• Non ci sono risultati.

Le Olimpiadi di Tokyo 1964 sono state una grande opportunità per il giappone di mostrare la bellezza del paese al resto del mondo. È stata inoltre un occasione in cui designer di diverse generazioni hanno collaborato. Qual era l’atmosfera ai tempi? Cosa ha influenza- to i progettisti giapponesi?

Nel 1957 c’è stata la conferenza ad Aspen. Inoltre i designer giappo- nesi si sono recati in Europa e quello è stato il momento in cui il de- sign giapponese ha mosso i suoi primi passi e si è fatto riconoscere in ambito internazionale. Al momento non si era ancora sviluppato professionalmente, ma i vari paesi hanno iniziato a notarlo.

La WoDeCo a Tokyo è stato il punto d’inizio per lo sviluppo del desi- gn in Giappone, il momento in cui i designer hanno iniziato a rappor- tarsi con la società. In quel momento il sentire comune dei proget- tisti era quello di portare il design a un livello superiore rispetto al passato. Io avevo 30 anni e Kamekura 45 e Hiromu Hara 52. Queste erano le tre generazioni (a circa 10 anni di differenza l’una dall’altra)

Durante il periodo di ricerca presso la Musashino Art University di Tokyo, l’au- trice Claudia Tranti ha avuto modo di intervistare Katsui Mitsuo, progettista che si occupava della tipografia per Tokyo 1964 e facente parte della giuria per la selezione del secondo marchio di Tokyo 2020. L’intervista si è svolta presso lo studio del designer grazie all’aiuto di Julia Chiu, professoressa della MAU e presidentessa Icograda nel 2012. La docente ha contattato il designer e svolto il ruolo di interprete inglese-giapponese.

C. T.

Branding Japanese Olympics Intervista a Katsui Mitsuo

che hanno poi contribuito a realizzare il progetto per le Olimpiadi. A metà fra la seconda e la terza generazione però non c’era nessun progettista notevole.

Sono nato nel 1931. In quel momento la presenza militare giappone- se in Cina era già abbastanza forte. Questa situazione modificò la si- tuazione in Giappone. Quando sono entrato a scuola all’età di 6 an- ni il Giappone invase la Cina. Quattro anni dopo è iniziata la seconda guerra mondiale. Anche le relazioni con l’America cambiarono. I de- signers di quell’epoca furono coinvolti nella guerra: molti morirono e gli altri non ebbero la possibilità di studiare né in patria né all’estero (a causa dei cattivi rapporti con i paesi stranieri).

Questo accadde perché nel 1944 vennero reclutati gli studenti uni- versitari. Questo portò ad avere una generazione mancante di desi- gners (menzionata in precedenza n.d.r.): circa 15 anni di vuoto. Rimasero dunque le generazioni precedenti e quelle successive al- la guerra. Fra me e Hiromu Hara c’erano circa 22/23 anni di differen- za. Le persone intorno ai 40 anni furono dunque il cuore del progetto per le Olimpiadi. Questa era dunque la “struttura” creatasi fra le va- rie generazioni che hanno preso parte al progetto per le Olimpiadi. Numerose infrastrutture tra cui lo Shinkansen vennero costruite in occasione delle Olimpiadi. Negli anni Cinquanta l’esportazione di merci dal Giappone non era particolarmente florida, tuttavia con la guerra in Corea ci fu una crescita a causa dell’esportazione di beni e supporti di vario genere.

Negli anni Cinquanta nasce l’ADC ed anche altre associazioni di de- signers in Giappone: ad esempio la NissenBi (la futura Jagda n.d.r.) e l’Associazione del Design Industriale. Sempre in quegli anni ci fu una forte influenza americana nel paese a causa dell’occupazione militare.

Negli anni Sessanta ci fu una crescita delle esportazioni, supporta- ta dal Ministero del Commercio grazie a delle specifiche iniziative. Il successo di queste politiche portarono all’età dell’oro negli anni Settanta .

La WoDeCo del 1960 a Tokyo fu organizzata da Kamekura e ??? ri- unì anche i vari progettisti sparsi per il Giappone: Tanaka e Nagai da Osaka, l’architetto Kenzo Tange e Mukai (che aveva studiato alla J. C.

K. M.

scuola di ULM). In questo evento esso ebbero l’occasione di inse- gnare alle nuove generazioni e discutere la situazione mondiale in rapporto con il design. Le generazioni più vecchie svilupparono le proprie idee a partire dalla comunicazione della WoDeCo e mostran- dole al pubblico.

Nello stesso anno Tokyo venne eletta città ospite delle Olimpiadi. Venne selezionato un gruppo di designer per inviare diverse propo- ste per il marchio. Essi appartenevano alla generazione intorno ai 45 anni. Venne selezionato il marchio di Kamekura. Il leader dell’ope- razione era Masaru Katsumi. La prima e la seconda generazione si occuparono degli elementi progettuali più importanti, come i poster e il marchio, mentre la terza generazione si occupò di elementi più semplici come il design manual.

Katsumi era convinto che gli stemmi familiari giapponesi fossero ben disegnati e che (noi Giapponesi n.d.r.) dovremmo esserne fieri. Riescono infatti ad astrarre alcuni motivi, sviluppandoli attraverso le varie generazioni. Katsumi pensava che bisognava impiegarli in mo- do efficace nel progetto per le Olimpiadi.Si recò in Europa per stu- diare i linguaggi visivi: ad esempio una novità furono i pittogrammi sulle toilette di uomini e donne, dato che al tempo in Giappone veni- vano impiegati i relativi kanji.

Un altro esempio di linguaggio visivo giapponese si può notare a Kyoto: nelle stradine o nei sentieri (specialmente quelli che portano ai templi - Julia) si possono notare delle pietre con una corda intor- no. Quello è il simbolo che indica il divieto di ingresso o passaggio. Il design giapponese è minimale perché è stato sviluppato all’inter- no di una piccola comunità che vive su un’isola.

I kanji hanno impedito che i giapponesi disegnassero i pittogrammi? No.

Anche se derivano da immagini?

Per noi i kanji sono qualcosa di ufficiale, che il governo usa per co- municare. All’inizio erano qualcosa di elitario, usato dai nobili. L’hi- ragana, ad esempio, è una versione semplificata dei kanji, usata nel- la letteratura e nella cultura popolare. In particolare nella scrittura K. M.

K. M. C. T.

Branding Japanese Olympics Intervista a Katsui Mitsuo

femminile. Le persone comuni non sapevano usare bene i kanji. Ci sono tre tipi di simboli nella cultura giapponese, correlati alla clas- se sociale di appartenenza:

• gli stemmi delle famiglie di samurai, i quali dovevano essere mol- to semplici per essere riconosciuti anche a grande distanza; • i marchi commerciali;

• gli stemmi familiari.

Inoltre ci sono i marchi dei proprietari terrieri (per i quali lavorano i contadini) e dei magazzini. Durante i festival (gishiki), le persone portano degli stemmi sui vestiti. Non so se questa “cultura degli stemmi” sia nata per necessità o per divertimento; fatto sta che è andata avanti per più di 500 anni. In Europa ci sono degli stemmi re- lativi alle famiglie dei nobili, ma spesso cambiavano o diventavano più complessi in base ai matrimoni fra le varie casate.

L’idea di Otto Neurath era quella di integrare e unificare l’Europa, co- stituita da tanti piccoli paesi diversi tra loro, creando un linguaggio visivo comune e comprensibile a tutti.

Egli fu un modello per il progetto delle Olimpiadi. Il Giappone aveva già dei simboli comprensibili a tutti all’interno del Paese, ma c’era bi- sogno di qualcosa che mettesse in comunicazione il Giappone con gli altri paesi. Masaru Katsumi insistette molto su questo bisogno di un nuovo linguaggio visivo.

Per le Olimpiadi c’era bisogno di comunicare in tre lingue (inglese, francese, giapponese n.d.r.) quindi bisognava integrare dei sistemi di scrittura sviluppatisi in modo completamente diverso. Un proces- so di importazione e integrazione con la cultura giapponese, da re- stituire in seguito al mondo intero.

Fino a quel momento la comunicazione era stata progettata in base alle lingue europee.

Questa era la prima volta che ci si trovava ad usare il giapponese. Avere le Olimpiadi in Asia per la prima volta fu un trampolino di lan- cio per un cambiamento nel design della comunicazione.

Progettare la tipografia giapponese per adattarla ai caratteri latini è stato qualcosa di nuovo?

J. C.

C. T. K. M.

No, perché abbiamo avuto rapporti con l’Olanda e il Portogallo tra- mite il porto di Nagasaki.

È stata la prima volta che alfabeto e giapponese sono stati usati in- sieme per un progetto di design?

È stata la prima volta che è stato creato un vero e proprio layout per i due sistemi, ma in passato c’erano stati altri tentativi.

Ad esempio quando sono arrivati i cristiani, c’è stato bisogno di cre- are un dizionario con caratteri latini e giapponese. Il font usato per l’alfabeto era il Bodoni, dunque anche i kanji dovettero essere adat- tati in modo da avere le grazie. In generale c’era il problema di adat- tare la tipografia giapponese a quella latina.

Qual è stata l’influenza del progetto di Tokyo 1964 sui successivi eventi internazionali?

L’Expo di Osaka del 1970, ad esempio, aveva gli stessi progettisti delle Olimpiadi di Tokyo. Tuttavia, dato che c’erano state altre espo- sizioni universali, Tokyo 1964 non è stata l’ispirazione principale. Però i pittogrammi di Tokyo sono stati usati prima a Osaka nel 1970 e poi a Sapporo nel 1972. Ci sono state altre influenze oltre a queste? Sì, ad esempio il procedimento di partire dal design del logo e poi progettare i vari altri elementi.

Questo procedimento è diventato una sorta di standard?

Sì, in qualche modo. Tuttavia dopo l’Expo del 1970 la comunicazio- ne finì in mano alle agenzie pubblicitarie e venne strappata dalle ma- ni dei designer.

Lei è stato coinvolto nel design del secondo marchio per Tokyo 2020. Mi dica di più: c’è stato un cambio nel metodo di progettazione? Sì. Dalla metà degli anni Ottanta fino alla fine degli anni Novanta, l’amministrazione pubblica giapponese si trovò di fronte alla nascita C. T. C. T. C. T. J. C. C. T. K. M. K. M. K. M. K. M. K. M. K. M.

Branding Japanese Olympics Intervista a Katsui Mitsuo

di nuove grandi città (dovuta all’ampliamento di città minori o alla fusione di più centri abitati). Nacquero circa 2000 nuove città e cia- scuna di esse aveva bisogno di un marchio. I governi delle varie cit- tà indissero dei concorsi a cui poterono partecipare i bambini delle scuole. I governi non investirono molto in queste iniziative ma molte persone ne erano a conoscenza grazie a degli appositi eventi che fu- rono organizzati ai tempi.

Dunque in questo processo per la scelta del logo chiunque poteva inviare la sua proposta e a scegliere era il sindaco, (l’amministrazio- ne n.d.r.), non dei professionisti del design. Questo modus operandi divenne dunque la norma in Giappone. Ci furono tuttavia delle ecce- zioni: a Tokyo, ad esempio, vennero coinvolti dei designer professio- nisti per un budget di 20 milioni di yen.

I designer come individui hanno quindi perso importanza?

Il governo scelse di non impiegarli più, perché era più economico chiedere alle persone comuni di disegnare i marchi. Inoltre, attraver- so gli eventi dedicati, c’era la possibilità di coinvolgere più persone e suscitare il loro entusiasmo. Questo è stato uno dei motivi per cui mi hanno coinvolto nella selezione del marchio per le Olimpiadi del 2020.

La realizzazione del marchio per un evento come le Olimpiadi com- porta l’interesse di molte parti: culturali, commerciali e politiche. Durante la selezione del primo marchio, furono coinvolti molti pro- fessionisti del JAGDA.

Il metodo tuttavia non era corretto: non è stato equo perché potero- no partecipare solo dei designers che avevano ricevuto premi in pas- sato. Siccome i giudici avevano già una certa idea di comunicazione in mente, non hanno giudicato le varie proposte in modo imparzia- le. Inoltre c’è stata anche la questione del plagio, infatti il primo mar- chio era simile ad un altro già esistente.

A causa di questo problema, il processo per la selezione del secon- do marchio è stata più simile a ciò che i governi cittadini avevano fatto negli scorsi anni: 21 persone comuni più altri designers. C. T.

C. T. J. C. K. M.

K. M.

C’erano delle buone proposte?

Ce n’erano alcune valide, ma a causa delle forti restrizioni è stato dif- ficile. Non potevano esserci simboli tipicamente giapponesi: niente monte Fuji, niente fiori di ciliegio, niente riferimenti alla bandiera. Tuttavia le proposte mi sembravano molto “giapponesi”.

Non erano immagini strettamente tipiche, ma avevano un gusto giapponese.

Esiste una regola internazionale che impedisce di fare riferimenti di- retti ai simboli nazionali.

Passiamo al prossimo argomento.

Lei è un pioniere della C.G., La quale è stata una rivoluzione sia per il suo lavoro che per quello di tutti gli altri designer. La progettazione di eventi è cambiata dopo questo avvenimento?

Intendi i marchi?

No, intendo il branding o la corporate image in senso più ampio. Quindi la comunicazione delle aziende, ma soprattutto degli eventi. Vuoi dire di eventi internazionali?

Sì. Ma sono interessata soprattutto a quelli tenutisi in giappone. No. Non ci sono stati cambiamenti radicali. Questo genere di cose non cambia molto se disegnato a mano o al computer. Ma ciò che è cambiato è stato il fatto che ora tutti possono essere coinvolti nel- la progettazione o discussione di un progetto di design, dagli ama- tori ai professionisti. In passato c’erano degli opinion leader, degli esperti che influenzavano gli altri riguardo a ciò che bisognava fa- re in quel dato momento. Ora, tuttavia, l’opinione pubblica viene pre- sa più in considerazione. Per il 2020 infatti tutti hanno potuto votare (per le mascotte n.d.r.). Mi sembra un metodo inefficace.

Dunque un metodo più democratico ma molto meno professionale. J. C. J. C. J. C. C. T. C. T. C. T. C. T. K. M. K. M. K. M. K. M.

Branding Japanese Olympics Intervista a Katsui Mitsuo

Sì. Oggi ignoriamo la tradizione e l’eredità culturale e ci preoccu- piamo di più di cosa sentiamo oggi, di cosa è importante in questo momento

Questa situazione è anche influenzata dalla logica del profitto. In questo nuovo assetto sociale, qual è il ruolo del designer? Cosa possono fare gli studenti per promuovere la professione? Per essere convincenti non bisogna focalizzarsi solo sulle mode passeggere e sul tornaconto personale, ma si deve prestare atten- zione ai valori culturali. La cultura non è qualcosa che si può creare in un giorno, ha una storia e coinvolge l’uomo in quanto tale e il suo spirito.

Quindi dobbiamo fare riferimento a qualcosa di più alto e profondo. Sì, perché il risultato del tuo lavoro influenzerà le prossime genera- zioni. Bisogna pensare a questo, qualsiasi sia l’attività che stai svol- gendo. Pensa all’architettura europea: ci vuole molto tempo a realiz- zarla, perché non si pensa all’edificio come elemento singolo, ma si prende in considerazione anche ciò che lo circonda.

Se bisogna progettare qualcosa che dura per 50 anni, bisogna avere una cura estrema. Il design degli eventi è qualcosa di più transitorio, tuttavia è anche molto potente. Dovremmo riconoscere questo tipo di valore, altrimenti rimarranno eventi isolati (validi solo per quel sin- golo momento).

Come è possibile trasmettere questi valori duraturi attraverso il design?

Come si fa a influenzare gli altri?

Hmmm… Quello che faccio io è tornare alle basi. È importante ave- re questo tipo di atteggiamento. Ad esempio, nell’architettura si po- trebbe guardare al background culturale o al paesaggio. Se si pen- sa solo al lato commerciale o al design come hobby non si può K. M. K. M. K. M. K. M. J. C. C. T. C. T. C. T. J. C.

raggiungere tali risultati.

Per concludere parliamo del colore. Lei è un maestro del colore. In passato c’erano molte limitazioni dovute alle tecniche di stampa, ma oggi grazie agli schermi ci sono più possibilità.

Crede che questa libertà sia un vantaggio nei termini della comuni- cazione visiva? Il design è migliorato o peggiorato nel tempo? Per quanto riguarda la sperimentazione avere molte possibilità è positivo, ma quando si deve decidere un determinato colore la que- stione è diversa. Sullo schermo e per le immagini in movimento, quello che vediamo è finzione.

Nella realtà il colore dipende dalla relazione con la materia tangibi- le. Non importa quanto questo mondo intangibile si possa evolvere: i colori che vediamo nei vestiti che indossiamo o negli oggetti che usiamo è applicato a un materiale, varia in base alla consistenza del materiale. La purezza del colore è una questione completamente di- versa rispetto alle variazioni di colore che un materiale può avere. Bisogna pensare che il colore è anche questo. I colori naturali, co- me ad esempio quelli delle piante o di un paesaggio, sono comple- tamente diversi da quelli realizzati dall’uomo.

La nostra generazione è nata con i computer. Quindi abbiamo un rapporto abbastanza superficiale con i colori. Quando usiamo pho- toshop li scegliamo semplicemente dalla “tavolozza”.

Credo di sì. Perché in quel caso la texture (dello schermo n.d.r.) è omogenea.

Scegliamo il colore nei programmi e li mandiamo alla stampante di- gitale, che però non dà i risultati sperati. Se però iniziamo a pensare ai colori come inchiostro o come qualcosa di fisico, la nostra perce- zione e l’uso che ne facciamo cambiano.

Anche l’inchiostro è una sostanza (un materiale n.d.r.), e questo in- fluenza il tuo lavoro.

Grazie mille per l’intervista! K. M. K. M. K. M. C. T. C. T. C. T. C. T.

FONTI

Documenti correlati