• Non ci sono risultati.

2. IL MARKETING 0

2.3 Innovazione

I consumatori che sostengono l’innovazione ci portano a parlare di un altro importante punto del marketing 2.0, il tema dell’innovazione aperta. In poche parole, l’azienda ha un’idea e per il suo sviluppo si rivolge all’esterno, indagando anche circa il sostegno a un possibile nuovo prodotto o idea di business. I consumatori si sentono, così, sperimentatori, perché si assumono il rischio di pagare per qualcosa che non esiste ancora e la cui esistenza non è nemmeno garantita per il futuro. Questo meccanismo sta alla base della pratica del crowdfunding, cioè il finanziamento collettivo.

Ci troviamo di fronte a un nuovo modello economico, teorizzato da Henry Chesbrough (2003), il quale prevede la compartecipazione e la collaborazione tra azienda e consumatori ai fini dell’innovazione. Si tratta di un approccio diametralmente opposto al classico modello a catena, secondo il quale, la ricerca e lo sviluppo vengono svolti strettamente entro i confini aziendali (Kline e Rosemberg, 1986). L’innovazione di tipo chiuso viene comunemente adottata dalle aziende tradizionali, le quali tendono a temere i concorrenti. Inoltre, esse agiscono in questo modo perché, oltre a motivi legati all’orgoglio aziendale, il chiedere ad altri implica l’ammissione di un proprio limite, quindi un certo grado d’incompetenza. L’idea di apertura verso il pubblico esterno, invece, il quale non viene pagato, ma nutre ugualmente un certo interesse, si fonda su basi opposte, cioè la ricerca d’idee e ispirazione dal basso. Di fatto, l’azienda cerca di ampliare la sua cerchia di collaboratori fino al consumatore finale. Questa può essere una strategia vincete per alcuni settori, tuttavia non è detto che possa valere per tutti i tipi d’imprese. È più una questione di mentalità,

di propensione da parte dell’azienda, e meno rispetto al livello di complessità dell’innovazione.

Oggigiorno, le conoscenze d’uso, le competenze e le passioni stanno anche e soprattutto fuori dall’azienda. Per esempio, la figura dell’influenzatore, non si limita a influenzare. L’azienda non domina il contesto d’uso, il quale viene vissuto e pertanto compreso a pieno titolo solamente dal consumatore. Il progetto del prodotto viene sviluppato sulla base delle possibili esigenze del consumatore medio, ma l’uso predomina sul progetto. È bene saper raccogliere le informazioni opportune e poi sviluppare l’idea. Comunque, non tutti i consumatori sono uguali. Esiste una categoria, i lead user, la quale è in grado di fornire indicazioni molto qualificate, poiché i suoi appartenenti possono rivelarsi degli anticipatori di bisogni, oltre a detenere il potere d’influenza, poiché possiedono la comprensione e la padronanza del contesto d’uso.

Riassumiamo e sintetizziamo, ora, i contributi di Fabris (2010) e Chesbrough (2003) riguardo al tema dell’innovazione. Partiamo dalle principali caratteristiche dell’innovazione collaborativa. In primo luogo, essa ha inizio dal consumatore ed è il risultato dei processi d’ideazione, progettazione e produzione svolti unitamente all’azienda. Si parla, perciò, di co-ideazione, co-progettazione e co-produzione. Di conseguenza, il ruolo del consumatore è attivo: manifesta dei bisogni e avanza delle proposte. Per questo motivo, la comunicazione non può che essere bidirezionale. In secondo luogo, la natura dell’innovazione cambia, spostandosi da discreta, cioè episodica, a continua. Essa diviene un processo costantemente attivo, continuativo nel tempo. Infatti, chiuderla ha un costo: il consumatore si sente ignorato perché viene meno lo scambio, quindi la fiducia. In terzo luogo, il nuovo focus verte sulla conoscenza di tipo esperienziale, derivante dai

riscontri empirici diretti. Significa saper valorizzare il contesto d’uso, il quale è difficile da capire in astratto, in quanto necessita di manifestarsi concretamente. Infine, l’innovazione collaborativa è un modo alternativo per agganciare nuovi potenziali clienti. In un primo momento possono partecipare, in seguito potrebbero trasformarsi in acquirenti, nel caso vedessero di essere stati ascoltati, insieme alla loro idea.

Esiste una seconda strada attraverso la quale giungere a produrre innovazione. Stiamo parlando dell’innovazione aperta (Chesbrough, 2003). Con questo concetto definiamo il processo del fare innovazione acquisendola da fuori. Per esempio, l’acquisto di una start up implica l’acquisizione anche di brevetti e di risorse umane. In alternativa, un’impresa potrebbe avere un’idea di business interessante, ma la quale non compete al suo mercato. Quindi, può convenirle finanziare uno spin off, cioè aiutare un suo dipendente ad aprire la propria nuova azienda. Il modello di business tradizionale può avere, infatti, problemi di efficienza e di costi. Investimenti in ricerca e sviluppo sono intrinsecamente rischiosi perché non esistono garanzie. Possono verificarsi perdite perché l’idea si rivela infelice oppure perché non se ne comprendono appieno la portata e le potenzialità, dando modo ai concorrenti di copiare e fare meglio. Inoltre, in contesti altamente competitivi e turbolenti, i cicli di vita del prodotto sono molto più brevi (Aversa e Berinato, 2017). Economicamente, non vale la pena di investire grandi somme di denaro per sviluppare un prodotto altamente deperibile in termini di propensione all’obsolescenza. Tutto ciò significa che c’è sempre meno possibilità di ammortizzare i costi connessi alla ricerca e sviluppo. Il modello tradizionale è sostenibile solamente per alcuni settori. Al contrario, dove troviamo un ecosistema vivace, le aziende possono

essere aperte sia in entrata, sia in uscita. Nel primo caso, l’azienda compra da fuori il capitale umano e di conoscenze che le serve per capire e sviluppare un’idea potenzialmente innovativa. Nel secondo, essa finanzia venture capital per valorizzare le idee dei propri dipendenti. Il ritorno per l’impresa finanziatrice può avvenire su due livelli: non perde il capitale umano rappresentato da quella persona; in caso di successo, si troverà a essere azionista e compartecipare agli utili (Bohlander e Snell, 2013).