Adalberto Nascimbene
L'allevamento del bestiame bovino si è va-riamente articolato, in questi ultimi anni, nel territorio montano. Laddove maggiore è la produzione foraggera e la possibilità di meccanizzazione, è stato possibile premere sull'indirizzo selettivo che tendeva al mi-glioramento della produzione del latte. Al contrario, nelle altre zone ove le produzio-ni foraggere sono scarse e disagiata è la col-locazione delle aree pascolive, si è finito col porre al margine molti piccoli alleva-menti per i quali, tra l'altro, notevole era la richiesta di manodopera la cui disponi-bilità, a seguito dell'esodo, si è ridotta dra-sticamente.
Queste tendenze hanno influito sulla pro-duttività di latte delle vacche, che in talune aree ha segnato un aumento anche del 20-25% negli ultimi 10 anni.
D'altra parte, da un incremento delle di-sponibilità foraggere delle zone più favore-voli, conseguibile con la cerealicoltura, si accresce la potenzialità degli allevamenti che sarebbe conveniente consolidare, im-piegando un numero crescente di soggetti nati in loco. Ne deriva che l'obiettivo da perseguire nelle aree montane deve essere quello di potenziare l'attività riproduttiva che, tra le attività zootecniche, è quella che richiede razioni a minor concentrazione
energetica e si presta allo sfruttamento del-le zone meno facili, in cui maggiore è l'en-tità delle superfici abbandonate o sterili. Questa finalità può essere perseguita con diverse strategie di allevamento, che co-munque necessitano di interventi più o meno rilevanti tendenti ad ottimizzare le possibilità produttive delle foraggere. Anzitutto si tratta di individuare le aree che per caratteristiche pcdoclimatiche, di giacitura e di intervento agronomico pos-sono essere ancora convenientemente uti-lizzate come prati e pascoli, destinando le restanti, ad esempio, al rinnovamento fore-stale. Un simile censimento dovrebbe esse-re eseguito con criteri di massima unifor-mità tenendo presente soprattutto le reali possibilità di trasformazione in fieno delle praterie e l'agibilità dei pascoli.
Una volta ripresa l'utilizzazione di alcune superfici a prato, vi sarebbe la possibilità di migliorare la produzione ricorrendo a regolari concimazioni sia organiche sia inorganiche. In alcuni casi, ove l'abbando-no ha portato ad ul'abbando-no squilibrio della com-posizione botanica e del cotico, riducendo la percentuale di copertura delle legumino-se, potrebbe essere anche attuata la trase-mina. Se si tiene conto che la produzione dei prati di fondovalle, situati ad una alti-tudine compresa fra i 900 e i 1100 metri, è risultata mediamente superiore a 40 q. per ettaro, che va però diminuita delle perdite del pascolo o della fienagione, si può rite-nere che, migliorando stabilmente il valore di trasformazione del fieno, tali interventi agronomici potrebbero essere auspicati ed eseguiti dagli stessi proprietari. Un altro aspetto da studiare con maggiore attenzio-ne riguarda la possibilità di conservare al-meno parte del prodotto della praticoltura attraverso l'insilamento.
Questa pratica potrebbe consentire il pie-no recupero dei foraggi prodotti con l'ul-timo sfalcio che, dato l'incerto andamento climatico, spesso non possono essere af-fienati.
L'insilamento dell'erba, già diffuso in alcu-ni paesi europei, è stato oggetto di una se-rie di indagini specialistiche. I primi risul-tati dimostrano la possibilità di procedere meccanicamente su declivi con pendenze fino al 30% e poi di trinciare all'atto del-l'insilamento con capacità effettiva di 60-70 q. per ettaro. In particolari situazio-ni si potrebbe procedere all'insilamento anche dell'erba intera, come pure previo
Le illustrazioni del presente articolo sono tratte dal volume «Alpicoltura in Piemonte », edito nei 1980 dalla Unione regionale delle Camere di commercio deI Piemonte.
appassimento (fieno-silo).
Anche le superfici a pascolo, più o meno degradate, potrebbero recuperare la loro produttività con una gestione più raziona-le. Innanzitutto una pulizia delle infestanti più diffuse nei pascoli degradati, ricorren-do ali 'uso dei diserbanti selettivi, potrebbe fornire risultati interessanti; inoltre la pra-tica di concimazioni organiche ed
even-tualmente minerali ha generalmente mi-gliorato il potenziale di produzione. La concimazione sembra particolarmente vantaggiosa nei pascoli alti, ove si possono conseguire incrementi produttivi del 25%. Anche e soprattutto la tecnica di pascola-mento può consentire una migliore valo-rizzazione delle produzioni foraggere. È bene ricorrere alla pratica del
razionamen-to della superficie pa^coliva, dotando gli appezzamenti di cisterne e abbeveratoi e applicando un serio controllo delle infesta-zioni parassitarie.
Il frazionamento della superficie in più lot-ti consente sia ai bovini delle razze da latte che a quelle da carne migliori prestazioni produttive e soprattutto di aumentare sen-sibilmente il carico per unità di superficie.
Tale pratica avrebbe, tra gli altri vantaggi, quello di garantire una migliore conserva-zione del cotico per un più ridotto degra-damento per calpestamento. La valorizza-zione anche di una parte delle aree di pa-scolo, già servite da strutture utilizzabili, potrebbe contribuire ad aumentare la ca-pacità di allevamento dei territori più de-gradati.
Attualmente quasi il 60% della superficie produttiva delle malghe non viene utilizza-ta e comunque il carico per etutilizza-taro appare assai modesto.
Il potenziamento dell'attività riproduttiva bovina deve tener conto degli attuali indi-rizzi di allevamento ed inserirsi nella logi-ca di sviluppo che dovrebbe seguire al po-tenziamento della maiscoltura. È in atto attualmente una crescente richiesta di be-stiame a buona attitudine lattifera che nel contempo sia capace di sfruttare se non sempre, almeno in alcune fasi della carrie-ra riproduttiva, l'alpeggio ducarrie-rante il perio-do estivo, in moperio-do da contenere i costi di alimentazione. Data poi la minor produtti-vità delle lattifere nelle zone montane, e quindi i maggiori costi di produzione, si rende necessario valorizzare la lavorazione locale del latte in prodotti tipici che forni-scono un elevato valore di trasformazione. Questa situazione sembra favorire ancora la razza Bruna Alpina che unisce doti di buona rusticità e di discreta capacità pro-duttiva, anche se in certi casi viene allevata la Pezzata Nera.
In alcune aree, dove esiste una certa dispo-nibilità di manodopera familiare, la con-servazione ed anche il potenziamento del piccolo allevamento tradizionale, destinato a produrre con questa razza latte e vitelli, potrebbe svolgere un ruolo importante. Condizione necessaria è però che nelle pic-cole aziende si diffonda la pratica del mi-glioramento genetico, con la inseminazio-ne artificiale di tori miglioratori, ricorren-do in forma alternata a soggetti americani e di origine europea al fine di non perdere le due attitudini produttive che caratteriz-zano soprattutto le zone alpine. In questo modo potrebbero essere prodotti bovini di buona genealogia, in grado di sfruttare effi-cientemente le zone più fertili e la cui qua-lità e stato di salute dovrebbero venire esaltati dalla permanenza in alta monta-gna.
Laddove l'attività zootecnica è scomparsa dovrebbe essere valutata la convenienza ad introdurre fattrici destinate prevalente-mente od esclusivaprevalente-mente alla produzione del vitello da carne. Si può stimare, sulla base degli attuali prezzi e costi, che unità di 15 fattrici dovrebbero rappresentare la dimensione minima di convenienza econo-mica.
Sarebbe però necessario che queste linee di allevamento nascessero di dimensioni
mag-giori, favorendo l'associazionismo, in modo da garantire redditi di trasformazio-ne più elevati.
Un indirizzo produttivo volto esclusiva-mente all'allevamento di fattrici per la produzione di carne, potrebbe rivestire un certo interesse anche nelle zone più diffici-li, dove maggiore è stato l'esodo della po-polazione, pur trattandosi di una soluzione zootecnica estranea alle tradizioni dell'am-biente alpino. Le zone più adatte per que-sto tipo di allevamento potrebbero essere quelle dove i prati si trovano prevalente-mente a mezza costa inframezzati al bosco; in questo caso, risultando assolutamente da scartare una trasformazione del foraggio in fieno, queste superfici potrebbero essere utilizzate come pascoli bassi in modo da allungare il periodo di utilizzazione diretta dell'erba.
Traendo esperienza da quanto osservato, con le prove di allevamento confinato in pianura e dalla pratica dell'allevamento allo stato brado in zone dell'Appennino e delle Alpi, si possono avere alcune infor-mazioni sulle possibilità di realizzare simi-li simi-linee di allevamento. Va anzitutto preci-sato che le esigenze di manodopera risulta-no modeste in relazione alle soluzioni in precedenza trattate. Secondo un'indagine promossa dall'Accademia dei Georgofili, nella zona appenninica una dimensione ot-timale sotto il profilo economico dovrebbe prevedere 100 vacche ed impiegare non più di due unità lavorative a tempo pieno. Una mandria di tali dimensioni dovrebbe disporre di circa 150 ettari di pascolo da utilizzare per un periodo di 4-5 mesi al-l'anno e di circa 90 ettari di prato, con una produzione media di circa 30 q. per ettaro; le razioni foraggere dovranno essere inoltre integrate acquistando circa 400 q. anno di nuclei proteici-minerali e vitaminici. Do-vendosi realizzare un allevamento semi-confinato, con la necessità di ricoverare gli animali per almeno 5 mesi all'anno, sarà necessario disporre di stalle coperte dotate di boxes e macchine per la distribuzione degli alimenti.
Una migliore utilizzazione delle risorse fo-raggere richiede una concentrazione dei parti nel periodo primaverile in modo da completare lo svezzamento durante il pe-riodo estivo con le madri al pascolo. In questo caso sarà necessario dotare le stalle anche di apposite zone parto.
La fecondazione potrebbe quindi avvenire
immettendo nel branco, per circa 2 mesi (in agosto e settembre), un toro ogni 20-25 fattrici oppure, anche se non ancora di fa-cile realizzazione, effettuare un trattamen-to di sincronizzazione degli estri e successi-va inseminazione artificiale. Va aggiunto che la divisione del pascolo in lotti può fa-cilitare sia la fecondazione naturale che quella artificiale. Volendo ricorrere alla sincronizzazione degli estri, risulta più age-vole operare in autunno al rientro della mandria dall'alpeggio. In questo modo i parti stessi avverrebbero al pascolo, nell'e-state successiva, ed i vitelli dovrebbero es-sere venduti come lattanti, oppure dispo-nendo delle strutture necessarie, svezzati artificialmente in loco.
Sulla base delle esperienze realizzate in zone diverse, la natalità dovrebbe superare l'80-85% delle vacche presenti e pertanto con vitelli di buone caratteristiche si po-trebbe ottenere una produzione lorda ven-dibile di almeno 500.000 per anno-fattrice, nel caso dello svezzamento naturale e di circa 300.000 nel caso della vendita di gio-vani animali lattanti, comprendendo in tali cifre anche il recupero dei soggetti a fine carriera.
Un aspetto delicato riguarda la scelta delle razze. Infatti le razze alpine si dimostrano più adattabili alle condizioni di allevamen-to e forse più fertili delle altre razze impor-tate; d'altra parte la necessità di produrre vitelli di buon valore richiede almeno l'im-piego di tori ci razze da carne. Operare con fattrici pure di razze locali implica la necessità di mantenere in allevamento un certo numero di animali delle due razze da incrociare, per cui un'altra soluzione po-trebbe derivare dall'adozione di program-mi di incrocio alternato e quindi dall'uso costante di fattrici meticce; questa attività, opportunamente coordinata, dimensionata e sovvenzionata, potrebbe anche rappre-sentare una integrazione di reddito per i piccoli allevamenti a carattere familiare.