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Intervista a Lord Wylmore

Nel documento Carlo Bordoni (pagine 50-53)

del vento salubre che spira sopra i flutti, del sole finalmente apparso tra nuvole in fuga verso l’orizzonte, la bella imbarcazione, con le vele spiegate simili alle ali dei gabbiani, giunge da occidente, quindi entra in rada grazie ad un’elegante manovra marinara.

Sono a conoscenza del fatto che lord Wylmore e la sua affascinante consorte si fermeranno a Sanremo per un breve lasso di tempo per poi ripartire all’alba di mercoledì ed approdare a Gaeta dove li aspetta un importante impegno nel giorno di giovedì 18 aprile. Milord infatti è stato lì convocato dal suo sovrano Edoardo VII, con cui vanta una frequentazione pluriennale, onde assisterlo nel delicato compito di risolvere la controversia relativa ai confini che separano Il Regno d’Italia Centrosettentrionale dal Regno delle Due Sicilie. Forte della sua meritata fama di diplomatico esperto, che gli a fatto ottenere il soprannome di Conciliatore, Edoardo VII intende mettere a confronto Re Vittorio Emanuele III di Savoia e Re Alfonso I di Borbone affinché suggellino una pace e un’alleanza durature, dopo una situazione di stallo protrattasi fino ai giorni nostri, dai tempi dall’annessione dei territori dello Stato Pontificio al Regno del Settentrione.

Secondo quanto scritto su i giornali della penisola, anche uno come me, assai digiuno di faccende politiche, spera in una positiva soluzione capace di donare all’Italia tutta prosperità e maggiore peso nel consesso internazionale.

15 aprile1907 ore 14 postmeridiane

Ho pranzato parcamente in un’osteria del porto. Ora seduto sui sassi di un piccolo molo ascolto il mare, sento il profumo acre delle alghe gettate a riva dalla risacca permeare le narici, chiudo gli occhi e vedo la Tigre della Malesia sfidare la tempesta, in piedi immobile su gli scogli scoscesi della sua Mompracem; vedo il Corsaro Nero abbandonato su un cumolo di cordami asciugare le lacrime col dorso della mano, quando la scialuppa con la sua amata a bordo viene inghiottita dal nero orizzonte. La Capitana dello Yucatan, i Naufragatori dell’Oregon e i Solitari dell’Oceano, l’Eroina di Port-Arthur insieme alla splendida Jolanda, degna progenie di Emilio di Roccabruna, danzano davanti al mio sguardo perduto nelle insondabili, liquide, profondità.

Di colpo mi scuoto. Ritorno dai miei vagheggiamenti alla cruda realtà del vivere d’ogni giorno, del dover “tirare quattro paghe per il lesso”, come ebbe a dire il vate Giosuè Carducci. Alle cinque, le diciassette secondo un computo di maggior rigore, sono atteso all’Hotel des Anglais per un colloquio o intervista con lord Wylmore. L’occasione di poter sentire dalla viva voce di cotanto personaggio la narrazione delle sue ardimentose avventure in terra americana mi emoziona e mi preoccupa, anzi genera un sottofondo d’angosciosa e d’apprensione.

Sarò io in grado di riferire con dovizia di particolari le vicende di questo esperto cacciatore di bisonti, di questo scorridore del Far West, di un poliglotta capace di parlare la lingua dei pellirossa, oltre a diversi idiomi europei ed asiatici, di un avventuriero indomito, di un praticante di numerose discipline sportive tra le quali eccelle nel pugilato? Quando penso che un uomo siffatto ha telefonato al giornale con cui collaboro per concedere un colloquio proprio a me, sento le gambe tremare e stringere la bocca dello stomaco. Ripasso mentalmente le informazioni note sul singolare personaggio: milord è nato nella terra di Albione il 21 agosto 1852, unico figlio di lady Arabella Appleton, dama di corte della regina, per la quale Vittoria ha

Intervista a

Lord Wylmore

Adalberto Cersosimo

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sempre nutrito sincera affezione, e di Buster Wylmore, duca di Snowdon. Il giovane, già dai primi

anni dell’infanzia, denotava una intelligenza viva ma incostante, costringendo i suoi precettori a vere acrobazie di tolleranza e di pazienza; vantava sempre più spesso interessi molteplici per le più svariate discipline, per le lingue straniere, lo sport, i viaggi in luoghi remoti, la caccia, e tutto ciò che andava sollecitare la sua fervida immaginazione. Nel 1874, appena ventiduenne, motivato da una totale stato di malessere e di insoddisfazione nei confronti della vita monotona dell’alta società inglese, raggiungeva il Far West americano, dove soggiornava per diversi anni, diventando un noto cacciatore di bisonti.

15 aprile 1907 ore 17 postmeridiane

Ho raggiunto a piedi l’Hotel des Anglais, in prossimità del Kursaal-Casinò inaugurato nel 1905 ed opera dell’architetto Eugene Ferret. Alle cinque in punto denuncio le mie credenziali ad un freddo, compito maitre d’hotel il quale, squadrandomi dall’alto in basso, ordina altero: “ Sua grazia l’attende. La prego di seguire senza indugio il valletto che la scorterà alla suite imperiale.”

Sento un brivido gelido correre lungo la spina dorsale, un poco stordito dal lusso e la signorilità dell’ambiente. Se questo rappresenta l’inizio, pavento cosa mi aspetterà tra non molto. Tre tocchi leggeri alla bella porta di legno massello che l’accompagnatore o guardia del corpo, oserei dire, assesta con costumata consuetudine, annunciano che sono arrivato a destinazione.

“ La prego, mister Salgari, entri pure senza inopinate formalità. È già aperto.”

L’indubbio accento anglofono di una voce che si esprime in buon italiano fanno subito comprendere che sono finalmente al cospetto di milord.

“Venga, venga, mister, lasciamo da parte i cerimoniali, benché sia un rappresentante della Camera dei Pari non son ancora ingessato del tutto,” dice un uomo alto, vestito in perfetto stile da yachtman, mettendo nel palmo del mio quasi scudiero quella che sembra una moneta d’argento. Lord Wylmore appare davvero come lo immaginavo. Ha capelli cortissimi, di un grigio metallico, pettinati all’umbertina, Camicia immacolata e giacca blu dai bottoni dorati, attorno al collo un foulard di purissima seta sul quale sembra di intravedere uno stemma gentilizio. La sua vigorosa stretta di mano è coinvolgente, gli occhi, un poco piccoli, di un azzurro glaciale, ti valutano in un brevissimo arco di tempo. Non dimostra davvero d’essere sulla soglia dei cinquantacinque anni.

“Non stia lì impalato ad imitare uno stoccafisso norvegese, si rilassi. Un ammirevole narratore di avventure, qual è lei, deve essere conscio del suo valore. Prego si accomodi qui, in salotto, vicino a me.”

La poltrona appare davvero comoda ed ha un sentore di sano cuoio stagionato. L’ansia si stempera. Frattanto un cameriere tanto silenzioso da sembrare un’apparizione dell’oltretomba giunge presso il tavolino che ci divide.

“Gradisce una tazza di tè? Milady arriverà tra poco. Sarà meglio che il cameriere ci serva subito, prima dell’entrata in scena della mia amata consorte, così correggiamo a dovere questa a volte insipida bevanda.” Il lord estrae dalla tasca della giacca una fiaschetta di argento decorata da una scena di caccia. Versa in entrambe le tazze un’abbondante dose di liquido ambrato che si confonde subito con la bevanda fumante. “Sa, questo è un robusto whisky o whiskey americano di puro malto di segale; un po’ rozzo ma adatto a quel popolo di cowboy. Lo bevo ormai dai tempi della vita nella prateria.”

Accetto e sento la gola infiammarsi mentre deglutisco. Il lord sorride. “Decisamente robusto, direi alquanto tonico. Non crede?”

Tento di sorridere io pure e faccio un cenno d’assenso.

Una donna alta, dotata di occhi scurissimi e di un portamento fiero, di una naturale eleganza di movimenti, si approssima alle nostre poltrone. Mi alzo per subito inchinarmi.

“Le presento mia moglie, lady Bianca, un nome che ha assunto quando è venuta a vivere tra noi, per così dire, uomini civili. Lei un tempo era Minnehaha, che nel linguaggio dei Lakota-Sioux vuole dire ‘cascate d’acqua’, quindi bianche di spuma.”

Lord Wilmore sembra commuoversi al ricordo.

“Convincerla ad accettare un nuovo nome senza dimenticare le sue vere origini era l’unico

modo per confermarle una eterna devozione.”

“Vede, caro Emilio, permette a me di così chiamarla? Il mio uomo è, come voi soliti dire, spirito molto romantico.”

Ciò detto milady si accomoda sulla poltrona libera tra me ed il marito. Quando si esprime in italiano denota un accento esotico e un ritmo di parlata quasi musicale che a volte si interrompe per cercare il vocabolo adatto all’occasione.

Interviene lord Wylmore: “Lady Bianca ama molto l’Italia. Le piace la vostra gente, perciò mi ha convinto ad acquistare, circa cinque anni fa, una tenuta agricola sulla costa toscana, in Maremma nella terra dei butteri, che le rammenta talvolta i luoghi dove viveva libera con il suo popolo. Alleviamo cavalli e bufali e lei ha imparato, pur con qualche difficoltà, l’idioma italico. Deve perdonare il suo linguaggio piuttosto incerto. Desidera parlarle direttamente per raccontare l’odissea dei pellirosse americani che ha vissuto da protagonista ”

“Sono felice di tanta considerazione,” rispondo molto lusingato.

“Pure io le narrerò qualcosa della mia avventura sulla frontiera del Lontano Ovest. Allorché sbarcai a Boston, volevo sfuggire al tedio di una vita costellata di abominevoli cacce alla volpe, zeppe di segugi nevrotici e di azzimati damerini che sapevano discutere soltanto di cavalli e di scommesse, oppure di timorose damigelle pronte a dimenticare tutti i precetti relativi a una dignitosa riservatezza appena finivano sotto le lenzuola. No! Non sopportavo di sprecare in quel modo la mia esistenza.” Milord aspetta il mio assenso e prosegue: “Bertie, si, proprio il Principe di Galles, ora Re Edoardo, ospite spesso della mia famiglia in una delle nostre residenze di campagna, mi consigliò di dar sfogo alla curiosità che mi spingeva verso terre lontane. Subivo da tempo il grande fascino del Nuovo Mondo. Accettai subito il consiglio e non me ne sono mai pentito.”

Lord Wilmore osserva la moglie con affetto.

“Se non fossi venuto nel Far West, non avrei mai incontrato Minnehaha. A dire il vero il nostro rapporto iniziale rischiò di avere un esito infausto, risoltosi fortunatamente in seguito in modo positivo. Per essere certa che l’amavo davvero lei mi fece legare ad un abete nel gelo invernale del Nebraska. Dopotutto ero un wasichu, un uomo bianco, massacratore di bisonti. Uccidevo quei poveri ruminanti, non per cibarmene e neppure per denaro, come Buffalo Bill, semplicemente poiché ero un viso pallido sciocco, capriccioso, in cerca di emozioni che interrompessero il tedio esistenziale. Vedendomi sopportare con stoica determinazione la durissima prova Minnehaha fu affascinata dal coraggio che dimostravo e decise di liberarmi. Per i Sioux la fermezza è una delle doti morali degne di un vero guerriero.”

“ Caro Emilio,” prosegue lord Wilmore,” posso io pure chiamarla per nome? La vita sulla frontiera aveva mutato in modo positivo il mie carattere. Ho avuto buoni maestri tra i cacciatori della prateria, i trapper ed i mountain-men, con i quali sono entrato in contatto durante la mia lunga permanenza nella terra degli indiani. Tra tutti ricordo sempre Sandy-Hook, lo scorridore che avevo assunto per guida. Altri invece erano delle vere pelli da galera,ciniche, arroganti, capaci di considerare qualsiasi pellerossa alla stregua di un animale da sterminare come i poveri bisonti.”

“Mio marito certamente vuole parlare del capitano Devandel.” Interviene lady Bianca. Un rapido balenare degli occhi scurissimi rivela la ridda di sentimenti che la turbano. Un lungo sospiro la interrompe, poi riprende il discorso. “Il wasichu chiamato Devandel era un cacciatore di indiani. Al comando de colonnello Custer aveva partecipato al massacro dei nostri fratelli Cheyenne sul fiume Washita, dove vennero uccisi pochi guerrieri ma molte donne, vecchi e bambini. Ancora oggi, dopo anni, provo un profondo disprezzo per quell’uomo e per i suoi amici massacratori del popolo rosso ed anche assassini di mia madre Yalla.”

Lord Wylmore osserva rivolto alla moglie: “Mister Salgari scriverà le nostra storia; e, da gentiluomo qual è, saprà rendere giustizia da tutte le cose false raccontate In America sulle guerre indiane. E poi non dimenticare che la tua parte di vendetta l’hai ottenuta, quando scotennasti John Maxim, l’agente indiano di Devandel, che aveva ucciso la grande Yalla.”

“Lui però è riuscito a sopravvivere. Se non gli fossi sfuggita, grazie a te, mi avrebbe raggiunto per prendersi la sua vendetta.”

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Sono scosso, emozionato, da una vicenda tanto drammatica, e parimenti meravigliato

della fiducia che milord e milady pongono nelle mie capacità.

“Devi parlare a mister Salgari di Little Big Horn; tu c’eri, come hai detto più volte. Devi sottolineare che non furono i selvaggi ribelli indiani a cercare lo scontro, bensì quei ferocemente civili soldati bianchi.” Osserva il lord sarcastico.

“Quello fu davvero un giorno memorabile. Avvenne nel tempo della luna che ingrassa, da voi bianchi chiamato mese di giugno. Eravamo accampati sul lato sinistro del fiume che scorre a nord-ovest e non avevo mai visto un campo tanto vasto, di forse più di mille tende. C’era tutto il popolo dei Lakota-Sioux: gli Oglala, i Minneconjou, gli Uncpapa, i Piedineri , i Brulé, i Sans Arc ed i nostri alleati Cheyenne. Le giacche Blu vennero da oriente nel primo pomeriggio. Non sapevamo quale capo le comandasse e nemmeno se fosse Capelli Lunghi Custer, quindi è vergognoso raccontare che Toro Seduto, il padre riconosciuto della nazione Sioux, squartò il torace di Custer per morderne il cuore ancora palpitante. Tatanka Yotanka era un capo anziano, non partecipò in modo diretto alla battaglia.” La donna intenta a ricordare questo tragico evento non sembra più lady Bianca; nell’ansia del ricordo ella torna alla sua primitiva natura d’indomabile guerriera.

“Al sopraggiungere dei primi soldati, Pizi, detto Fiele, portò i suoi guerrieri ad affrontarli e poi respingerli su una collinetta a nord-est, oltre il fiume. Negli accampamenti delle Tribù regnava una grande confusione. Il mio vecchio padre venne a fianco del tepee tenendo per la briglia un cavallo già dipinto con i colori di guerra; io presi le mie armi e, avvolta nel mantello di pelle di daino bianco, andai insieme a Cavallo Pazzo e gli Oglala ad affrontare il secondo gruppo di Lunghi Coltelli al guado del torrente di Coda di Medicina.” Minnehaha si interrompe, respira a fondo, riprende il filo della narrazione. “Adesso i soldati bianchi non parevano più tanto arroganti, correvano tra la polvere e gli spari a cercare una linea difensiva. Altri tentavano una fuga disperata e venivano subito abbattuti. Infine i pochi superstiti, tutti riuniti sul culmine d’una collina al riparo dei cavalli morti, combatterono fino all’ultimo uomo. Non so se fu davvero una grande battaglia oppure solo una caccia al bisonte.”

“ Mia cara ti vedo estenuata da questo drammatica commemorazione,” dice lord Wilmore, appena alzatosi dalla poltrona, ponendo le mani sulle spalle della moglie, “si va facendo tardi; è venuto il momento di cenare. No, no, mister Emilio, non vada via. Accetti il nostro invito sincero.” 15 aprile 1907 ore 19.30 postmeridiane

Nella spaziosa sala da pranzo della suite due camerieri professionali e silenziosi , simili a entità ultraterrene, prelevano le vivande dal carrello e servono in tavola. Siamo in tre. Milord a capotavola ed io di fronte a lady Bianca, Minnehaha, come preferisco ormai chiamarla per non fare torto alla sua natura più genuina.

“In quel gelido gennaio del 1890, la mia futura sposa ed io fuggimmo verso nord intenzionati a raggiungere il Canada. Avevamo alle calcagna il capitano Devandel, l’agente indiano John Maxim ed i loro seguaci. Non la sto tediando, vuole che le racconti la fine della storia?” chiede lord Wilmore.

“Sono assai curioso al riguardo; non mi tenga sulle spine.” Subito rispondo.

“Carissimo Salgari lei e davvero una persona squisita e fornita di adeguata pazienza. Veniamo al dunque.”

La cena è appena conclusa. Milord versa da una elegante bottiglia di cristallo una dose davvero generosa del suo robusto liquore da cowboy. Guardo il bicchiere e lo porto delicatamente alle labbra.

Milady lo osserva. “L’acqua di fuoco non ha mai favorito la lucidità di chi ne fa uso.” Fa notare con aria di disapprovazione.

“Perdonami davvero, mia cara, si tratta di uno dei miei tanti difetti,” risponde sornione l’ex cacciatore. “Torniamo in dietro nel tempo. Gli accaniti inseguitori ci raggiunsero proprio sul confine canadese, mentre pensavamo d’essere quasi al sicuro. Minnehaha esasperata decise di accettare la sfida. Vestì il mantello di daino bianco ed in testa ai pochi guerrieri che ancora la

seguivano andò loro incontro. Non volevo perdere la donna per cui avevo rischiato la vita. Mi appostai tra i cespugli scheletriti dal gelo con il fucile da bisonti. Quando l’agente indiano, l’uomo macerato da un odio mortale nei confronti di quella che considerava solo una bestia feroce da eliminare, giunse a tiro gli spedii un colpo mortale in pieno petto. La seconda pallottola la usai per abbattere il cavallo del capitano Devandel. Questa imprevista piega degli avvenimenti convinse gli inseguitori a battere in ritirata.”

Lord Wilmore mi osserva interrogativo. “Pensa che io sia un criminale, mister Salgari?”

Scuoto la testa: “difendere le persone che amiamo è dovere di qualsiasi uomo degno di tal nome.”

“Ciò che successe in seguito non merita grande considerazione. Arrivati a Winnipeg presi contatto con la North-West Mounted Police e sotto loro scorta raggiungemmo Ottawa. Le Giubbe Rosse non avevano particolare simpatia per gli avventurieri e trafficanti americani per cui fummo trattati molto bene. Purtroppo in seguito una vibrata protesta del governo statunitense che pretendeva l’estradizione di Minnehaha, fui costretto a incomodare Bertie. Il mio telegramma al Principe di Galles venne accolto dall’addetto alla spedizione con non velata ironia, anche se, dopo una settimana, per espressa volontà i Sua Maestà la Regina in persona, una nave della marina britannica venne a prelevarci entrambi.”

Venuto il momento del congedo lady Bianca e lord Wilmore rinnovano l’invito ad andare durante l’estate in Toscana per scrivere, basandomi sulle loro approfondite informazioni, La storia che li ha visti protagonisti dall’altra parte dell’Atlantico.

25 aprile 1911 ore 10 antimeridiane Rapallo

Ho passato l’estate del1907 ospite di lord Wilmore, in Maremma, a mettere sulla carta i fatti raccontati da lui e da milady. Il libro, edito per i tipi dell’editore Bemporad di Firenze nel 1908, ha preso il titolo Sulle Frontiere del Far-West ( Memorie di un lord inglese a caccia di

coguari e bisonti). Dopo l’immediato successo nella penisola italiana è stato subito tradotto in

Gran Bretagna ed in Francia ed in altre nazioni europee tra cui la Russia. Nel 1909 ha visto la luce il testo che considero più importante grazie al suo tentativo di raccontare la vera storia delle tribù indiane imprigionate e distrutte dai bianchi affamati d’oro e terre da occupare arbitrariamente, senza tenere in nessun conto le esigenze dei primi abitatori. Ho volutamente intitolato questo lavoro decisivo La Scotennatrice ( Minnehaha e la tragica fine del Popolo dei Sioux ). Il libro, presto giunto negli Stati Uniti nella sua versione inglese, ha suscitato roventi polemiche, tra i reduci delle guerre di frontiera. Il capitano Devandel, ormai in congedo, ha scritto lettere infuocate a diversi giornali statunitensi. Sono stato definito di volta in volta lacchè di lord Wilmore e della sua concubina pellerossa, spregevole scribacchino, bugiardo matricolato, infame denigratore della memoria del condottiero di Little Big Horn.

A tale punto lord Wilmore ha preso la decisione di tornare in America a dire, senza mezzi termini, la sua opinione su tanta faziosità, ed ha voluto che lo seguissi. Siamo partiti dal porto di Southamtom con il piroscafo Lusitania, inseguiti da frotte di giornalisti interessatissimi alla vicenda. Le vendite di La Scotennatrice hanno subito un’impennata vertiginosa. A New York diverse testate meno condizionate dal mito del Far-West hanno pubblicato cose a noi favorevoli.

Nel documento Carlo Bordoni (pagine 50-53)