come potersi procurare del denaro, quel tanto che basta per un misero viaggio in terza classe, e, ricordando due vecchi amici siciliani, gli viene un’idea: fabbricare una reliquia da vendere ai turisti per i quali pochi marchi non sarebbero stati nulla. Inizia a tagliare dei ciuffi di pelo dal dorso del gatto (il quale socchiude appena gli occhi) li divide in venti eleganti ciuffetti graziosamente legati e li colloca in venti scatoline che hanno precedentemente contenuto ignobili pillole della nonna: quella sarebbe stata la barba del Dürer.

Più volte Nennè durante le sue vendite è preso dalla vergogna per ciò che sta facendo, ma appena riesce ad avere i suoi sessanta marchi «gli parve di esser liberato da un incubo: uscito illeso per un prodigio da un pericolo immane: libero, salvo»33. Anche il pensiero della povera nonna malata in qualche modo smorza la sua felicità, ma il richiamo della terra natia è ormai troppo forte:

32

P.DRIGO, La fortuna, cit., p. 33.

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E nondimeno bisognava partire, lasciarla, fuggire…con rimorso, piangendo… ma tornare là di dove si era venuti, come le rondini tornano al nido per una legge più forte di ogni legge, più sacra della parentela; per quel bene, per quel male, che ha nome nostalgia, che ritorna alle sue terre il vagabondo dalle più lontane contrade, che ridona i figli alla madre anche se non li ha nutriti, anche se li ha percossi e traditi; per quella febbre che dalla terra infida rammenta solo le dolci primavere e le notti serene come una donna perfida e adorata alla memoria dell’amante ridice solo i brevi istanti d’amore...34

A quel punto il piccolo Nennè, dopo aver lasciato un biglietto in tedesco con su scritto “nonna perdonami, io tornerò indietro”, prende il primo treno in corsa verso la patria. Abbiamo già detto come l’ambientazione non sia quella tipica dei racconti della Drigo. L’autrice più volte evidenzia la distanza fra una Sicilia calda ed accogliente e la grigia città tedesca in cui non sembra nemmeno essere maggio. Anche le persone non sembrano assomigliarsi: se il console italiano si preoccupa di raccomandare il piccolo ad alcuni passeggeri scelti, egli si ritrova ben presto fra «grossi tedeschi indifferenti carichi di pacchi, col dorso curvo sotto il reisesack, colle villane scarpe ferrate»35. Una considerazione migliore non è riservata agli americani in visita alla casa,36 i quali mostrano di disprezzare gli italiani e considerarli dei ladri.

Inoltre, in questo racconto, non troviamo neppure al centro delle vicende una donna con le sue atroci sofferenze: il protagonista di questa storia è comunque un essere debole, un ragazzino orfano di entrambi i genitori, costretto ad attraversare tutta l’Italia per recarsi in Germania dalla nonna. Egli in un primo momento è ribelle e desideroso di libertà, ma non cerca mai di sfuggire al proprio dovere: quando la nonna si ammalerà egli si dedicherà totalmente alla cura della casa e nel momento in cui deciderà di tornare nella sua patria, avrà la piena consapevolezza di non poter sfuggire al proprio destino: dovrà ben presto tornare a Norimberga ad accudire la nonna e accogliere gli ospiti.

Come abbiamo visto, l’accettazione del proprio destino è un tema ben presente nelle pagine della Drigo: l’impulso anarchico può realizzarsi solamente come momento

34

Ivi, p. 38

35 Ivi, p. 26 36

«non passavano quasi più che degli americani, eterni vagabondi, boriosi e pettoruti a fianco di ragazze che parevan serpenti, di signore che parevano corazzate, se ne andavano senza dargli nulla, e senza salutarlo» Ivi, p. 36.

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eccezionale, interludio in un contesto di paziente accettazione del dovere e repressione degli istinti. E da qui che possono derivare gli eventuali successi, sempre comunque parziali e limitati: Nennè può tornare, seppure solo per un momento, in patria perché ha acconsentito a reprimere il proprio desiderio di libertà e a sostituire la nonna come guardiano.

Sono proprio questi i personaggi che la scrittrice privilegia (almeno per adesso) e verso cui nutre una certa ammirazione: coloro che, tormentati dai sensi di colpa, non hanno la forza per spingere fino in fondo la propria ribellione.

A mio avviso, in questo testo è molto forte l’influenza di De Amicis37

, scrittore del tardo Ottocento, con i suoi racconti di bambini buoni ed eroici.

Il primo racconto che mi viene in mente è Dagli Appennini alle Ande, nel quale si narra la storia di Marco che da Genova si imbarca alla volta di Buenos Aires per raggiungere sua madre, emigrata in Argentina per lavoro. Egli segue con totale dedizione la madre nei suoi continui spostamenti, la quale, molto ammalata, si rifiuta di farsi curare: solo nel finale, quando scopre di essere stata raggiunta e ritrovata dal figlio, cambia idea e decide di sottoporsi all’operazione chirurgica che le salva la vita.

Altri racconti possono aver influenzato la storia della Drigo. Basta pensare a Ferruccio, il protagonista del racconto Sangue romagnolo, il quale, per dimostrare l’amore nei confronti della nonna, le si para davanti ricevendo al posto suo la pugnalata mortale di un bandito. O il protagonista del Piccolo patriota padovano, il quale rifiuta con asprezza le monete donategli da dei signori a Genova, dopo averli sentiti criticare gli italiani.

37

Il libro a cui faccio riferimento è Cuore, un romanzo per ragazzi scritto a Torino, strutturato ad episodi separati e pubblicato per la prima volta dalla casa editrice Treves nel 1886. Il romanzo è strutturato come la stesura di un diario di un alunno di una scuola elementare torinese, Enrico Bottini, in merito alla sua vita e a quella dei suoi compagni di terza elementare, intervallato da dei racconti mensili del maestro su varie e avvincenti storie, sempre aventi dei fanciulli come protagonisti. Il successo del libro fu tale che De Amicis divenne lo scrittore più letto di’Italia.

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In tutti questi racconti il sentimento è ben presente nell’esaltazione dei forti e sani affetti famigliari, facendo sì che questi personaggi spesso risultino quasi patetici e piuttosto irreali: questa tipologia di bambino eroico che riesce a gestire cose non propriamente adatte ad un fanciullo di otto anni sarà ripresa nel racconto eponimo della successiva raccolta, Codino.

Questa pateticità però allontana i piccoli di De Amicis da quelli della Drigo, in modo particolare dal protagonista del nostro racconto: i primi sono spesso descritti come dei “piccoli santi”38

, mentre Nennè non è un bambino così puro, ma spesso si rivela inquieto e preso dai sensi di colpa.

Come abbiamo già detto, la sua grande capacità sarà quella di gestire la sua parte istintiva, ma la sua voglia di evasione emerge comunque fin dal primo momento:

Cominciava davvero per Nennè la vita di tutti i giorni. Monello avvezzo alla strada, alla libertà, avvezzo a vivere sulla banchina, al molo, fra marinai, facchini, ragazzi, gente libera e spensierata, che va viene arriva riparte in una città di mare come Messina, piena di risa e di canzoni, egli non poteva resistere nella chiusa afa d'una prigione senza sole. Un passo alla volta, un gradino alla volta, guardandosi indietro, arrivò in fondo alla scala, schiuse il portoncino, fu sul piazzale. Così ogni giorno. Come certi gatti randagi che non si ricordano della casa se non quando hanno fame, la nonna lo vedeva comparire soltanto alle ore dei pasti, pieno di freddo, ispido e arruffato, silenzioso e stanco. Ed invano, in tedesco, in francese, con una disperata mimica cosmopolita, ella tentava di persuaderlo a desistere da quel perpetuo vagabondaggio, tentava di attaccarlo alla catena: il falchetto era troppo selvaggio, non si poteva addomesticare39.

Inoltre, in tutto il racconto il suo comportamento non è sempre così esemplare: egli ricorre all’inganno per procurarsi i soldi che gli servono per comprarsi i biglietti e, nella conclusione del racconto, pur con la consapevolezza di dover tornare, non riesce a sublimare l’istinto di lanciarsi in corsa verso la patria.

38 Non dobbiamo dimenticarci che il chiaro scopo del testo di De Amicis è quello di insegnare ai giovani

cittadini del Regno le virtù civili, ossia l’amore per la patria, il rispetto per i genitori, lo spirito di sacrificio, l’eroismo, la carità, la pietà, l’obbedienza e la sopportazione delle disgrazie.

39 P.D

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L’AMORE

L’amore fu composto e inserito direttamente nella raccolta del 1913, senza essere prima pubblicato in rivista. Le protagoniste sono due figure femminili, madre e figlia. La madre, Nanna, è conosciuta in paese come “la sciancata che domandava l’elemosina sulle scale della chiesa” ed è famosa per la sua vita dissipata e il costante stato di ubriachezza; un giorno, con grande sorpresa di tutti, viene ricoverata in ospedale in stato di gravidanza. In un primo momento continua ad avere un atteggiamento scontroso nei confronti delle suore e della bambina appena nata, fino a quando succede il miracolo: la piccola, chiamata non a caso Innocenza, oramai denutrita e priva di forze, si attacca a sua madre come se la riconoscesse e Nanna da quel momento non può che adorare la sua creatura. In paese oramai si parla della “conversione di Nanna”: quella donna sempre ribelle e feroce, adesso non fa che acconsentire con la docilità di un agnello ed adempire a tutti i suoi doveri religiosi, e tutto ciò per amore di quel «piccolo mostriciattolo giallastro che poppava debolmente ma ogni giorno più si attaccava alla vita»40.

Emerge subito qui quello che sarà il tema centrale del racconto: la forza stravolgente dell’istinto materno come l’unico in grado di cambiare la vita della donna e dare nuovo slancio vitale a un esserino malaticcio che si era fino allora rifiutato di attaccarsi al petto della nutrice.

Di lì a poco la fortuna sembra volgere a favore di Nanna e di sua figlia: il consiglio d’amministrazione dell’infanzia derelitta le propone un posto come portinaia dell’istituto e l’accettazione della piccola Innocenza come educanda; non ci sarebbe stata nessuna separazione.

Trascorrono sedici anni là dentro, senza mai uscire, anni in cui la bambina affronta tutte le malattie dell’infanzia grazie alle amorevoli cure delle suore e al costante affetto delle

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sue compagne ed ha sempre un posto in primo piano in tutte le cerimonie religiose alle quali partecipa con enorme devozione. Ella oramai è una giovinetta: non è una bella creatura, gobba, con un pallido viso dal mento aguzzo, ma dei biondi capelli meravigliosi che sciolti toccano terra. Nell’istituto tutte le vogliono bene.

Nanna passa le sue giornate in portineria e anche di lei le suore non hanno che compiacersi: silenziosa, devota, premurosa, esatta. Aspetta costantemente l’ora della ricreazione, quei minuti in cui Innocenza sarebbe andata a trovarla. Sulla figlia oramai proietta tutti i suoi sogni e il ricordo della vita precedente emerge solamente quando la piccola si dimentica di farsi vedere; anche in quei momenti la sua disperazione è tacita e profonda, ma è ben evidente anche in questo personaggio la nostalgia e il forte istinto alla libertà:

In quei momenti avveniva che il passato le tornasse fulmineamente dinanzi…la campagna immobile nelle arsure di agosto, il ciglio polveroso d’una strada, l’odore d’un’acqua stagnante, il latrato di un cane, la sua capanna bassa e nera in riva al fiume…ah! Fuggire laggiù, ancora libera, sola, nei campi deserti, sdraiarsi all’ombra di un albero e ascoltare le rane, trascinarsi di cascina in cascina, senz’altra legge del sole che si leva e si corica, mangiare nella scodella del cane, libera, libera!...41

Come abbiamo già avuto modo di vedere nel racconto La fortuna, un aspetto tipico dei personaggi drighiani è quello di proiettare il desiderio istintivo di ribellione e di libertà direttamente sulla propria creatura: è quando per qualche motivo questo legame si indebolisce o, nel caso di Rosa, viene meno, che la parte più irrazionale, istintiva e meno controllata emerge. Ovviamente per la Drigo il buon personaggio e colui che riesce a gestire queste emozioni e rimanere ancorato al proprio destino senza cercare di ribellarsi o modificare il corso degli eventi. Ed è così che si comporta Nanna non appena vede comparire sua figlia:

Tutto era dimenticato. Non esisteva più nulla. Nanna era felice. Felice!...tornava al suo posto; e sorrideva; e balbettava parole di tenerezza; e tendeva l’orecchio; e batteva festosamente con il bastone sull’impiantito. Un’onda d’amore e di orgoglio le gonfiava il cuore, passava travolgendo e placando, sulle memorie di vergogna, sugli avvelenati istinti.42

41

Ivi, p. 45

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La sorte però decide che le due donne sarebbero ritornate verso la libertà che Nanna aveva spesso sognato; al diciassettesimo anno di età di Innocenza, una violenta epidemia si abbatte su tutto il paese e i collegiali sono rimandati alle proprio case: alle due donne non rimane che ripararsi per alcuni mesi nella capanna in riva al fiume. Dopo un primo breve momento di smarrimento, Innocenza sembra ben adeguarsi alla nuova vita: sostituisce l’uniforme del convento con un vestito di tela giallognola a fiorellini viola e, cosa ben più importante, ha una nuova inseparabile amica, la vicina di casa Pasquetta. Le due amiche passeggiano ogni giorno per raggiungere il paese dove incontrano gente e spesso si fermano di fronte alle lusinghe e ai gesti gentili di Zeffirino, il giovane barbiere di Castelluzzo; Innocenza inizia a provare delle emozioni mai sentite prima: «tutti quei giovani, quegli sguardi, quella curiosità, eccitavano Innocenza, le sferzavano il sangue».43

Presa da questa euforia per le attenzioni di Zeffirino, una sera la fanciulla chiede alla madre di raccontarle del suo fidanzato e Nanna, non trovando il coraggio di dirle che lei era figlia di una brutale violenza, inventa la storia di un giovane innamorato che la volle sposare; questi racconti non fanno che accrescere l’ottimismo di Innocenza nei confronti dell’amore la quale, adesso, non ha più dubbi: è chiaro che Zeffirino la ama. Oramai la vita all’interno dell’istituto è solo un vecchio ricordo e nel momento in cui arriva la lettera della superiora che ne annuncia la riapertura, la giovane donna manifesta chiaramente la propria volontà:

– Non penserai che torniamo a seppellirci là dentro, non è vero? Non penserai che io torni ad essere la schiava e la serva di tutti, non ti passerà per la mente?

Nanna curvò la schiena come il cane quando il padrone lo batte.

– Faremo quello che vuoi tu cara – rispose umilmente. – non arrabbiarti.44

43

Ivi, p. 47

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Per nulla al mondo la giovane avrebbe rinunciato alla sua libertà e a questo nuovo ginepraio di emozioni; le due donne si dirigono verso Modena per trovare la Superiora e comunicarle che adesso Innocenza pensa piuttosto a maritarsi.

Al ritorno dal convento hanno però una brutta sorpresa. Pasquetta le sta aspettando in massima fibrillazione, ha ricevuto una lettera da Zeffirino, il quale le dichiara di essere innamorato di lei da ormai due anni, e adesso ha bisogno della bella scrittura di Innocenza per rispondere ed esprimere il reciproco amore.

Nanna è presa dalla rabbia verso Pasquetta, avrebbe fatto di tutto per non vedere la sofferenza di sua figlia, ma ella ormai si è chiusa in casa nel mutismo più ostinato e non fa che torturarsi, guardando dalla finestra gli amanti passeggiare; nonostante ciò, il suo ardore non è del tutto spento e a poco a poco l’avvento della primavera la porta a vedere le cose con una nuova speranza e a credere ancora nella forza dell’amore:

Sì, con speranza!...perché non anche per lei?...C’era tanto amore al mondo!...Ce n’era tanto tanto, per tutti, per tutti!...Lo si sentiva talmente nell’aria, nell’erba, nel cielo che mutava colore ad ogni ora, nel gioioso trillo dei passeri dondolanti sulle vette degli alberi!...perché non anche per lei...?

Ella aveva diciassette anni; dimenticò Zeffirino e Pasquetta; spalancò la finestra; e si rimise a sperare45.

L’occasione per uscire nuovamente di casa è una riunione organizzata a beneficio dell’erigendo padiglione per i malati di tubercolosi; il prezzo dei preparativi pare a Nanna piuttosto elevato, ma in compenso la sarta prima di andarsene dichiara che Innocenza sarebbe stata la ragazza più elegante della riunione e questo basta per rendere la madre completamente docile alle sue pretese.

La serata però procura una nova sventura alla povera Innocenza, una di quelle, come sostiene la scrittrice stessa, «più insultanti e più atroci, che muovono il riso, che eccitano lo scherno, il frizzo mordace, quasi che il loro aspetto abbia il potere di attirare a galla quanto nell’anima umana v’ha di più spietato e perverso».46

45

Ivi, p. 56

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