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L’interpretazione dell’art. 14 della direttiva 2014/41/UE «alla luce dei diritti

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affidata al tempestivo assolvimento degli specifici obblighi informativi previsti dalla legge a carico delle autorità nazionali.

E tuttavia i problemi maggiori emergono, infine, con riguardo all’utilizzabilità del risultato investigativo/probatorio nello Stato di emissione allorché questo sia già stato acquisito e trasferito, in pendenza di impugnazione nello Stato di esecuzione, e il decreto di riconoscimento o/ l’atto esecutivo vengano successivamente annullati giudizialmente, evenienza che non può certo escludersi a priori nella pratica.

La direttiva si limita a prescrivere allo Stato di emissione di «tener conto»

dell’accoglimento dell’impugnazione, ma nulla dice circa la utilizzabilità, nel procedimento penale, del risultato probatorio, così rimettendo alle normative nazionali ogni valutazione in merito. Ciò apre al rischio che le normative nazionali – o comunque le autorità giudiziarie, in assenza di esplicita disposizione normativa – possano di fatto consentire l’utilizzazione, nello Stato richiedente, di un atto investigativo o di una prova che, per lo Stato di esecuzione, è stata illegittimamente acquisita.

4. L’interpretazione dell’art. 14 della direttiva 2014/41/UE «alla luce dei diritti

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prevede mezzi di impugnazione relativi all’esecuzione, da parte delle autorità bulgare, di un ordine emesso dall’autorità di uno Stato membro, ma non anche avverso l’emissione di un ordine da parte del giudice nazionale.

Ha chiesto quindi alla Corte, con ricorso in via pregiudiziale, se la normativa nazionale richiamata sia compatibile con l’articolo 14 della direttiva 2014/41/UE – sul presupposto che questa imponga agli Stati membri di prevedere mezzi di impugnazione - (i), se esso consenta, alle persone interessate, l’impugnazione pur in assenza di disposizioni nazionali (ii), se per «persona interessata», legittimata all’impugnazione, debba intendersi anche l’indagato o l’imputato «qualora i provvedimenti di acquisizione di prove siano rivolti nei confronti di un terzo» (iii), nonché se tale sia altresì il terzo che subisca la perquisizione ed il sequestro e che debba essere sentito come testimone (iv).

La risposta della Corte di Giustizia54 è stata molto deludente e sostanzialmente elusiva dei quesiti: riformulando la questione (come ad essa consentito dall’art. 267 TFUE, al fine di fornire una risposta utile a dirimere la controversia), l’ha limitata ad una mera difficoltà di compilazione, da parte del giudice bulgaro, del modulo standardizzato dell’ordine (Allegato A), e precisamente della Sezione J (punto 1), nella parte in cui prevede che l’autorità di emissione indichi «se è già stato fatto ricorso a mezzi di impugnazione contro l’emissione di un OEI» e, in caso affermativo, che descriva il mezzo di impugnazione e relative modalità e termini.

La Corte ha precisato che il legislatore europeo, richiedendo tale indicazione, ha inteso far sì che l’autorità di esecuzione venga informata di eventuali impugnazioni proposte avverso un ordine di indagine che le viene trasmesso «e non già, più in generale, sui mezzi di impugnazione che sono previsti, se del caso, nello Stato membro di emissione avverso un ordine europeo di indagine» (§ 29); ciò al limitato fine di consentire l’adozione delle decisioni concernenti il riconoscimento e l’esecuzione (§36). Pertanto «al momento dell’emissione di un ordine europeo di indagine, l’autorità di emissione non deve far figurare, nella Sezione J del modulo contenuto nell’Allegato A alla direttiva 2014/41, una descrizione dei mezzi di ricorso che sono previsti, se del caso, nel suo Stato membro avverso siffatto ordine» (§ 33) e «non occorre, nella presente causa, interpretare l’articolo

54 Prima Sezione, sentenza del 24 ottobre 2019 nella causa C-324/17, rinvenibile sul sito della Corte:

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14 di tale direttiva al fine segnatamente di determinare se tale disposizione osti a una normativa nazionale, che non preveda alcun mezzo di impugnazione (…)» (§37).

E’ possibile, se non verosimile, immaginare che le ragioni sottostanti a tale, per certi versi incredibile, ‘non liquet’, siano di ordine politico più che giuridico: la Bulgaria è già stata ripetutamente condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, per violazione degli articoli 3, 8 e 13 della Carta EDU, in quanto il suo ordinamento non prevede un controllo giurisdizionale, attivabile dalle persone interessate, sull’ordine giudiziario di perquisizione e sequestro (sentenze del 26 luglio 2007, Peev c. Bulgaria, e del 22 maggio 2008, Stefanov c. Bulgaria) e, pur essendosi impegnata a modificare la normativa nazionale, ad oggi non vi ha ancora provveduto. Affermare che ciò osta all’emissione di un ordine penale di indagine avrebbe significato, di fatto, paralizzare sine die (ossia sino all’introduzione di una apposita disciplina, incerta nell’an e nel quando) la possibilità per questo Stato di attivare i meccanismi di cooperazione penale in materia probatoria, con pesanti conseguenze per una efficace attività di repressione dei reati e, in definitiva, per la sicurezza dei cittadini europei.

E tuttavia, così facendo, la Corte di Giustizia ha di fatto consentito la prevalenza della cooperazione giudiziaria a discapito della tutela di un principio fondamentale del diritto dell’Unione, il diritto ad un ricorso giudiziario effettivo, sancito dall’art. 47 CDFUE55 e dall’art. 13 CEDU56.

Secondo la «dottrina consolidata» della stessa Corte di giustizia, infatti, quello alla tutela giurisdizionale effettiva costituisce un principio generale del diritto dell’Unione che deriva dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e che è stato recepito dall’art. 47 CDFUE e sancito dall’art. 6 CEDU57. Quale diritto fondamentale, essendo stato recepito dall’art. 47 CDFUE, ha acquistato infatti, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, «lo stesso valore giuridico dei Trattati», in forza dell’art. 6, n. 1, TUE, e deve

55 «Ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. (…)».

56 «Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un'istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali».

57 Tra le altre, si vedano le sentenze 15 maggio 1986, causa 222/84, Johnston, Racc. pag. 1651, punti 18 e 19; 25 luglio 2002, causa C-50/00 P, Union de Pequeños Agricultores/Consiglio, Racc. pag. I-6677, punto 39, e 22 dicembre 2010, causa C-279/09, DEB, punto 29, tutte rinvenibili sul sito della Corte:

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pertanto essere rispettato dagli Stati membri quando applicano il diritto dell’Unione (art. 51, n. 1, CDFUE).

Non solo: la stessa Corte di Giustizia ha affermato che «l’esistenza di un controllo giurisdizionale effettivo destinato ad assicurare il rispetto del diritto dell’Unione è intrinseca ad uno Stato di diritto»58 e pertanto attraverso la previsione di appositi rimedi giurisdizionali gli ordinamenti nazionali assicurano il rispetto della rule of law affermata dall’art. 2 TUE.

Ignorare tutto questo significa mettere inoltre a serio rischio anche il diritto al rispetto della vita privata giacché l’impossibilità per un terzo destinatario, di contestare le ragioni di merito di un atto di indagine, quale la perquisizione o il sequestro, che per sua natura attinge la sfera privata, costituisce una carenza manifesta di tutela dello stesso, come ripetutamente affermato dalla Corte EDU proprio nei confronti della Bulgaria59.

Vero è che una interpretazione riduttiva dell’art. 14 della direttiva, fondata sulla sua sola lettera, sembrerebbe consentire l’applicazione dei rimedi interni solo ove previsti dall’ordinamento nazionale per un caso interno analogo e perciò escludere, per converso, il diritto all’impugnazione, ove non riconosciuto dallo Stato membro (il criterio di equivalenza sarebbe infatti rispettato anche in tal caso). Osta a tanto tuttavia proprio il diritto ad un ricorso effettivo sancito dagli articoli 47 della Carta e 6 TFU. Si impone dunque una interpretazione convenzionalmente orientata, che è quella fornita dall’Avvocato generale, nelle conclusioni formulate alla Corte: il legislatore europeo ha presupposto l’esistenza di atti di impugnazione avverso gli atti di indagine nell’ambito di un caso interno ed ha imposto agli Stati membri di applicarne di equivalenti agli ordini di indagine (§ 54). Ciò anche in considerazione del fatto che l’organizzazione dei mezzi d’impugnazione rientra nell’autonomia procedurale di ciascuno Stato membro e la direttiva non ha l’obiettivo né l’effetto di armonizzare il quadro giuridico in tale ambito; non avendo previsto specifici mezzi di impugnazione, è pure preclusa la possibilità di un suo effetto diretto.

Questa interpretazione, in effetti, è legittimata anche dalla lettura coordinata di varie diposizioni della stessa direttiva, là dove essa si preoccupa di prescrivere che i termini per l’impugnazione siano uguali a quelli interni (art. 14 § 4), e che il trasferimento delle prove possa essere sospeso in pendenza dell’opposizione (art. 13 § 2). Ma soprattutto è ancor più

58 Sentenza 25 luglio 2018, C-216/18, che richiama la propria sentenza del 27 febbraio 2018, Associação Sindical dos Juízes Portugueses, C-64/16, EU:C:2018:117, punto 36 e la giurisprudenza ivi citata, ibidem.

59 Corte EDU, 15 ottobre 2013, Gutsanovi c. Bulgaria, § 67 e 208-212, 16 febbraio 2016, Govedarski c.

Bulgaria, § 30-40 e 72-75, rinvenibili in www.giustizia.it.

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giustificata, sotto il profilo dei principi, in materia probatoria, in ragione della peculiare attitudine degli atti di indagine ad essere invasivi e ledere i diritti fondamentali delle persone interessate, circostanza che a maggior ragione pone «l’esigenza di un controllo giurisdizionale effettivo destinato ad assicurare il rispetto dei diritti fondamentali da parte dei giudici nazionali (…) tanto più forte nell’ambito della cooperazione giudiziaria in materia penale», sì che «la possibilità di contestare le ragioni di merito alla base di un ordine europeo di indagine riveste, quindi, un’importanza del tutto particolare» (§ 57 delle conclusioni dell’Avvocato generale).

Le conclusioni formulate dall’Avvocato generale, Yves Bot60, sono di grande interesse, ma soprattutto è illuminante la sua chiave di lettura dell’intera disciplina europea dell’ordine di indagine penale, chiarita sin dalle premesse. Vale la pena riportare qui le sue parole: «Posto che gli atti di indagine ordinati dalle autorità competenti ai fini dell’acquisizione di prove in materia penale possono risultare particolarmente invasivi in quanto idonei a ledere il diritto al rispetto della vita privata delle persone interessate, il diritto dell’Unione deve necessariamente trovare un equilibrio tra l’efficacia e la celerità delle procedure di indagine, da una parte, e la protezione dei diritti delle persone interessate, dall’altra». Si tratta di un «equilibrio delicato ma essenziale» (§ 6).

La lettura dell’art. 14 che viene offerta ha come criterio guida la effettiva tutela dei diritti di difesa nei procedimenti di raccolta ed assunzione della prova; il corretto bilanciamento tra esigenze pubbliche di cooperazione e diritti fondamentali individuali assurge a vero fondamento giustificativo dell’ordine di indagine.

L’art. 14, «letto alla luce dei diritti fondamentali» (§ 90), osta all’emissione di un ordine europeo di indagine da parte di un’autorità bulgara, perché «la carente protezione dei diritti fondamentali” che consegue alla mancata previsione di qualsiasi possibilità di contestare le ragioni di merito di un atto di indagine richiesto con un ordine europeo di indagine» preclude «l’applicazione del meccanismo di riconoscimento reciproco», che si fonda sulla reciproca fiducia e sulla presunzione del rispetto dei diritti fondamentali da parte degli Stati membri giacché «l’impossibilità, in Bulgaria, per un terzo destinatario di atti di indagine come perquisizioni o sequestri, che implicano per loro natura una violazione del diritto alla vita privata, di contestarne le sottostanti ragioni di merito, costituisce una carenza manifesta di tutela del diritto al rispetto della vita privata» (§ 82).

60 Rinvenibili sul sito della Corte: https://curia.europa.eu.

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E’ verosimile, e certo auspicabile, che la medesima questione venga nuovamente proposta alla Corte di Giustizia, con la formulazione di un diverso quesito, da parte dello Stato di esecuzione, che potrà senz’altro opporre, quale motivo di rifiuto della cooperazione, il mancato rispetto dei diritti fondamentali (art. 11 § 1. Lettera f) della direttiva) per l’impossibilità di una tutela giurisdizionale effettiva avverso l’ordine di indagine: tale questione, sebbene non relativa agli atti esecutivi, attiene infatti alla legittimità della richiesta.

La risposta sembra dunque solo differita e tuttavia, in realtà, non è certo che verrà sollevata dallo Stato di esecuzione, essendo rimessa ad una valutazione dell’autorità competente, che potrebbe essere anche di diverso tenore, dovendo esser fatta caso per caso.

Ove la Repubblica Ceca dia corso alla domanda di cooperazione, resta comunque la possibilità di un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, per violazione delle norme CEDU.

In ogni caso, escludere che la questione si ponga in fase di emissione dell’ordine, come ha fatto la Corte di Giustizia, significa spostarla nella fase dell’esecuzione, ciò che però può comportare inconvenienti da non sottovalutare, primo fra tutti il rischio che alcuni Stati membri rifiutino la richiesta di cooperazione fatta dalla Bulgaria ed altri invece vi diano seguito, con effetti distorsivi molto negativi, in punto sia di parità di trattamento dei cittadini europei, sia di operatività di questo strumento di cooperazione, che potrebbe essere concretamente pregiudicata, sia infine per gli Stati membri, che potrebbero esporsi al rischio di condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo.