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All’interno del nostro ordinamento non esiste né una definizione giuridica, né una disciplina generale che regoli il praticantato, poiché esso è preso in considerazione solo da specifiche disposizioni dettate per alcune professioni.

Nell’uso comune, con il termine praticantato si fa solitamente riferimento al periodo di pratica presso lo studio di un professionista, che è diretto a consentire l’acquisizione dei fondamenti teorici, pratici e deontologici della professione, ed è normalmente richiesto quale requisito per l’ammissione all’esame di abilitazione all’esercizio della professione stessa.

Il praticantato, dunque, ha contenuto e finalità peculiari che hanno reso assai complesso l’inquadramento giuridico, specie per quel che attiene i rapporti tra praticante e professionista.

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Tuttavia, un contributo importante alla sua ricostruzione giuridica può essere ricavato dall’esame attento degli orientamenti della giurisprudenza, dai quali è possibile desumere quali siano i caratteri essenziali e distintivi, anche in relazione, di volta in volta, ai diversi modelli contrattuali con essi contigui e/o confondibili.

8.1. Distinzione dal modello ordinario del lavoro gratuito

Gli elementi che hanno portato la giurisprudenza ad escludere il carattere della gratuità nella prestazione resa dal praticante sono molto chiari.

Secondo i giudici, infatti, ciò che caratterizza la gratuità della prestazione non è il grado di maggiore o minore subordinazione, cooperazione o inserimento del prestatore di lavoro, ma la sussistenza o meno di una finalità ideale alternativa rispetto a quella lucrativa6.

Di conseguenza, la gratuità, in questo tipo di rapporti, è voluta ed insita nella causa della prestazione in presenza di particolari ragioni o circostanze solitamente di tipo affettivo, solidaristico o ideologico. Ma si tratta, pur sempre, di una prestazione lavorativa, che deve essere utile (ed immediatamente utilizzabile) per l’organizzazione a favore della quale è svolta (famiglia, comunità religiosa o di volontariato).

Pertanto, distinguendosi dal tradizionale rapporto di lavoro subordinato solo per l’assenza di una finalità lucrativa7

, il lavoro gratuito non sembra essere compatibile con la causa e con le speciali finalità del rapporto di praticantato.

8.2. Distinzione dal lavoro autonomo

Anche la possibilità di individuare nel rapporto di pratica professionale lavoro autonomo deve essere esclusa, laddove si tenga conto di quelli che sono i caratteri fondamentali del contratto d’opera e di quello d’opera intellettuale (art. 2222 e ss. c.c.).

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Cass., 6 aprile 1999, n.3304

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Nell’ambito di tale contratto, infatti, il prestatore d’opera non solo si obbliga a compiere un’opera o un servizio e, quindi, a fornire un risultato (utile ed utilizzabile dal committente), ma è chiamato a svolgere la propria attività lavorativa in totale assenza di un “vincolo di soggezione al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di

lavoro” e, quindi, opera senza alcuna forma di “vigilanza e controllo nell’esecuzione delle prestazioni lavorative”8.

Si tratta, com’è evidente, di caratteri che non solo sono assenti nel caso della pratica legale, ma risultano anche del tutto incompatibili con le finalità e con le modalità di esecuzione proprie del rapporto di praticantato (sempre che questo si svolga coerentemente con la sua natura e le sue finalità tipiche).

8.3. Distinzione dal modello ordinario di lavoro subordinato

Rispetto al lavoro subordinato, il rapporto di praticantato non si caratterizza per lo scambio tra prestazione di lavoro e retribuzione, perché la sua causa consiste solo nell’

“assicurare al giovane praticante, da parte di un professionista, le nozioni

indispensabili per metter in atto, nella prospettiva e nell’ambito di una futura determinata professione intellettuale, la formazione teorica ricevuta nella sede scolastica”9.

In sostanza, quindi, l’attività resa dal praticante non potrebbe essere ricondotta ad una mera attività di lavoro subordinato, in quanto essa è finalizzata non già al conseguimento di un “vantaggio” per il datore di lavoro, bensì unicamente a realizzare la “formazione teorica e pratica degli stessi specializzandi”10.

In altri termini, come sottolineato dalla giurisprudenza di merito, l’attività del praticante

“anche se etero diretta”, resta comunque “funzionale all’addestramento e non allo scambio corrispettivo con una retribuzione”.11

Questo in quanto la prestazione resa dal praticante, essendo priva di una “propria

finalità produttiva”, non contiene il carattere dell’utilità, né risponde “ad un interesse”

del dominus del rapporto12.

8 Cass., 23 luglio 2004, n. 13884 9 Cass., 19 luglio 1997, n. 6645 10

Cass., Sez. Un., 23 aprile 2008, n- 10461

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Dunque, il rapporto di praticantato – essendo caratterizzato dalla presenza di un addestramento impartito dal dominus all’allievo, finalizzato unicamente alla formazione professionale del praticante – non configura un contratto di scambio, e soprattutto non ha ad oggetto lo svolgimento di un’attività lavorativa prestata alle dipendenze e nell’interesse altrui, secondo la nozione giuridica di lavoro subordinato (art. 2094 c.c.). Allo stesso modo, la giurisprudenza ha ritenuto, di per sé, insufficiente, ai fini di differente qualificazione (e inquadramento giuridico) del rapporto di lavoro, anche l’eventuale osservanza di vincoli di orario da parte del tirocinante. Ed infatti, anche tale circostanza potrebbe essere giustificata dal fatto che il rispetto di un orario è “condizione indispensabile per il raggiungimento dello scopo proprio” dell’addestramento professionale cui unicamente è finalizzato, come detto, il rapporto di praticantato13.

La netta distinzione teorica, tuttavia, non esclude che, nella fase di concreta attuazione del rapporto, collaborazioni sorte “formalmente” come rapporti di praticantato celino, in realtà, veri e propri rapporti di lavoro subordinato. L’onere di provare l’esistenza di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato, tuttavia, grava sull’interessato14

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Ed è stato altresì precisato che a tal fine, possono essere considerati possibili indici della presenza di un vincolo di subordinazione elementi quali: l’assenza di “qualsiasi

contenuto formativo o professionale”15, lo scopo esclusivamente “produttivo” della

prestazione resa dal praticante16, o svolgimento soltanto di mansioni “ripetitive” e di “mera esecuzione”17 . 12 Ibidem 13 Cass., 26 febbraio 1982, n.1243 14 Cass. 15 gennaio 2007, n. 730 15 Cass. 19 luglio 1997, n. 6645 16 Cass. 25 gennaio 2006, n. 1380 17

124 8.4. Distinzione dalle collaborazioni coordinate e continuative, dal lavoro a progetto e dal lavoro occasionale

Analoghe considerazioni valgono per ritenere inapplicabile ai rapporti di praticantato anche la disciplina prevista per le collaborazioni coordinate e continuative e per le collaborazioni a progetto.

Ed infatti, anche queste tipologie di lavoro parasubordinato si caratterizzano per l’assenza della funzione di addestramento professionale e per la presenza di una collaborazione che è destinata a realizzare un’opera o un servizio utili per il committente e per la sua organizzazione produttiva.

Il che, peraltro, è stato reso particolarmente esplicito dalla nuova disciplina delle collaborazioni a progetto, nelle quali il progetto, il programma di lavoro o la fase di esso devono essere gestiti in piena autonomia dal collaboratore, in funzione del risultato che la collaborazione deve garantire al committente (art. 61, decreto legislativo n. 276/2003).

A maggior ragione deve escludersi la possibilità di ricondurre il rapporto di praticantato nella categoria del lavoro autonomo occasionale, disciplinato dall’art. 61, secondo comma, decreto legislativo n. 276/2003.

Ed infatti, alle considerazioni già svolte con riguardo al lavoro autonomo, va aggiunto che quest’ultima disposizione definisce come prestazioni occasionali solo “i rapporti di

durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare con lo stesso committente, così escludendo ogni possibile applicazione al rapporto di praticantato avente, di regola, una durata ben superiore”.