Il Presidente dell’Associazione degli agricoltori del Vercellese
Sen.Vincenzo Ricci
Amedeo Avogadro di Quinto
Tre Presidenti della Cassa mutua infortuni agricoli di Vercelli
Carlo Arborio di Gattinara Vittorio Sesia
Ma è giusto, ma è umano ci domandiamo noi che la legge protegga gli operai delle officine, i lavoratori delle industrie e non i contadini? Se un operaio per sfortuna sua viene colpito, inabilitato, od anche ucciso da una macchina, egli nei primi due casi, la famiglia nell’ultimo, viene indennizzata ed in tutti i modi protetti dalla legge. Un povero contadi-no invece cui la cinghia di una trebbiatrice, o l’ingranaggio di una macchina agricola, gua-sti o spezzi l’esistenza non ha diritto ad indennità di sorta, la legge in verun modo lo pro-tegge. Ora è ciò giusto, è ciò umano ci domandiamo noi?
Ma forse i contadini non sono lavoratori come gli operai dell’industria? Ma forse i con-tadini non hanno una vita da conservare, una famiglia da sorreggere e da mantenere? Coi grandi immensi progressi che fa l’agricoltura, colle grandi e pericolose macchine che la scienza dei campi introduce nelle fattorie oh! non viene ad essere in pericolo la vita del contadino così come nelle officine è in pericolo la vita dell’operaio? Dunque è necessario che il governo provveda e trovi modo di estendere il beneficio della legge sugli infortuni anche nelle campagne.1
Questo brano tratto dal giornale “la Nuova Gazzetta Vercellese” del 21 gennaio 1902, testimonia con efficacia una questione molto sentita nelle nostre terre e cioè l’estensione, anche per il settore agricolo, del-l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro. Il problema di allargare anche a tutti i lavoratori della terra, salariati fissi o avventizi, l’obbligo assicurativo contro gli infortuni (che, come abbiamo descritto nelle pagine precedenti, la legge 17 marzo 1898 n. 80 aveva previsto solo per gli operai delle industrie) rimaneva in gran parte insoluto sia per le difficoltà tecniche di applicazione dei premi, sia soprattutto per non aggravare la proprietà fondiaria d’un ulteriore costo. Nell’Italia d’inizio secolo il capitalismo agrario era, sulla questione dell’assicurazione infor-tuni in agricoltura, diviso in due parti: al nord si premeva per l’obbligo, al sud invece veniva respinta qualsiasi forma d’intervento pubblico. Data la varietà delle mansioni, poi, non solo era più difficile identificare il rischio professionale, ma anche erano più facili le frodi e non semplici i control-li. In agricoltura, specialmente nelle aziende agrarie di una certa dimen-sione, il numero degli operai occupati, in particolare gli avventizi, era
illi-Introduzione
I ritratti, dipinti da Francesco Vertice, si conservano presso la Sede INAIL di Vercelli.
1“La Nuova Gazzetta Vercellese” del 21 gennaio 1902, p. 2. Per ciò che concerne l’ardua strada verso la tutela degli infortuni in agricoltura vedi A. CHERUBINI, Storia della previdenza sociale in Italia (1860-1960), cit., pp. 137-146 e pp. 194-208.
mitato e variabile, non solamente di settimana in settimana ma di giorno in giorno e, a volte, nello stesso giorno. Questo dipendeva dalle esigenze d’una maggiore o minore intensità dei lavori agricoli, del tempo della semina, del raccolto, trebbiatura, ecc. Tuttavia gli agrari delle nostre terre, in particolare l’Associazione fra gli agricoltori del Vercellese, quasi a rac-cogliere l’accorato invito apparso sulla stampa locale, istituirono già nel dicembre del 1902 una Cassa mutua cooperativa contro gli infortuni dei lavoratori della terra, trasformata successivamente in cassa consorziale, approvata con regio decreto 10 agosto 1904, anticipando addirittura la legge, la quale vide la luce solo nel 1917.
Per rendere agevole la possibilità di assicurare tutti i contadini d’una azienda agraria si studiò, e si mise in pratica, la forma di calcolo del pre-mio per superficie anziché per numero di operai occupati. Il metodo di assicurazione per estensione o superficie fu il risultato d’uno studio accu-rato dei promotori della Cassa mutua, in particolare di una speciale com-missione istituita appositamente per redigere lo statuto sociale. In esso non solo veniva fissata una tariffa unica del 5 per mille sull’ammontare complessivo della mano d’opera per la conduzione dell’azienda, ma veni-vano anche stabilite le norme per ricavare l’ammontare stesso, grazie a uno studio compiuto dagli arbitri delegati a questo scopo.
La formula adottata per il conteggio dei premi, per estensione anziché per numero di operai occupati, permeò tutti i progetti di legge presenta-ti in Parlamento in età giolitpresenta-tiana, da quello del senatore Emilio Conpresenta-ti, nel 1907, a quello della commissione Nitti del 1913, fino ad arrivare final-mente - in piena prima guerra mondiale - al decreto legge luogotenen-ziale 23 agosto 1917 n. 1450 che istituì l’obbligo assicurativo anche per gli infortuni sul lavoro in agricoltura.
Dopo aver dato uno sguardo generale alle condizioni di vita e agli aspetti medico-sociali dei contadini vercellesi tra Otto e Novecento, in particolare sulle malattie e gli infortuni tipici da risaia, l’attenzione si è soffermata sulle più importanti vicende della Cassa mutua infortuni dal 1902, anno di fondazione, al 1914. Abbiamo indicato alcune cifre statisti-che utili per comprendere l’evoluzione di quello statisti-che risulta essere - allo stato attuale delle ricerche - il primo istituto assicuratore italiano contro gli infortuni sul lavoro in agricoltura: nel primo esercizio, iniziato il 1° giu-gno 1903, risultavano iscritti 79 soci, in quello del 1914 ben 1.015; gli infortuni passarono da zero a 328, le spese per le indennità a lire 71.917;
dai quindicimila contadini assicurati, si passò, in poco più di un decennio, a più di centomila.
Non sono mancati accenni - nei limiti dei documenti reperiti - alle
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tappe più significative che hanno testimoniato una presenza importante anche fuori del circondario vercellese: la partecipazione ai congressi internazionali per gli infortuni sul lavoro di Vienna (1905) e di Roma (1908), la partecipazione e la vittoria al concorso a premi indetto dalla Società agraria di Lombardia nel 1908, l’attivismo nel discutere e contra-stare il progetto della commissione governativa Nitti, che prevedeva lo scioglimento delle casse mutue soppiantate da consorzi obbligatori, le lodi tributate da importanti esponenti politici del tempo - primo fra tutti il Luzzatti - sui più importanti organi d’informazione del nostro Paese.
Pur avendo come termine di osservazione il 1914 riteniamo comunque utile ricordare, al termine di questa nota introduttiva, come nel primo dopoguerra - in regime di assicurazione obbligatoria - la Cassa mutua infortuni agricoli di Vercelli ricevette dal governo il mandato di gestire l’assicurazione nelle province di Novara, Pavia e Alessandria, a testimo-nianza d’un impegno e dinamismo che aveva fatto scuola in Italia.
1. Riso, malattie e infortuni nel Vercellese tra Otto e Novecento
Nell’ordinamento delle circoscrizioni amministrative seguito agli eventi risorgimentali (1859) Vercelli aveva perso la sua plurisecolare con-dizione di capoluogo di provincia per divenire capoluogo d’uno dei sei circondari di cui era costituita la provincia di Novara. All’inizio del seco-lo la città aveva, coi sobborghi, circa trentamila abitanti. Il circondario del Vercellese, che contava una cinquantina di comuni con una popolazione di circa centocinquantamila abitanti, comprendeva tre zone ben distinte fra loro: una zona collinare, formata dai colli morenici di Moncrivello e dalla striscia di colline biellesi poste tra Brusnengo e Gattinara; una zona delle Baragge, poste l’una a occidente del canale di Cigliano e l’altra a nord-ovest del torrente Elvo; infine la zona pianeggiante, che compren-deva la parte più meridionale della provincia.2Delle tre zone, quest’ulti-ma era la vera e propria “bassa vercellese” definita da Salvatore Pugliese
“una delle più fertili e ricche plaghe agricole d’Italia ed anche del mondo”, la cui prosperità e ricchezza era dovuta non solo alla ricchezza delle acque, ma soprattutto al lavoro dell’uomo.
Secondo il censimento del 1901, la popolazione lavoratrice del vercel-lese, dai nove anni in avanti era di 87.175 persone, di cui 71.419 addette all’agricoltura, alla caccia e alla pesca, mentre 15.756 erano dedite all’in-dustria. Dieci anni più tardi i risultati erano pressoché simili, anche se non furono assunte le stesse basi di paragone: nel censimento del 1911,
2F. MASCHERA, Mutue cooperative catto-liche nella Bassa vercellese, in C. BERMOND(a cura di), Cooperazione e mutualità in Piemonte e Valle d’Aosta, cit. , p. 249.
infatti, la popolazione lavoratrice fu registrata non più dai nove anni in su bensì dai dieci anni. I lavoratori dei campi sommavano a 73.857 rispetto a quelli dell’industria che constavano di 17.691 persone; come si può dedurre più del 75% era occupato nel settore primario.3
Sensibili trasformazioni si ebbero nelle campagne vercellesi già nella prima metà dell’Ottocento e negli anni immediatamente successivi. I ter-reni incolti diminuirono, fino a divenire un’esigua percentuale e, accanto ai terreni coltivati a frumento, segale e mais, si andò estendendo la colti-vazione del riso, un tempo coltivato solo in forma estensiva nelle aree paludose.4
L’estensione progressiva delle risaie non solo comportò modificazioni di carattere economico e sociale, ma generò anche radicali modificazioni nelle condizioni di vita e di lavoro dei ceti subalterni dell’agricoltura, con particolari ripercussioni sulla loro situazione igienico-sanitaria. Ancora nel 1869 ad Alice Castello, un paese distante circa 30 chilometri da Vercelli, scoppiarono tumulti contro la coltivazione del riso per il timore che incu-teva: “Al suono delle campane e al rullo dei tamburi la popolazione scese in massa a guastare le risaie; per placare gli animi non bastarono i carabi-nieri e le autorità dovettero fare intervenire anche la cavalleria”.5
Con il progressivo perfezionamento della rete irrigua, potenziata anche con l’ingrandimento del canale di Cigliano (aperto nella Dora Baltea già nel 1785 e accresciuto sino agli anni cinquanta dell’Ottocento), con l’apertura del canale Cavour (1866) e con l’azione dell’Associazione d’irrigazione Ovest-Sesia (sorta nel 1853), la risicoltura si sviluppò con rapidità negli anni che vanno dal 1860 al 1880, divenendo il tipo di col-tura prevalente. La colcol-tura del gelso e del baco da seta, ancora florida nel 1860, declinò fino all’estinzione.6
Conosciuto nell’Italia padana almeno a partire dal XV secolo, il riso si era inserito con un rilievo crescente nell’economia agricola delle nostre terre costituendo, lungo il corso dell’età moderna, una sorta di “cuneo innovatore”, capace di disgregare le vecchie economie mezzadrili, favo-rendo l’affermarsi della grande azienda a salariati. La pianta, infatti, richiedendo vaste estensioni di terre pianeggiante e irrigua, dava origine a forme di economia aziendale che richiedevano normalmente un inve-stimento di capitali superiore di quattro volte circa a quello mediamente necessario nell’agricoltura asciutta.7
In presenza di aziende agrarie di notevoli dimensioni, varianti dai cento ai trecento ettari di terreno, la coltivazione del riso necessitava di un’ingente manodopera bracciantile stagionale e richiedeva notevoli investimenti al fine di edificare strutture adeguate per questa coltura e
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3S. PUGLIESE, Produzione, salari e red-diti in una regione risicola italiana, Milano Piemonte a mezzo il secolo XVIII,Torino 1966 (ristampa anast.), p. 87. Per uno sguardo d’insieme riferito alle nostre terre vedi P.
MONTI, Aspetti economici e sociali dell’agri-coltura vercellese, in “Bollettino Storico Vercellese”, n. 4, Vercelli 1974, pp. 115-123.
7P. BEVILACQUA, Le rivoluzioni dell’ac-qua. Irrigazione e trasformazioni dell’agricol-tura tra Sette e Novecento, in AA.VV., Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, vol. I, Venezia 1989, p. 271
per il governo del terreno che l’accoglieva. Se si volevano ottenere buoni risultati da questo tipo di agricoltura irrigua erano così necessari grandi disponibilità economiche da parte dei proprietari, in un contesto storico e sociale che stava assistendo sia al progressivo declino del contratto mez-zadrile che della piccola proprietà. Il contratto di mezzadria era diventa-to ormai incompatibile poiché i proprietari preferivano cedere in affitdiventa-to e i mezzadri non avevano risorse per compartecipare alle spese. Nuova figura emergente fu quella dell’affittuario capitalista - apparso sulla scena nella seconda metà dell’Ottocento - destinato a gestire i fondi dei grandi proprietari terrieri: oltre a procurare la manodopera, sorvegliava la produ-zione e assumeva funzioni direttive, diventando un membro influente nel paese, come il parroco, il maresciallo, il medico condotto, ecc.8
La risicoltura, inoltre, coltura capitalistica per eccellenza, favorì la nascita di quello che è stato definito, mutuando il termine usato per il settore industriale, proletariato agricolo, le cui condizioni di vita e di lavo-ro erano particolarmente dure.
Anche se il nostro studio è dedicato specificatamente al tema degli infortuni sul lavoro, reputiamo tuttavia importante dedicare alcuni cenni sulle condizioni di vita e sugli aspetti medico-sociali dei contadini soprat-tutto per considerare il peso di quelle malattie che possiamo senza dub-bio qualificare come “professionali”.
Tra le varie testimonianze in merito a questo problema sociale è inte-ressante osservare - pur nella sua frammentarietà - il risultato dell’inchie-sta sulle condizioni lavorative nelle risaie della Lomellina, del Vercellese e del Novarese, compiuta nell’estate del 1903, promossa dall’Ufficio del lavoro della Società umanitaria di Milano.9
La malaria era un morbo che veniva trasmesso dalla zanzara anofele, insetto che trovava nella risaia le condizioni ottimali per prosperare, la quale aspira il sangue del malato e con la sua puntura ritrasmette la stes-sa malattia all’individuo stes-sano. Anche se raramente provocava una morta-lità diretta, essa induceva comunque a un indebolimento generale del-l’organismo e questo rendeva più facile la nascita di altre malattie.
Considerando che le conoscenze mediche del tempo non erano certo come quelle di adesso, in mancanza di meglio, l’unico modo per miglio-rare la pessima situazione sanitaria esistente consisteva nel modificare in qualche modo il regime delle acque delle risaie e nel proteggere con reti-celle le finestre delle abitazioni. Verso la fine del secolo si scoprì, comun-que, un farmaco in grado di combattere la malaria, il chinino, un derivato chimico estratderivato dalla corteccia della china. Tuttavia questa scoperta -come evidenzia Sandra Franciscono nella sua interessante ricerca - non
8Sul “personale delle classi proprieta-rie” che di volta in volta hanno controllato quote maggiori o minori della ricchezza agricola vedi A.M. BANTI, I proprietari ter-rieri nell’Italia centro-settentrionale, e G. L.
DELLA VALENTINA, Padroni, imprenditori, salariati: modelli capitalistici padani, in AA.VV., Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, vol. II, Venezia 1990, rispet-tivamente pp. 45-103 e 151-200.
9G. LORENZONI, I lavoratori delle risaie.
Inchiesta sulle condizioni del lavoro nelle risaie della Lomellina, del Vercellese e del Novarese compiuta dall’Ufficio nell’estate del 1903, Milano 1904, pp. 120-130.
ebbe effetti immediati sulla popolazione rurale, di solito diffidente nei confronti di ogni tipo di novità.10
Solo nel 1900, con la legge 505 del 23 dicembre, il chinino fu reso monopolio statale e venduto a un prezzo accessibile a tutti. L’anno suc-cessivo, grazie alla legge 460 del 2 novembre 1901, vennero dichiarate le zone malariche in cui il chinino doveva essere fornito gratuitamente dai padroni ai lavoratori agricoli. La somministrazione di questo farmaco era compito dalle congregazioni di carità, nel caso queste mancassero, del comune. I proprietari, in ragione della superficie posseduta, avrebbero poi rimborsato questi ultimi delle spese anticipate.
Ai fini del nostro studio, volto a ricercare le origini della tutela contro gli infortuni dei lavoratori nell’agricoltura, tutto ciò risultava una spia non indifferente per avvertire che qualcosa stava cambiando. Aveva quindi ragione il professor Angelo Celli, il maggiore artefice della legislazione italiana contro questo morbo, nell’evidenziare che “la malaria è la prima
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Lavoro nei campi
(Fototeca Istituto Belle Arti di Vercelli)
10 S. FRANCISCONO, Problemi e aspetti economici e sociali dell’agricoltura vercellese nell’epoca della destra storica, Tesi di laurea, Università degli studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1985-86, relatore prof. N. Nada, p. 159. A suffragare tuttavia il mutamento di questa mentalità citiamo una testimonianza del medico di Stroppiana, dott. Nicola Vaccino, nella quale si evince che, nel 1906: “Dopo qual-che anno di intensa propaganda, non solo il chinino è accettato da questi contadini, ma essi stessi vengono a reclamarlo e, meno poche eccezioni, le tavolette sono prese quotidianamente e di buon grado”, cit. in M. BERTINETTI, La malaria e la risaia nel-l’agro vercellese, Vercelli 1911, p. 24.
malattia che nella nostra legislazione viene riconosciuta come una malat-tia professionale ed equiparata ad infortunio sul lavoro”.11
Esistevano inoltre altre malattie che trovavano la loro origine nella risicoltura e che si trasmettevano agevolmente attraverso queste vaste distese allagate. In particolare erano le febbri reumatiche che colpivano in gran parte i lavoratori soprattutto per la necessità di questi ultimi di tra-scorrere lunghe ore al giorno con gli arti immersi nell’acqua fredda delle risaie. Queste febbri, che possono essere considerate le più tipiche malat-tie professionali di questi coltivatori, non incidevano più di tanto dal punto di vista demografico, considerando la bassa mortalità che apporta-vano e il lungo decorso della malattia.12
Da non sottovalutare inoltre erano gli effetti di altre malattie diffuse con frequenza in queste zone, come il tifo e la tubercolosi, che trovavano in queste grandi distese d’acqua condizioni ottimali per diffondersi.
Tra le altre malattie, cui erano soggetti i lavoratori e le lavoratrici del Vercellese, si ricordano infine quelle causate dalla denutrizione e dalle aminosi: i medici del tempo citavano lo scorbuto, dovuto alla carenza di vita-mina C, l’idropisia, una eccessiva ritenzione dei liquidi in alcune parti del corpo - in particolare l’addome - dovuta alla denutrizione, particolari forme di anemia, come la clorosi che colpiva in particolar modo le giovinette.
Del tutto inadatte alle esigenze più elementari erano pure le abitazio-ni. Dall’inchiesta promossa da Agostino Bertani, medico, esponente auto-revole della Sinistra liberale, si evince che le case dei contadini erano sca-denti, insufficienti come cubatura, prive di fognature.13
Conducendo una vita caratterizzata da lunghe ore di lavoro, minata da vari morbi debilitanti, direttamente o indirettamente legati alla “occasio-ne di lavoro”, sostenuta da scarsi elementi nutritivi e poco curato igieni-camente, il contadino appariva già vecchio a 55 anni e la donna a 35.
Erano pochi i contadini che riuscivano a superare i 60 anni; i braccianti morivano intorno ai 50-55 anni e rappresentavano i tre quarti degli amma-lati negli ospedali.
Nella citata inchiesta promossa dall’Ufficio del Lavoro della Società Umanitaria di Milano, inoltre, emergevano altri elementi su cui riflette-re, e non poco:
Così, le donne gravide spesso abortiscono per la posizione del bacino durante il lavo-ro, la rivulsione esercitata dal pediluvio caldo e le congestioni seguenti, la eccitazione delle contrazioni uterine provocate dalla flessione addominale.14
Al che i medici domandavano così l’esclusione assoluta dal lavoro di
11 A. CELLI, La legislazione contro la malaria, in “Critica sociale”, Milano 1903, cit. da G. FACCHINETTI, La lotta di classe nelle zone risicole del novarese e del vercellese, in Braccianti e contadini nella Valle Padana, Roma 1975, p. 333. Non è da sottovalutare dal punto di vista politico-sociale il fatto che, con la lotta alla malaria, le organizza-zioni socialiste vercellesi, ancora deboli e poco organizzate, iniziarono il discorso sul-l’insalubrità della lavorazione risicola, sot-tolineando la necessità di ridurre gli orari di lavoro e di conquistare le otto ore. Vedi in particolare P. FONTANA, Riformismo e lotte politico-sociali nella risaia vercellese.
1910-1922. Tesi di laurea, Università degli studi di Torino, Facoltà di Magistero, a. a.
1989-90, relatore prof. C. Dellavalle, pp.
94-97.
12 Sotto questo aspetto vedi A. ROTA, Le risaie in Lombardia sotto il rapporto igie-nico, in L. FACCINI, Uomini e lavoro in risaia: dibattito sulla risicultura nel ‘700 e
‘800, Milano 1976, cit. da S. FRANCISCONO, op. cit. , pp. 132-133. Importante anche lo studio di T. M. CAFFARATTO, Aspetti medi-co-sociali delle malattie dei lavoratori piemon-tesi della terra nella seconda metà del secolo XIX, in N. NADA (a cura di), Giovanni Lanza e i problemi dell’agricoltura piemontese nel sec. XIX, atti del convegno, Casale Monferrato 1983, p. 296.
13M. PANIZZA(a cura di), Risultati del-l’inchiesta istituita da Agostino Bertani sulle condizioni sanitarie dei lavoratori della terra in Italia, Roma 1890, p. 398.
14G. LORENZONI, I lavoratori delle risaie, cit., p. 128. Le raccomandazioni dei medici erano comunque destinate a essere senza successo: “Quasi tutte le mondariso lavora-vano fino all’ultimo giorno di gravidanza e, senza neppure attendere dopo il parto una quindicina dei trenta giorni previsti dalla
14G. LORENZONI, I lavoratori delle risaie, cit., p. 128. Le raccomandazioni dei medici erano comunque destinate a essere senza successo: “Quasi tutte le mondariso lavora-vano fino all’ultimo giorno di gravidanza e, senza neppure attendere dopo il parto una quindicina dei trenta giorni previsti dalla