Quando l’Armata Popolare Jugoslava
(Jugoslo-venska Narodna Armija) cominciò a capire che aria
tirasse, si affrettò a fornire armi alle comunità serbe della Croazia e così, quando la situazione si chiarì in negativo, queste comunità erano più pronte ad agi-re che non la Difesa Territoriale croata. Il ricordo degli atroci massacri dei Croati ai danni dei Serbi fu rinverdito dalla misure antiserbe varate in tempi brevi dal Presidente croato Tudjman, le quali fecero pericolosamente ricordare ai Serbi locali lo Stato di Pavelić, di cui del resto Tudjman ave-va ampiamente recuperato i simboli. La libertà di stampa fu fortemente ridotta, la nuoave-va Costituzione tolse ai Serbi (il 12%) lo status di nazione costitutiva della Repubblica croata, considerandoli minoranza protetta, cosa che i Serbi respinsero nella consapevolezza di co-stituire una vera e propria nazione non di secondo grado rispetto a quella croata. Aumen-tarono i timori le iniziative discriminatrici del governo croato, a seguito delle quali molti Serbi persero il posto di lavoro a motivo della loro nazionalità e in parecchi subirono forti intimidazioni anche fisiche. Ovviamente Tudjman fece espellere i poliziotti serbi, salvo vederseli ritornare in campo come paramilitari armati e desiderosi di vendetta. A quel punto la secessione dalla Croazia era nella logica delle cose, e l’Esercito jugoslavo inter-venne a protezione dei secessionisti, appoggiato da varie formazioni paramilitari (definite
di četnici) che poi si impegnarono nelle atrocità in una gara per niente nobile con i Croati. Le atrocità in Croazia, come poi gli analoghi avvenimenti in Bosnia, furono pane quoti-diano per le opposte propagande e, naturalmente, per i media internazionali il cui «pensie-ro unico» mise in evidenza solo i crimini serbi, tacendo su quelli c«pensie-roati. Con tutta p«pensie-robabi- probabi-lità a indignarsi meno furono le parti in causa, trattandosi di una tragica «consuetudine» di tutte le guerre balcaniche da secoli e secoli; ogni fazione si impegnò con zelo ed entusia-smo nelle proprie vendette.
Non può escludersi che a far perdere a tutti i freni inibitori siano state anche le interfe-renze internazionali, che tentavano di imporre «soluzioni» da esse elaborate a chi non le voleva affatto, a meno che non considerate favorevoli. A inasprirsi (qui come anche in Bosnia) furono soprattutto i Serbi che presto si resero conto - al di là dei maneggi diplo-matici di Milošević - che si stavano progressivamente isolando sul piano internazionale, non potendo nemmeno contare sul tradizionale appoggio russo, poiché all’epoca il potere a Mosca era nelle mani di Boris El’cin, personaggio del tutto prono ai desideri degli Stati Uniti. In fondo la guerra in Croazia fu la più semplice delle guerre jugoslave: Croati seces-sionisti dalla Jugoslavia contro Serbi secesseces-sionisti dalla Croazia. Questa guerra - insieme alla mini-guerra con la Slovenia - ebbe importanti e negativi esiti psicologici sulla
Jugoslo-venska Narodna Armija (Jna). In entrambi i casi - anche per gli stop arrivati da Belgrado
senza alcuna logica o tattica o strategica - non fece un bella figura, e questo incise sul mo-rale e sulle scelte, poiché si era trovata senza il vecchio Stato di riferimento, di cui (e della rivoluzione comunista) era la difesa istituzionale. Gli ufficiali (al 70% Serbi e Montenegri-ni), molti dei quali entrati giovanissimi nelle accademie militari, erano fortemente indot-trinati, privilegiati e vivevano in un loro mondo separato da quello civile. Il nazionalismo etnico, ammesso che ci fosse, era ai minimi termini. Lo stesso Ratko Mladić, che sarebbe diventato capo dell’esercito serbo-bosniaco, al referendum del ’91 si era dichiarato jugo-slavo, ed aveva sposato una macedone. La situazione sarebbe cambiata per effetto del cor-so degli eventi bellici: morta la grande Federazione multietnica e rimasta cor-solo la piccola Ju-goslavia serbo-montenegrina, era ovvio che i militari rimasti nel servizio federale se ne mettessero al servizio. Lo stesso vale per quelli della Republika Srpska di Bosnia.
b) La Bosnia-Erzegovina
Qui le cose furono più complicate poiché ci furono due guerre, tra Serbi e Musulmani-Croati e tra Musulmani-Croati e Musulmani, nonché una miniguerra dei dissidenti musulmani di Fikret Abdić contro quelli fedeli al governo di Izetbegović. La Bosnia era il mosaico etnico più pericoloso: il base al censimento del 1991 la popolazione era composta da un 43% di Musulmani, un 31,3% di Serbi, un 17,3% di Croati e un 8,8% di cittadini dichiaratisi
sempli-Pier Francesco Zarcone: Anniversario di un incubo balcanico 31
cemente Jugoslavi, con l’aggiunta di una piccola minoranza ebraica. Il dogma titoista di «unità e fratellanza» aveva pietosamente coperto una realtà destinata prima o poi a riemer-gere. Il fatto era che durante la Resistenza Croati, come detto in precedenza, Musulmani bosniaci e Albanesi kosovari avevano fornito più uomini agli occupanti che non ai parti-giani. Nello specifico della Bosnia, il 70% dei partigiani ivi operanti era fatto da Serbi con alcuni Croati e ben pochi Musulmani; e alla fine della guerra le rappresaglie erano state abbondanti. L’attenzione occidentale, oscurata dal mito della Bosnia multiculturale as-sunto acriticamente, si limitava ai contesti urbani dove esso presentava una maggiore ra-gion d’essere; del tutto trascurate furono le realtà rurali, in cui le cose andavano diversa-mente, come rivelava lo scarso numero di matrimoni misti, situazione coerente con un re-troterra fatto di identità religiose forti e abbastanza chiuse.All’inizio della crisi jugoslava Milošević non aveva attribuito molto interesse alla Bo-snia, a differenza dei Serbi di quella regione, i quali cominciarono ad orientarsi verso la propria difesa nel 1990 come reazione alla nascita del partito musulmano Sda (Stranka
De-mokratske Akcije): e infatti subito dopo i Serbo-bosniaci costituirono il loro partito, l’Sds
(Srpska Demokratska Stranka). Il capo dello Sda, Alija Izetbegović, era un ottimo mentitore circa i propri obiettivi, ma non era difficile capire che il suo progetto era una Bosnia ege-monizzata dai Musulmani, e non certo da quelli laici. Solo volendo lo si poteva considera-re un pacioso signoconsidera-re balcanico, e in virtù di questo godette sempconsidera-re di buona stampa da parte dei media stranieri. Ma il suo passato non era tale da rassicurare i non Musulmani: giovanissimo fece parte dell’organizzazione Giovani Musulmani, per questo nel 1946 fu condannato a tre anni di carcere e se li fece tutti. Poi nel 1983 fu condannato a 14 anni di prigione (ne scontò solo cinque e otto mesi) come coautore della Dichiarazione Islamica del 1970, un testo che già nel sottotitolo recava scritto «Un programma di islamizzazione dei Musulmani e del popolo musulmano». Izetbegović poteva passare per democratico e mo-derato solo allo sguardo o ignaro, o volenteroso o in mala fede dell’Occidente. Democrati-co lo fu assai poDemocrati-co, giacché piano piano epurò tutti gli oppositori musulmani, e rimase Presidente anche dopo la scadenza del mandato con la scusa che il paese era in guerra.
Per i Serbo-bosniaci un elemento esiziale fu che il loro leader, Radovan Karadžić, ebbe presto un rapporto antipatizzante con Slobodan Milošević poi degenerato in odio recipro-co. D’altro canto il primo era figlio di un četnico, mentre il secondo veniva dall’apparato comunista. Inizialmente, comunque, i Serbo-bosniaci cercarono un accordo per la
partner-ship governativa con l’Sda, basata sul fatto che alle elezione dell’ottobre 1990 per il
Parla-mento bosniaco il partito di Izetbegović aveva ottenuto 86 seggi, 72 il serbo Sds e 44 il par-tito croato (Hrvatska Demokratska Zajednica-Hdz); quindi un accordo tra Sda e Sds vi avrebbe costituito la coalizione più forte ed escludente i Croati. I Musulmani, tuttavia,
non manifestarono soverchio interesse all’iniziativa.
Poiché Izetbegović voleva una Bosnia dominata dai Musulmani, paradossalmente non esistevano grandi motivi di contrasto fra lui e Milošević: se Sarajevo non avesse voluto re-stare nella Jugoslavia la cosa lasciava indifferente Milošević purché la regione fosse divisa in modo da salvaguardare le zone etnicamente serbe; dal canto suo Izetbegović - al di là di quanto ufficialmente affermava - poteva avere problemi solo riguardo alla definizione di tali zone. Ma Milošević non controllava più di tanto i Serbo-bosniaci. Così, quando a lu-glio del 1991 Izetbegović, durante una visita in Turchia, chiese che la Bosnia fosse ammessa all’Organizzazione della Conferenza Islamica (Oci) - organismo supportato dall’Arabia Saudita e notorio centro di diffusione del radicalismo religioso - per i Serbo-bosniaci il se-gnale fu chiaro: si voleva fare della Bosnia uno Stato islamico.
Il 15 ottobre del 1991 il Parlamento bosniaco, con i voti dei partiti musulmano e croato proclamò la sovranità della Repubblica, ma il 9 e 10 novembre un referendum tra i Serbo-bosniaci confermò il loro desiderio di continuare a far parte della Jugoslavia, seppur ridot-ta. L’invito rivolto da un infuriato Izetbegović ai riservisti musulmani affinché non ri-prendessero servizio se richiamati, non fu una mossa accorta, poiché aggravò la frattura.
All’inizio del ’92 la situazione precipitò: i Serbo-bosniaci avvisarono che si sarebbero costituiti in Repubblica separata se la Bosnia avesse proclamato l’indipendenza; il 25 gen-naio il Parlamento di Sarajevo, con i voti musulmani e croati, indisse un referendum sull’indipendenza per il 29 febbraio; il 28 febbraio i Serbi approvarono la Costituzione del-la loro Republika Srpska, con capitale Pale; il referendum bosniaco dette all’indipendenza il 62,68% dei voti, e non i 2/3 previsti dalla Costituzione, ma ciò nonostante Izetbegović de-cise di proclamarla ugualmente. Il primo sangue fu sparso il 1° marzo, quando dei Musul-mani spararono su un corteo nuziale serbo. Cominciava la guerra. Eppure sarebbe stato possibile evitarla, quand’anche «sul filo di lana».
Il Presidente bosniaco (che si sarebbe impadronito della Presidenza, giuridicamente ro-tativa, non cedendola a Fikret Abdić, in seguito alleatosi con i Serbo-bosniaci) e gli altri dirigenti musulmani a lui legati avevano un modo per evitare il massacro, cioè giocare la carta del legame confederale - e non più federale - con la ridimensionata Jugoslavia, ormai composta solo da Serbia e Montenegro. Questo avrebbe irritato la minoranza croata, ma avrebbe tenuto buoni i Serbi e forse non ci sarebbe stata la guerra. L’occasione andò persa anche per l’ideologia islamista di Izetbegović e compagni e, sia pure tra vari tentennamen-ti, Izetbegović puntò all’indipendenza, incentivato anche da una malaccorta iniziativa-ingerenza della Comunità Europea che propose alle Repubbliche jugoslave con velleità di indipendenza di inoltrare formale richiesta di riconoscimento. Un’ulteriore via d’uscita - tale da salvare «capra e cavoli» - era venuta dal Portogallo: la terza settimana di febbraio era