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Intercettazioni nei confronti dei membri del Parlamento

Parte I - La normativa sulle intercettazioni contenuta nella legge 140/2003 (cd. Lodo Maccanico-Schifani)

Premessa

Le tematiche legate al bilanciamento fra le contrapposte esigenze di riservatezza da un lato e ragioni di accertamento dei processi penali dall'altro che toccano la libertà di tutti i cittadini, e le conseguenti questioni relative alla corrispondenza dell'articolato codicistico al dettato costituzionale, si ripropongono in maniera più marcata per coloro che esplicano il mandato parlamentare, in virtù delle garanzie che devono circondare il libero esercizio della funzione, che non può essere ostacolata dalla necessità di partecipare (in qualsiasi modo) allo svolgimento di un processo.

La disamina della riforma dell'art. 68 Cost., posta in essere con l. cost. 3/1993 ed effettuata nel capitolo precedente, che ha portato alla eliminazione della richiesta di autorizzazione per sottoporre a procedimento il parlamentare e per eseguire nei suoi confronti una sentenza irrevocabile di condanna, introducendo la richiesta di una specifica autorizzazione ad acta per l'intercettazione delle sue conversazioni e comunicazioni (e per il sequestro della sua corrispondenza) ha lasciato in sospeso alcuni importanti punti problematici relativi all'attuazione di questo articolo.

All'indomani della riforma infatti, non sono mancate voci critiche123, in parte già

messe in evidenza, che si espandevano in varie direzioni: da un lato, si lamentava 123 Osserva a proposito Zagrebelsky G., in Più vicini al comune cittadino, in La stampa, 29 ottobre 1993, che la revisione dell'art. 68 Cost, risolve certamente alcuni problemi, ma ne è foriera di altri: le polemiche "che sempre ci sono state e ci saranno" riguardanti l'uso politico degli strumenti giudiziari, che prima entravano in Parlamento tramite le discussioni sulle autorizzazioni a procedere, potrebbero comunque interessare i magistrati "direttamente e senza mediazioni", in quanto destinate a riproporsi al momento della decisione sull'autorizzazione ad atti invasivi della libertà del parlamentare.

che al culmine della tensione fra potere legislativo e potere giudiziario si è abolito uno degli istituti tipici della separazione dei poteri, e che questo ha portato di conseguenza alla creazione di un vuoto nei rapporti fra Parlamento e magistratura e all'acuirsi delle tensioni fra le due istituzioni, con ripercussioni non solo sull'istituto dell'insindacabilità parlamentare124, ma anche sul numero dei

conflitti di attribuzione sollevati dinanzi alla Corte costituzionale, significativamente aumentati; dall'altro è stato criticato il carattere insufficiente della riforma, che mantenendo la necessità della previa autorizzazione per le intercettazioni, avrebbe concretamente vanificato l'eliminazione dell'autorizzazione a procedere al procedimento penale125.

Altro punto problematico era rappresentato dal fatto che con la riforma posta con la l. cost. 3/1993 si era creato un difetto di coordinamento con gli artt. 343 e 344 c.p.p. (in materia di autorizzazione a procedere), pensati invece per l'originario art. 68 Cost.: nello specifico le discrasie concernevano l'individuazione del momento in cui procedere con la richiesta di autorizzazione e l'individuazione degli atti condizionati al nulla osta parlamentare126.

Proprio per rimediare a questi ed altri profili di discussione e per rispondere all'esigenza di dare attuazione alle modifiche occorse all'art. 68 Cost., si rese necessario intervenire sulle norme del codice di rito allo scopo di effettuare un 124 La prassi parlamentare aveva infatti assistito ad una progressiva estensione dei confini dell'insindacabilità parlamentare, ricomprendendovi tutta una serie di comportamenti lato sensu politici posti in essere dai membri del parlamento.

125 Per queste considerazioni cfr. Di Ciolo V. - Ciaurro L., Il diritto parlamentare nella teoria e nella pratica, Milano, 2013, pag. 112.

126 Punto della questione era che il codice pone il divieto di porre in essere atti che incidono sulla libertà personale, fra cui le intercettazioni, fino alla concessione dell'autorizzazione. Il p.m., che riteneva compreso nell'autorizzazione a procedere il compimento di qualunque atto fra quelli indicati nell'art. 343 II comma c.p.p., si vedeva dare una risposta in parte negativa dal Parlamento, che interpretava la norma in base al disposto costituzionale che prevedeva specifica autorizzazione per le misure privative della libertà. Quindi per gli atti presenti all'art. 343 c.p.p. diversi da quelli indicati dalla norma costituzionale, una volta data l'autorizzazione l'autorità giudiziaria aveva mano libera; per quelli invece che rientravano nella previsione costituzionale, il Parlamento chiedeva l'indicazione del provvedimento e della causa petendi, ritenendo che non si potesse dare un'autorizzazione in bianco. Cfr. Midiri M., Autonomia costituzionale, cit., pag.324, e anche Parodi C., Le intercettazioni: profili operativi e giurisprudenziali, Torino, 2002, pag. 100.

raccordo tra queste e la nuova previsione costituzionale. Al fine dunque, di regolamentare insindacabilità e inviolabilità dei parlamentari, fu varata, a seguito ed in attuazione della legge cost. 3/1993, una prolungata serie di decreti legge (ben 19, comunque non convertiti in testo definitivo) legati in una logica di abusata e indisciplinata reiterazione l'uno dell'altro (il primo fu il d.l. 13 novembre 1993, n. 455, l'ultimo il d.l. 23 ottobre 1996, n. 555: un lungo periodo quindi, il cui iter durò addirittura tre anni). Questi provvedimenti, recanti “Disposizioni urgenti per l'attuazione dell'articolo 68 della Costituzione”, pur essendo difformi nelle formulazioni via via adottate, erano caratterizzati da una sostanziale identità di contenuti: il fine di tali interventi infatti era volto ad una specificazione delle limitazioni alla libertà personale dei parlamentari per le quali sarebbe stata necessaria un'autorizzazione delle Camere di appartenenza. Il tutto si traduceva sul piano processuale con l'allargamento del novero degli atti sottoposti al nulla osta politico, approfittando dello scemare dell'interesse pubblico (dal quale era scaturita l'esigenza di riforma dell'art. 68 Cost.127) nei

confronti delle guarentigie parlamentari128, sottraendo così all'autorità giudiziaria

il contatto diretto con le disposizioni costituzionali che, nel conflitto fra esigenze repressive e attività coperte dalle garanzie politiche, è utile a far propendere l'ago della bilancia a favore delle prime.

Sin dall'emanazione del primo decreto, dunque, forti dubbi sono stati prospettati dai commentatori dell'epoca non solo riguardo all'opportunità dell'intervento 127 V. supra, Capitolo I, Parte II, Paragrafo 2.3.

128 Il che rappresentava già un primo profilo di discussione, in quanto l'allargamento tramite decreto legge del novero degli atti sottoposti ad autorizzazione, e la conseguente mancata corrispondenza con i casi descritti dall'art. 68 Cost., fu oggetto di un parere del Consiglio superiore della magistratura al disegno di legge di conversione del d.l. 455/1993, il quale osservò che "poichè il limite all'azione dell'autorità giudiziaria deve avere tutta e soltanto l'ampiezza disegnata dalla norma costituzionale, sembra opportuno rivedere la normativa del decreto sul punto". Contra però Orlandi R., L'immunità parlamentare dopo la mancata conversione del d.l. che regolava l'attuazione dell'art. 68 Cost., in Dir. pen. e processo, 1997, pag. 16, secondo cui è vero che la norma d'attuazione "enumerava atti [...] non espressamente menzionati nel citato art. 68 (Cost.): si trattava però, all'evidenza, di precisazioni che intendevano specificare (in via esemplificativa e non certo tassativa) l'ampia formula con la quale l'art. 68 comma 2 assoggetta ad autorizzazione tutti gli atti idonei a limitare la libertà personale del parlamentare".

governativo nel suo complesso, ma anche “sull'opportunità d'introduzione a mezzo di fonte ordinaria di tale delicata disciplina”129, ritenuta quanto mai

inadatta. Altro tema su cui si è concentrato il dibattito concerneva la forza giuridica del decreto legge: come sottolineato, la sua “connaturata precarietà […] priva di certezza un settore che è particolarmente bisognoso di regole definite”130. Le maggiori perplessità derivavano nondimeno dall'individuazione

dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza che caratterizzano i presupposti dell'adozione del decreto legge ex art. 77 Cost.: la “necessità di assicurare che la norma costituzionale fosse prontamente accompagnata da disposizioni atte a disegnarne le modalità operative e a superare possibili dubbi interpretativi” che si assumeva alla base della procedura d'urgenza è apparsa un riferimento troppo vago e comunque non sufficiente per giustificare l'adozione dei decreti legge131.

Infine, quasi a voler recepire e a dare adito alle numerose ed abbondanti critiche da più parti rivolte alla prolissa catena di decreti legge, fu infine con la sent. 360/1996 che il susseguirsi dei provvedimenti d'urgenza fu interrotto: la Corte cost. dichiarò tale prassi reiterativa incostituzionale, dal momento che si riproponeva costantemente lo stesso decreto legge con il medesimo contenuto di quello non convertito, senza però che vi fossero nuovi presupposti di necessità ed urgenza132. Fu cosi che, al decadere dell'ultimo decreto legge senza che questo

129 Cosi si esprimono difatti Ruggeri A. e Spadaro A., in Nota minima in tema di "pregiudizialità parlamentare" (a margine del d.l. 15 novembre 1993, n. 455), in Politica del diritto, 1994, pag. 112, i quali aggiungono anche che "non si capisce perchè ciò che il legislatore costituzionale senza alcuna fatica avrebbe potuto esplicitamente prevedere [...] venga poi surrettiziamente introdotto a mezzo di fonte ordinaria, pur sostenuta da una straordinaria necessità ed urgenza", ma comunque "in fraudem Constitutionis" (pag. 105).

130 Cosi Panizza S., Legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3, in Branca G. (a cura di), Commentario alla Costituzione, Disposizioni transitorie e finali (I-XVIII), Leggi costituzionali e di revisione costituzionale, 1948-1993, Bologna, 1995, pag. 664

131 Si veda Camera dei deputati, Atti parlamentari, XI legislatura, AC 3361, disegno di legge di conversione del d.l. 455/1993, pag. 1, in www.camera.it.

132 In particolare, queste furono le argomentazioni della Corte cost., 360/1996: "L'art.77, commi 2 e 3, della Costituzione prevede la possibilità per il Governo di adottare [...] atti con forza di legge [...] come ipotesi eccezionale [...]. Tali atti, qualificati dalla stessa Costituzione come "provvisori", devono risultare fondati sulla presenza di presupposti "straordinari" di necessità ed urgenza [...]. Ora, il decreto-legge iterato o reiterato [...] lede la previsione costituzionale sotto più profili: perchè altera la natura provvisoria della decretazione d'urgenza [...]; perchè toglie valore al carattere "straordinario" dei requisiti della necessità e dell'urgenza[...]; perchè

fosse convertito, non ne seguì alcun altro, ponendo dunque fine all'infruttuosa catena di decretazione d'urgenza.

A questa brusca interruzione seguì di conseguenza un lungo periodo in cui si assistette ad una situazione di vuoto normativo in ordine all'attuazione della riforma dell'immunità parlamentare (benché anche prima, con la citata catena di decreti legge, la disciplina fosse tutt'altro che organica e funzionale: non di rado infatti si riscontravano difformità fra un decreto e l'altro), con conseguenze soprattutto a livello di incertezze procedurali, di comportamenti difformi da parte dell'autorità giudiziaria, e conflitti fra le Camere e la magistratura.

Ed invero è stato sottolineato come, nonostante il venir meno della normativa posta dai decreti d'attuazione, i vuoti creatisi non abbiano comportato “inconvenienti irreparabili o situazioni di stallo nelle iniziative giudiziarie parlamentari”, ma abbiano sortito “soprattutto l'effetto di lasciare l'autorità giudiziaria sola e più libera di fronte ai problemi interpretativi che l'applicazione dell'art. 68 Cost. comporta”133, pur mettendo comunque in luce non solo la

necessità di riformulare l'art. 343 c.p.p., che, modificato dai decreti legge, e tornato alla formulazione originaria, presentava nuovamente gli stessi problemi di coordinamento con il nuovo art. 68 Cost. già evidenziati, ma anche quella di provvedere all'individuazione del soggetto cui spettava chiedere l'autorizzazione, individuato dall'appena decaduta normativa di attuazione nel magistrato attenua la sanzione della perdita retroattiva di efficacia del decreto non convertito[...]. [...] La prassi della reiterazione, tanto più se diffusa e prolungata nel tempo [...] viene, di conseguenza, a incidere negli equilibri istituzionali[...] [e] finisce per intaccare anche la certezza del diritto nei rapporti tra i diversi soggetti [...]. Il divieto di iterazione e di reiterazione [...] esclude, quindi, che il Governo, in caso di mancata conversione di un decreto legge, possa riprodurre, con un nuovo decreto, il contenuto normativo [...] del decreto non convertito, ove il nuovo decreto non risulti fondato su autonomi (e, pur sempre, straordinari) motivi di necessità ed urgenza [...]. I principi richiamati conducono, dunque, ad affermare l'illegittimità costituzionale, per violazione dell'art. 77 della Costituzione, dei decreti-legge iterati o reiterati, quando tali decreti, considerati nel loro complesso o in singole disposizioni, abbiano sostanzialmente riprodotto, in assenza di nuovi (e sopravvenuti) presupposti straordinari di necessità ed urgenza, il contenuto normativo di un decreto-legge che abbia perso efficacia a seguito della mancata conversione."

(pubblico ministero o giudice, a seconda del tipo di atto da autorizzare) che aveva emesso il provvedimento da eseguire.

Ad ogni modo, al termine di questo periodo di silenzio fu emanata la legge 140/2003, forse meglio conosciuta come “lodo Maccanico-Schifani” (dai nomi rispettivamente del promotore, e di chi si fece carico di portare a compimento l'approvazione della stessa) e recante “Disposizioni per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato”. Come si evince dall'intitolazione, la legge si pone l'obiettivo di regolamentare e attuare il novellato art. 68 Cost., ponendosi “in continuità ideale con la serie ininterrotta di 19 decreti legge in materia di attuazione dell'art. 68 della Costituzione, […] e dei quali, non a caso, la stessa legge134 convalida gli

atti e fa salvi gli effetti ed i rapporti giuridici sorti medio tempore”135 sulla base

degli stessi decreti.

Fra i punti chiave della legge si annoverava, all'articolo 1 (poi dichiarato incostituzionale dalla Corte costituzionale con sent. 24/2004), la previsione di inedite disposizioni in materia di processi penali nei confronti delle “cinque più alte cariche dello Stato”, ovvero Presidente della Repubblica (salve le previsioni in materia dei reati di attentato alla Costituzione e alto tradimento previsti all'art. 90 Cost.), Presidente del Senato della Repubblica, Presidente della Camera dei deputati, Presidente della Corte costituzionale, Presidente del Consiglio dei ministri: nei loro confronti venivano congelati temporaneamente, per l'intera durata del mandato, i processi penali a loro carico, e veniva altresì stabilita la non procedibilità per i processi futuri. La legge si occupa inoltre di regolamentare l'istituto dell'insindacabilità (ex art. 68 I comma Cost.) e dell'inviolabilità (ex art. 68 II e III comma Cost.): per questa in particolare, è prevista, all'art. 4, sulla scia di quella tendenza espansiva già riscontrata con la normativa predisposta dai decreti legge e che era propensa ad allargarne sempre più il novero, l'elencazione 134 All'art. 8, che contiene infatti l'elenco di tutti i decreti legge che furono via via emanati. 135 Corte cost., sent. 120/2004.

degli atti per i quali è necessario il previo assenso delle Camere, tra i quali rientrano anche le intercettazioni di conversazioni e comunicazioni136. L'art 4,

insieme all'art. 5, regola dunque le modalità mediante le quali l'autorità giudiziaria deve chiedere alle Camere l'autorizzazione a procedere. L'art. 6 invece, indica i profili tramite i quali garantire la riservatezza dei soggetti eventualmente coinvolti nella captazione delle conversazioni.

Pertanto, per avere una visione complessiva e più nitida di come l'intera materia sia regolata, sarà necessario analizzare la disciplina positiva contenuta nella legge 140/2003, che regola la materia delle intercettazioni, tenendo però conto di pari passo della prassi parlamentare seguita dall'Assemblea in ogni occasione in cui si sia trattato di decidere in ordine alle richieste di autorizzazione presentate, dato che proprio queste vicende sono state spesso la causa per prospettare i numerosi dubbi concernenti la conformità della disciplina ordinaria al dettato costituzionale.

1.1 Legge 140/2003: la disciplina positiva

A seguito dell'introduzione della legge 140/2003, che ha dato attuazione all'art. 68 III comma Cost., l'ordinamento prevede una suddivisione del tipo di captazioni possibili in due categorie, con una profonda diversificazione del regime processuale applicabile, anche in termini di utilizzabilità delle conversazioni 136 Si noti a proposito, a conferma della forte tendenza espansiva che ha caratterizzato l'evolversi della materia, che questo catalogo dei provvedimenti vietati senza l'autorizzazione della Camera è il più ampio che sia mai stato stilato per attuare la prerogativa dell'inviolabilità, il che è forse segnale di un eccessivo livello di tutela che suscita delle perplessità per ciò che attiene all'inserimento nello stesso dei provvedimenti cautelari personali di natura interdittiva, che in quanto tali, non sembrano essere inquadrabili quali vere e proprie limitazioni alla libertà personale ex art. 13 Cost. (per questo ed altri profili di discussione si veda Giupponi T. F., Le immunità della politica, cit., pag. 340), ed anzi, secondo alcuni autori si tratterebbe "di una scelta incostituzionale", in quanto è vero che "le misure interdittive [...] limitano la capacità del destinatario di svolgere talune attività, ma in nessun caso intaccano la libertà personale per come tale concetto è stato interpretato dalla Corte costituzionale" (Finocchiaro A., L'insopprimibile incostituzionalità della legge n. 140 del 2003, in Cassazione penale, 2003, IV, pag. 3242). Dello stesso avviso infine è anche Martinelli C., in Legge n. 140 del 2003: attuazione o violazione della Costituzione?, in Studium iuris, 2004, pag. 38.

intercettate (vedremo comunque come le specificazioni contenute nella sentenza 390/2007 della Corte di Cassazione in tema di regime di utilizzabilità delle intercettazioni, sulla quale ci si soffermerà nel prosieguo, abbiano contribuito a modificare questo assetto originario).

La prima è disciplinata all'art. 4 l. 140/2003, che cosi recita: “Quando occorre eseguire nei confronti di un membro del Parlamento perquisizioni personali o domiciliari, ispezioni personali, intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni, sequestri di corrispondenza, o acquisire tabulati di comunicazioni, ovvero, quando occorre procedere al fermo, all'esecuzione di una misura cautelare personale coercitiva o interdittiva ovvero all'esecuzione dell'accompagnamento coattivo, nonché di misure di sicurezza o di prevenzione aventi natura personale e di ogni altro provvedimento privativo della libertà personale, l'autorità competente richiede direttamente l'autorizzazione della Camera alla quale il soggetto appartiene. L'autorizzazione è richiesta dall'autorità che ha emesso il provvedimento da eseguire; in attesa dell'autorizzazione l'esecuzione del provvedimento rimane sospesa. L'autorizzazione non è richiesta se il membro del Parlamento è colto nell'atto di commettere un delitto per il quale è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza ovvero si tratta di eseguire una sentenza irrevocabile di condanna. In caso di scioglimento della Camera alla quale il parlamentare appartiene, la richiesta di autorizzazione perde efficacia a decorrere dall'inizio della successiva legislatura e può essere rinnovata e presentata alla Camera competente all'inizio della legislatura stessa”.

Si tratta delle cd. intercettazioni “dirette”, ossia quelle effettuate “nei confronti di un membro del Parlamento” sottoponendo a controllo le utenze telefoniche intestate, o in uso abituale, al parlamentare, e finalizzate direttamente o consapevolmente all'ascolto delle sue conversazioni, per le quali si prevede che, salvo il caso in cui il parlamentare sia colto nell'atto di commettere un delitto per il quale è previsto l'arresto in flagranza o nei suoi confronti si debba eseguire una sentenza irrevocabile di condanna (confermando quindi il dettato costituzionale),

l'autorizzazione sia preventivamente richiesta dall'autorità che ha emesso il provvedimento da eseguire alla Camera cui il soggetto appartiene. L'autorità giudiziaria deve inoltre fornire gli elementi su cui si fonda il provvedimento (la cui efficacia, nelle more, resta sospesa), cioè il decreto di autorizzazione: conseguentemente la richiesta di autorizzazione va inoltrata dal giudice per le indagini preliminari ma non anche dal pubblico ministero137.

Altra opinione ritiene invece che l'autorizzazione alla Camera di appartenenza del parlamentare possa essere direttamente richiesta dal pubblico ministero, previa però premunizione dell'autorizzazione a disporre le intercettazioni rilasciata dal giudice per le indagini preliminari138. Si potrebbe dire invero, che volendosi

intercettare le comunicazioni di un parlamentare, la legittimazione a rivolgersi alle Camere spetti, in via alternativa, al pubblico ministero, per i casi di urgenza regolati dall'art. 267 II comma c.p.p., e al giudice, per i casi ordinari di intervento preventivo rispetto alle operazioni di ascolto. Ma poiché anche qui la successiva esecuzione dipende da un decreto del pubblico ministero posteriore all'autorizzazione del giudice (in cui si stabiliscono durata e modalità delle operazioni di captazione), sembrerebbe preferibile razionalizzare i rapporti fra autorità giudiziaria e Parlamento, e attribuire dunque sempre, “senza forzature del dato letterale”, “la titolarità della richiesta all'organo requirente139, il quale ha

il compito di regolare in concreto l'esecuzione delle intercettazioni e si trova nella condizione migliore per sospenderla fino alla decisione della Camera”140. Nel caso

di scioglimento di una Camera, la richiesta perde efficacia dall'inizio della successiva legislatura, ma può essere rinnovata e presentata alla nuova Camera 137 Aprile E. - Spiezia F., Le intercettazioni telefoniche ed ambientali: innovazioni tecnologiche e

nuove questioni giuridiche, Milano, 2004, pag. 74.

138 Bricchetti R., Commento all'art. 4 della l. 20 giugno 2003 n. 140, in Legislazione penale, 2004, pag. 41.

139 Diversa invece l'opinione di Orlandi R., in Lodo “Maccanico”: attuazione dell'art. 68 Cost. e sospensione dei processi per le alte cariche dello Stato. Profili di diritto processuale, in Dir. pen. e proc., 2003, pag. 1215, il quale ritiene che in caso di "intercettazioni telefoniche dovrà attivarsi l'organo giurisdizionale".

140 Negri D., Procedimento a carico dei parlamentari, in Orlandi R. e Pugiotto A. (a cura di), Immunità politiche e giustizia penale, Torino, 2005, pag. 411.

competente (e non alla stessa Camera), cioè quella cui al momento della richiesta il parlamentare appartiene, secondo un criterio che privilegia l'attualità della

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