Sin dall'inizio ad aggravare i problemi della Jugoslavia c’è stata ingerenza straniera, in particolare di Germania, Vaticano e Stati Uniti. Cominciamo dalla Germania, di cui An-dreotti giustamente e profeticamente sosteneva che si dorme meglio sapendola divisa. Il ruolo della Germania nella crisi jugoslava in genere non è molto conosciuto, e al massimo si sa che il suo pronto riconoscimento all’indipendenza di Croazia e Slovenia - al momen-to non condiviso dai suoi alleati occidentali - dimostrava che quel paese riprendeva a svolgere un ruolo proprio nei Balcani, estendendo la sua influenza politica ed economica, cosa che con la Jugoslavia unita sarebbe stata più difficile. D’altro canto già Slovenia e Croazia svolgevano un particolare ruolo nel mercato interno jugoslavo, a motivo del loro maggior sviluppo economico e produttivo rispetto al resto del paese, verso cui i rapporti di scambio non erano proprio esaltanti. Risulta che il ministro degli Esteri tedesco Genscher nei suoi frequenti contatti col suo collega croato abbia sviluppato un’intensa azione per spronare la Croazia all’indipendenza, con poca gioia della dirigenza bosniaca. Infatti, a novembre del 1991 il Presidente bosniaco Izetbegović in una visita al Ministero degli Esteri tedesco aveva manifestato la sua contrarietà alla politica del riconoscimento di Slovenia e Croazia, sostenendo che ciò avrebbe incentivato Serbia e Croazia ad aggredire la Bosnia. Ma inutilmente. Poi con le guerre jugoslave la Germania ha fatto ottimi affari con la ven-dita di armi e munizioni, ovviamente a Croati e Musulmani bosniaci. Non molti ricordano il significativo fatto che poco prima del suo riconoscimento dell’indipendenza di Croazia e Slovenia la Germania aveva posto unilateralmente il blocco dei traffici con la Jugoslavia federale. In fondo il tempestivo riconoscimento tedesco delle due predette secessioni da parte della Germania ha avviato l’internazionalizzazione di un conflitto che in avrebbe po-tuto restare «conflitto interno».
I rapporti fra Vaticano e Jugoslavia, ovviamente, non sono mai stati davvero buoni. Dopo la vittoria titina la connivenza fra ustaše e clero cattolico aveva portato ad azioni di rappresaglia, delle quali il processo e la condanna del cardinale Stepinac fu l’episodio più eclatante. Con la disgregazione jugoslava il Vaticano non manifestò nulla della prudenza e ponderazione che generalmente ne caratterizzano l’azione diplomatica. Nel 1991 Giovanni Paolo II nel corso di un Angelus parlò di «legittime aspirazioni del popolo croato» e il 13 gennaio dell’anno successivo il Vaticano riconobbe la Croazia indipendente. Il viaggio papale in Croazia del 1994 fu di sostanziale appoggio al regime di Tudjman e l’omaggio del Papa alla memoria del cardinale Stepinac fece la felicità dei nazionalismi locali. D’altro canto Pavelić, fuggito per l’avanzata dei titini, aveva trovato riparo nella chiesa croata di Roma in Via Tomacelli. A novembre l’elevazione a cardinale del vescovo croato di Sara-jevo testimoniò ulteriormente le scelte vaticane. Nel 1995 si parlò concretamente ed insi-stentemente di visita papale a Sarajevo, e a luglio Giovanni Paolo II si schierò palesemente in favore di un intervento militare in Bosnia contro i Serbi e contro i «tentennamenti». Pochi giorni dopo Tudjman lanciava l’offensiva per la conquista della Krajna di Knin. Si andavano regolando vecchi conti coi riottosi e poco ecumenici ortodossi serbi.
E infine gli Stati Uniti, che svolsero un ruolo prima della crisi e nel corso di essa. Gli Stati Uniti appoggiarono opportunisticamente Tito dopo la sua rottura con Stalin, senza però riuscire a modificare le connotazioni comuniste del suo regime né ottenere da lui gli attesi e grati riconoscimenti in politica estera; anzi Tito si mise alla testa del Movimento dei Non-Allineati che sicuramente non fece mai favori a Washington. Ma alla Cia non era sfuggita la fragilità strutturale della federazione jugoslava.
Per quanto tutti i Balcani (indipendentemente dal periodo dei governi comunisti che vi si erano installati) fossero infettati dal virus nazionalista, nel disordine provocato dal crol-lo dei socialismi reali una Jugoslavia ancora in piedi e magari capace in qualche modo di irrobustirsi era indubbiamente un ostacolo ai piani occidentali, nella specie statunitensi e tedeschi. Tanto più che i regimi cosiddetti liberaldemocratici ancora non si erano rafforza-ti nella regione, per cui non sarebbe stato irrealisrafforza-tico iporafforza-tizzare che dalla Jugoslavia post-titina potesse partire una qualche iniziativa per la costituzione di un mercato comune bal-canico, da cui la stessa Jugoslavia avrebbe tratto vantaggi, insieme a Bulgaria e Romania, indipendentemente dall’Ue. Non sarebbe stato positivo per gli interessi politico-militari di Washington e per quelli economici della Germania alla ricerca della sua perduta ege-monia nella regione. La Jugoslavia doveva morire, ed i suoi problemi lo rendevano possi-bile.
La possibilità che all’epoca la Jugoslavia potesse muoversi nel senso di dare impulso a un mercato unico balcanico non è praticamente mai menzionata, ma è tutt’altro che
pere-Pier Francesco Zarcone: Anniversario di un incubo balcanico 37
grina, e sicuramente in Germania o negli Stati Uniti qualcuno l’aveva presente. Di recente è emersa in modo palese, per iniziativa (guarda caso) del premier serbo e prossimo Presi-dente della Repubblica, Aleksandar Vučić, per quanto la modificata situazione globale l’abbia limitata ai Balcani occidentali (comunque un mercato da venti milioni di consuma-tori, senza dazi e suscettibile di creare subito 80.000 nuovi posti di lavoro). Il premier bo-sniaco Denis Zvidić l’ha definita «occasione unica per attirare investimenti nella regione», ma ovviamente Enver Hoxhaj, ministro degli Esteri kosovaro, vi ha visto una sorta di «neo-jugoslavismo» col fine di far dominare Belgrado sui mercati regionali e di favorire l’espansione russa nei Balcani.Tornando al discorso principale, sta di fatto che l’implosione del blocco orientale e dell’Urss aveva lasciato sola la Jugoslavia, che ormai in Europa era il residuo senza pro-spettive di un’epoca svanita. Il presente-futuro aveva le caratteristiche «obbligatorie» dell’economia di mercato, della proprietà privata dei mezzi di produzione, della liberal-democrazia e dell’invio della lotta di classe alla «pattumiera della Storia». La Jugoslavia do-veva adeguarsi, ma era meglio che si disgregasse perché al riguardo i vicini interessi au-stro-tedeschi erano molto forti. Il capitale austriaco era ben presente in Slovenia dove in definitiva controllava il 50% dei movimenti finanziari di quella Repubblica. All’economia tedesca, che aveva «affiancato» la penetrazione finanziaria austriaca, non sfuggivano i van-taggi derivabili dalle secessioni di Slovenia e Croazia, e grazie a esse ha finito col rilevare un certo numero di industrie metalmeccaniche collegate alla produzione dell’automobile, ha acquistato imprese statali di trasporti e meccanica leggera a costi irrisori, in Slovenia è diventata leader nell’offerta di tecnologia e impianti industriali e infine ha delocalizzato settori di informatica, metalmeccanica e industria manifatturiera nelle nuove Repubbli-che, acquisendo mano d’opera locale a costi inferiori del 50%, più convenienti di quelli nelle regioni della ex Ddr. In termini globali il progetto tedesco consisteva nel controllo economico-produttivo di un’area che andava dal mar Baltico, cioè Estonia, Lettonia e Li-tuania, fino all’Adriatico, con Slovenia e Croazia, attraversando i paesi dell’ex blocco orientale, cioè Polonia, Ungheria, Boemia e Slovacchia. Inoltre, attraverso l’uso dei porti di Rjieka e Split sarebbe stato possibile effettuare una vasta penetrazione commerciale vuoi nel basso Mediterraneo vuoi verso il Vicino Oriente. Progetto realizzatosi appieno.
Va ancora aggiunto che se la penetrazione austriaca in Slovenia e Croazia è stata essen-zialmente finanziaria, il ruolo della Germania - proprio per il progetto sopra accennato e nel cui quadro la Croazia giocava un ruolo di primaria importanza - si è esteso politica-mente alla successiva crisi bosniaca, in cui la Croazia era direttapolitica-mente implicata. È per questo che il governo tedesco ha favorito l’arrivo ai Croati di armi e rifornimenti bellici attraverso i confini ungherese. Si è chiesto Sante Bagnoli:
Perché la Germania, che ha fatto cadere il muro, temeva tanto la Serbia? La prima risposta è quella già data: per dividere i Balcani. Aveva il vecchio alleato del nazismo, la Croazia, e oc-correva rinverdire l’opposizione della Serbia prima con le vessazioni economiche, poi con le armi. Ma c’è un’altra ragione, c’è una paura reale. Non era detto che, caduto il muro, la Ser-bia aderisse al progetto di occidentalizzazione economica. Non tutto l’est europeo, liberato dallo stalinismo, è pronto a farsi invadere dal modello economico occidentale e dal vuoto spiri-tuale occidentale [...]. Da qui il timore per la Bundesbank.ix
E infine altre due parole sugli Usa. Per aggravare la salute jugoslava, quando ancora esisteva la Federazione, gli Stati Uniti fecero ricorso all’arma degli «aiuti» economici. Tito aveva sempre fatto suo l’ammonimento del Laocoonte dell’Eneide (timeo Danaos et dona
ferentes), ma Tito era morto a maggio del 1980, e già quattro anni dopo il Presidente
statu-nitense Reagan aveva emanato un Ordine di Decisione per la Sicurezza Nazionale dal tito-lo La politica degli Stati Uniti nei confronti della Jugoslavia. Inizialmente questo documento fu tenuto segreto, ma poi nel 1990 ne fu resa nota una versione ridotta, cioè censurata. La Jugoslavia, quindi, era entrata a far parte dei progetti eversivi di Washington. L’obiettivo era il fallimento dell’economia jugoslava. In buona sostanza i dirigenti di Belgrado cadde-ro nella trappola del Fondo Monetario Internazionale (Fmi). L’Fmi si affrettò a fare sman-tellare lo stato sociale e a distruggere l’industria jugoslava. Nel biennio 1989-90 questo «aiuto» economico portò alla chiusura di 2.435 aziende e ben 1.300.000 lavoratori furono licenziati. Poi all’improvviso Fmi e Banca Mondiale soppressero aiuti, crediti e prestiti. Anche a causa di leggi emanate dagli Stati Uniti nel 1990 il governo jugoslavo non fu più in grado di pagare gli interessi sul debito estero e le industrie non ricevettero più riforni-menti di materie prime.
Quando nel 1989 (poco prima della caduta del muro di Berlino) il premier federale An-te Marković fu costretto da Bush senior ad accettare un pacchetto di aiuti finanziari, la condizione di base era l’introduzione di riforme economiche gradite agli Stati Uniti, cioè svalutazione della moneta, ulteriori congelamenti dei salari (quand’anche l’inflazione fos-se in crescita), aumento dei tagli alla spesa pubblica e - ovviamente - abolizione delle aziende autogestite. La Banca centrale jugoslava era sotto il controllo dell’Fmi, quindi del capitalismo internazionale. In queste condizioni la Jugoslavia non poteva più finanziare propri programmi economici e di tutela sociale; inoltre ci sarebbe stato un sostanzioso tra-sferimento delle risorse federali alle singole Repubbliche invece di essere usate per il debi-to estero. Il programma di «austerità» trovò resistenze nella Repubblica serba, ma fu
ix «Le non ragioni di una guerra», in Niška Stipčević (a cura di), La Serbia, la guerra e l’Europa, cit., pp. 30-1.