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INTORNO AL METODO DI SCRIVERE STORIE DEI FATTI ECONOMICI

(Nota al libro di Um b e r t o Ric c i: L a politica econom ica d ell’ Italia du­ rante la grande guerra, Bari, Laterza, 1939- Un voi. in 8° di pp. 363).

Questo libro, uscito in seconda edizione a 18 anni di distanza dalla prima, con titolo modificato (il titolo originale era: Il jallim ento d ella politica annonaria in Italia), per non porre in risalto « un intento polemico che non era in me » come dice l’autore, si richiama — alla vigilia di una seconda « grande guerra », quella che oggi attraversiamo — all'utilità di « rievocare gli insegnamenti della storia » anche se « gli errori del passato, giova sperare, non si ripeteranno ». £ caratteristico infatti di una scienza eminentemente pratica come la scienza eco­ nomica, e pratica anche nella sua forma teorica che le è inscindibile, cercare nel passato non tanto la comprensione di questo passato, quanto l’insegnamento di errori da evitare, quasi la storia fosse veramente, in quel senso, magistra vitae. In realtà la scienza economica, conformo al suo carattere teorico, anche sotto l'apparenza di problemi storici, ricerca quei « principi di applicazione universale » che sono lo scopo e l’essenza dell’indagine economica.

Il pubblico e gli studiosi devono perciò essere grati al Ricci di questa se­ conda edizione del suo libro che, immergendoci nei problemi annonari dell’altra guerra, nelle loro difficoltà e nelle loro soluzioni, buone o cattive che fossero, ci rende più chiari i problemi dell’oggi e, in quello che i vari problemi hanno di comune, può valere di guida.

Il titolo originale rivelava però più chiaramente dell’attuale l’origine e lo scopo del libro, poiché esso ha veramente un intento polemico e di critica acerba a tutta la politica annonaria seguita dal governo italiano durante la passata guerra ed esprime una difesa della libera iniziativa e degli scambi liberi contro l ’inter­ vento dello stato e della burocrazia per la « distribuzione dei viveri e la deter­ minazione dei prezzi di acquisto » in tempo di guerra. Ma forse per questo stesso intento polemico pare manchi del necessario approfondimento teorico, onde

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i suoi ragionamenti, anche quando ne possiamo accettare la conclusione, non rag­ giungono una validità generale, poiché partono piuttosto da premesse politiche,

che da premesse scientifiche.

Parrebbe quasi che 1* autore per paura dell’ accusa cosi spesso rivolta dai « pratici », di essere un « teorico astratto » abbia dimenticato che in fin dei conti solo la teoria ci può dare una guida nel campo della pratica, e che i libri popolari della nostra scienza sono tali non perché da essi è assente la teoria, bensì perché in essi è contenuto un profondo germe teorico. I meriti di questo libro li trove­ remo piuttosto in qualche studio di problemi particolari, e nel renderci vivida­ mente presenti i pericoli che sono sempre impliciti nell’intervento dello stato in materia economica.

L’ assunto del Ricci è semplice : dimostrare come la burocrazia sia incapace di intervenire nelle cose economiche senza provocare danni più gravi di quelli ai quali voleva porre rimedio. Per ovviare agli alti prezzi essa crea, coi calmieri e le requisizioni, due mercati : uno ai prezzi di calmiere e l’altro, nascosto, a prezzi più alti, sino a che col diminuire della produzione provocata dall’intervento buro­ cratico, di fronte alla scarsità dei prodotti anche i prezzi di calmiere crescono più di quanto sarebbero cresciuti se la burocrazia non fosse all'inizio intervenuta, men­ tre la domanda per i beni surrogati (e quindi i loro prezzi) aumenta fuor di pro­ porzione. Il tentativo di abolire gli intermediari (importatori, grossisti, ecc.), di­ sconoscendo la loro funzione economica di veri e propri produttori e le loro capacità tecniche, porta alla creazione di un « catafalco burocratico » costosissimo ed incapace, fonte di sperperi e distruzioni che l'iniziativa privata sarebbe riuscita ad evitare. La lotta contro gli « speculatori », ossia contro quei produttori che esercitano « il mestiere del rischio », dimenticando che i loro guadagni sono una conseguenza e non la causa degli alti prezzi, induce la burocrazia, che il bilancio dello stato nella sua anonimità difende contro i rischi commerciali, ad acquistare spesso a prezzi più alti del necessario, sopratutto quando non si tratti di materie prime agricole, ed a vendere a prezzi alti anche quando in un mercato libero essi dovrebbero ribassare. Al costo finanziario ed al danno sociale di una simile situa­ zione si aggiunge infine qualcosa di più grave e di più doloroso, poiché « i fe­ nomeni dell’ingerenza economica e della corruzione sono interdipendenti » (p. 346). «M entre lo stato perseguitava i commercianti genuini con una feroce legi­ slazione di guerra, promuoveva indirettamente la nascita di una orribile genia di imbroglioni e trafficanti. Costoro, insinuandosi nei ministeri, sfruttando amicizie, pagando e promettendo compensi di vario genere, procuravano commesse di stato ai fornitori, strappavano licenze di importazioni e di esportazioni, facevano vendere le merci governative a prezzi ribassati, o si arrabattavano ad allargare a prò di pochi le maglie di quel fitto tessuto di leggi decreti ordinanze circolari ecc. » (p. 337). Né gli organi dello stato e dei comuni « sempre hanno dato prova di civismo, anzi hanno talora fatto rimpiangere i vampiri del commercio », mentre, nei casi mi­ gliori, « si spiega che la corruzione trovi la strada facile tra impiegati miseri cir­ cuiti da persone facoltose, le quali chiedono cose apparentemente innocue, come una piccola formalità burocratica da saltar via. Tante volte il favore non sembra favore » (p. 338). Il risultato è che la gestione annonaria diventa il regno di quei

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«parassiti della produzione, pullulati durante la guerra: intermediari, sollecitatori, avvocati », il cui interesse personale, contrastante con l'interesse generale, è « che la legislazione diventi sempre più arruffata » (p. 348).

Sono cose vere, documentate ed espresse con una critica serrata che non lascia dubbi e fa stringere il cuore al pensiero di tanto spreco mentre la fame era alle porte, di un costo cosi ingente che aggravava lo sforzo finanziario già immane, e della turpitudine morale che è il retaggio di una burocrazia corrotta.

Bisogna leggere il bel libro del Ricci per vedere sino a qual punto si sia spinta l ’assurdità di una legislazione improvvisata, giunta coi divieti interni di esportazione a frantumare la conquista più salda dei tempi moderni, lo stato uni­ tario, rinfocolando gelosie municipali e regionali. « I divieti di esportazione da provincia a provincia di colpo ci hanno trasportato nel medioevo. Succede di molte disposizioni escogitate dai governi durante la guerra, che sembrano al pubblico nuove e fiammanti e sono vecchie tarlate e abbattute: rimesse in piedi non si reggono se non a stento e cagionando guai » (p. 41). N é la burocrazia è stata capace di vedere l'assurdità di quei divieti interni per cui il principio stesso del razionamento « attuato allo scopo di parificare, in tema di commestibili, la nazione italiana ad una sola famiglia, ove sparisse la distinzione fra ricchi e poveri e tutti potessero trovare sul desco una porzione piccola, ma pressapoco uguale, delle più essenziali vivande » viene contrastata dai divieti di esportazione fra provincia e provincia « ispirati al criterio diametralmente opposto di innalzare barriere e con­ tendere al vicino i prodotti della propria zona » (p. 42).

Sin qui non si può non convenire col Ricci, poi che queste sono verità che la scienza economica ha dimostrato sin dai suoi inizi. Eppure si esce dalla lettura di questo libro con un senso di incertezza, appunto perché l’autore è stato tra­ sportato dalla propria posizione polemica e dalla propria critica, pur così convin­ cente, a voler dimostrare troppo. Verso la fine del libro pare che se ne accorga egli stesso, e pone sulle labbra di un ipotetico lettore la domanda: Che cosa avreste fatto? «Sareste forse per la libertà assoluta anche in tempo di guerra?». A cui risponde: « C h i ha letto con attenzione deve aver capito che gli economisti non reclamano la libertà assoluta » (p. 313).

In realtà l ’autore non ha tenuto distinto due dimostrazioni che sono solo in apparenza sim ili: l’una che riguarda i pregi del libero scambio e della libera ini­ ziativa nei confronti dell'ingerenza dello stato nelle cose economiche, l’altra relativa al modo con cui deve condursi la ingerenza dello stato, e quindi la critica ad un eventuale metodo errato, nelle occasioni e nelle sfere in cui tale ingerenza sia stata dimostrata necessaria. Sono due cose ben diverse e non vale rievocare le virtù della libera iniziativa a provvedere agli elementi essenziali per la vita e rinnovare le critiche alla burocrazia (come se molte imprese private non fossero terribilmente burocratiche anch’esse e corrotte), se non si dà la dimostrazione che in tempo di guerra la libera iniziativa avrebbe evitato prezzi altissimi per i prodotti più neces­ sari, e la fame per gli strati più poveri della popolazione meglio di quanto non sia

riuscita a farlo la burocrazia con le requisizioni, i calmieri ed i tesseramenti. Se questa dimostrazione non è compiuta, è un errore logico opporre alle malefatte della burocrazia i vantaggi generici della libera iniziativa, mentre poi

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in realtà ci si limita a criticare una data forma di organizzazione burocratica per proporre un’altra forma di organizzazione, burocratica anch'essa ma più svelta e competente. Le peggiori forme burocratiche negli esempi che questo libro ci dà, gli errori c gli assurdi economici più gravi si ritrovano neH'amministrazione del­ l'esercito (sopratutto nei riguardi dei viveri), per le requisizioni arbitrarie e a casaccio e gli sprechi che ne derivarono. Ma con questo non si è dimostrata la necessità di abolire l'intendenza degli eserciti, sì d'organizzarla meglio: esistono eserciti rapidi e bene organizzati che vincono le guerre e, nonostante tutto, nel 1918 l ' Italia vinse la guerra. Sarebbe stato prezzo dell'opera indagare se alla vittoria non abbia contribuito, dopo la crisi dell’autunno del 1917, una migliore organiz­ zazione dei servizi di approvvigionamento dell'esercito.

Sono cose che il Ricci naturalmente vede e anche dice qua e là, ma come a malincuore e di sfuggita. L'intiero capitolo quinto vorrebbe invece dimostrare come « il razionamento incita la nazione a un maggior consumo delle merci razio­ nate e dei surrogati loro » e come « per talune merci il consumo effettivam ente si accrebbe » (p. 20). Sarà vero?

Questa dimostrazione è tentata sopratutto per il frumento, ma l'autore stesso non ne pare troppo convinto se ammette che le cause di questo accrescimento del consumo « non sono certo tutte imputabili al sistema razionatone », mentre le sta­ tistiche che egli stesso porta ci danno un consumo medio di 58,3 milioni di quin­ tali nel 1910-15, a cui stanno di fronte 61,6 nel 1915-16, 60,2 nel 1916-17 e 52,3 nel 1917-18.

Come si sarebbero distribuiti in mancanza del tesseramento quei 52 milioni di quintali del 1917-18, una volta detratta da essi la quantità notevolissima neces­ saria all'esercito, il Ricci stesso ce lo può dire: un enorme aumento del prezzo del pane e della pasta, l'uso abbondante di quei generi di prima necessità da parte dei ricchi, la fame per i poveri. Nelle statistiche portate dal Ricci, come si vede d'altronde anche dai dati sopra riportati,"il consumo medio del quinquennio 1915-20 è superiore al consumo medio del 1910-15, ma in esso viene incluso da un lato anche il periodo immediato del dopo guerra, in cui è naturale che i consumi aumentassero rapidamente ora che gli oceani erano aperti ai traffici, e si faceva sentire la tendenza all’aumento nei consumi sempre presente in un popolo che progredisce materialmente; mentre per gli anni della guerra bisogna tenere pre­ sente l’enorme consumo dell'esercito. Erano gli anni gravi dal '16 al '18 che bisognava prendere in esame per studiare la politica annonaria, perché per essi, e non per i tempi normali, è stato appunto introdotto il tesseramento.

Che di per sé il razionamento sia causa di sprechi e anche, talvolta, di consumo eccessivo è certo; non è data però la dimostrazione che questo sia un fat­ tore essenziale in confronto ad altre cause ben più rilevanti : il consumo dell’esercito e l ’aumento di ricchezze che la guerra ha portato in alcuni strati della popolazione — nei riguardi di questi consumi elementari entrano nel calcolo gli alti salari degli operai specializzati ed il maggiore consumo dei contadini arricchiti per varie vie — ; mentre l’aumento di consumo in alcuni generi alimentari è spesso solo un com­ penso per altri che sono venuti a mancare. Anche se non si vuole negare la possi­ bilità che il tesseramento, se applicato male o fuori proposito, induca ad aumenti

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di consumo (come pare sia avvenuto nella scorsa guerra per lo zucchero), per il timore che ognuno ha di « perdere » la propria razione, si può pure pensare che se non ci fosse stato il tesseramento la domanda per alcuni generi succedanei di consumo, e quindi i loro prezzi, sarebbero cresciuti molto di più di quanto non lo siano stati in realtà. Nello stesso modo non si può attribuire esclusivamente all'intervento governativo la diminuita esportazione, o l’aumentata importazione, dei latticini, quando il Ricci ci dimostra che il patrimonio zootecnico della nazione era diminuito ancora più di quanto le statistiche non lasciassero apparire.

In realtà a leggere questo libro si ha l ’impressione di trovarsi di fronte ad un capitolo isolato e si vorrebbe concatenare questo, essenzialmente critico, con gli altri capitoli, che si vorrebbe leggere, del libro compiuto.

Se si ammette che il governo doveva fa re qualche cosa (vedi p. 233), ma si critica il m odo con cui fu fatto, perché non partire da questa premessa e dimostrare chiaramente dove e come il governo doveva intervenire? Hanno poco scopo, a questo riguardo, l’elogio della libera iniziativa, che può essere ottima in altri tempi, con cui il libro si apre, e l'elenco dei danni morali e materiali che il tesseramento comporta, arbitrario ed ingiusto come esso è necessariamente.

Durante una guerra i prezzi dei generi alimentari, poiché di questi sopratutto si tratta, salgono per una cresciuta dom anda, — spesso inflazionistica, ed abbiamo qui un ulteriore elemento di cui il Ricci però non tratta che di sfuggita, — so­ pratutto da parte dello stato onde provvedere ai bisogni dell’esercito superiori sempre, almeno nei paesi a basso tenore di vita, ai consumi dei singoli soldati in tempo di pace, e per una dim inuzione della produzione (o delle importazioni) dovuta al fatto stesso della guerra — si pensi solo al richiamo alle armi di milioni di lavoratori agricoli — e non attribuibile sin dall’inizio ad errata politica gover­ nativa, che alla peggio solo aggrava la situazione. C assurdo indagare la politica economica di un paese in guerra se non si tiene conto fondamentale di questi due elementi, che sono poi quelli che inducono la burocrazia ad intervenire, con tutti i danni che questo intervento comporta.

Non bisogna attribuire alla burocrazia un animo peggiore di quello che esso ha, e credere che per il solo fatto della guerra, e senz’altro motivo, essa si decida ipso facto ad intervenire nelle cose economiche. In realtà una critica accu­ rata della politica annonaria durante la grande guerra 1914-18 rivelerebbe proprio il contrario: che il difetto di questa politica è stato proprio di intervenire troppo tardi a guerra avanzata, quando già le scorte erano esaurite, invece di provvedere fin dall’inizio, e di intervenire senza un piano organico a lunga scadenza, preparato in precedenza. La burocrazia avrebbe così peccato essenzialmente di ottimismo in­ giustificato e di impreparazione. Passano così in seconda linea i difetti, che il Ricci vede acutamente, ma che sono meno importanti di fronte a questi fondamentali, di non essersi cioè affidati, per la parte esecutiva, che troppo raramente a persone competenti e capaci, invece che a giornalisti ed avvocati improvvisati, e di essere intervenuti troppo spesso anche in materie che si potevano lasciare alla libera ini­ ziativa, per quanto è dubbio come questa avrebbe funzionato in pratica nella situa­ zione psicologica creata dalla guerra, elemento di grande importanza, mentre la

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senza dell'esercito come acquirente in massa cambiava fondamentalmente i termini del libero scambio.

Vi è in realtà un ulteriore elemento fondamentale, ed il Ricci lo indaga e ne vede i pericoli, per quanto si desidererebbe lo avesse svolto in modo più ampio, che basterebbe da solo a far parlare di « fallimento » per una politica annonaria che lo trascuri : l’interdipendenza d i tutti i prezzi tra d i loro. Lo studio della rela­ zione reciproca dei prezzi in un regime di produzione privata sta al centro della teoria economica, ma è troppo spesso ignorato o trattato del tutto ad arbitrio dalla burocrazia di una gestione annonaria. E tutta la politica economica degli anni 1914-18 ha mirato per ragioni politiche a tenere i prezzi dei prodotti agricoli estremamente bassi, per « punire » i contadini « esosi », scoraggiando la produzione, mentre più sarebbe stato necessario incitarla.

Ché si possono, durante le guerre, arrestare i grossisti che pagano le uova a un prezzo maggiore di quello dei calmieri, per rivenderle naturalmente a prezzi più alti ancora, e vengono cosi chiamati « ingordi » speculatori, si potrà anche avere in questo modo per un momento « l'illusione dell'abbondanza » (p. 23), ma alla fine si vedrà che le massaie rurali finiranno per non portare più uova sul mercato. Infiniti sono gli esempi, tra il 1914 ed il '18, che il Ricci ci porta dell'as­ surdo economico e morale di interventi arbitrari, con danno cosi dei produttori come dei consumatori, e di prezzi fissati a capriccio, arricchendo i meno meritevoli ed impoverendo risparmiatori e lavoratori.

Per intendere pienamente la situazione economica della passata «grande guerra » non dobbiamo però dimenticare che per far fronte alle necessità dell'eser­ cito non si conosceva allora che il metodo primitivo delle requisizioni, retaggio di guerre brevi e di eserciti piccoli. Cosi anche per questo riguardo la mancanza di preparazione si rivela caratteristica di tutta la politica annonaria fra il 1914 ed il '18.

Che poi, anche in un piano organico e preparato in precedenza, molto si do­ vesse lasciare alla libera iniziativa dei cittadini invece di procedere ad una burocra­ tizzazione quasi assoluta, è dimostrazione in cui il Ricci riesce perfettamente con­ vincente, sopratutto per i consorzi, che ricordano le vecchie « compagnie » coloniali, i cui guadagni sono sicuri ed ingenti, poi che i due prezzi, di acquisto e di vendita, sono fissati dal consorzio stesso. Ma sa d'ironia il tema continuo di « lasciare agire il prezzo libero », proprio quando si afferma nel tempo stesso che « il prezzo libero raggiunge tuttavia l’equilibrio scartando le schiere dei consumatori che non arrivano a pagare il prezzo di equilibrio »> (p. 83). £ appunto il sorgere delle « quasi ren­ dite », create dal formarsi di una nuova curva di domanda, di fronte ad una offerta diventata inelastica, che lo stato circa di impedire col suo intervento, permettendo così una diversa distribuzione dei beni, che includa anche « l e schiere dei consu­ matori » che altrimenti verrebbero « scartate ».

Certo « le gerarchie tra ricchi e poveri in parte sono restate, a dispetto delle leggi che volevano abolirle, in parte sono state soppiantate da altre gerarchie» create in gran parte dal « favoritismo politico » e, cosa peggiore di tutte, tali da incitare alla corruzione, sopratutto quando chi ha il controllo dell’annona, e quindi la cura della cosa pubblica, vi ha pure un interesse personale diretto. Resta a vedere

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però, con tutti questi difetti evitabili o inevitabili (la corruzione è un fattore morale e può esservi anche dove la concorrenza è libera), come le cose sarebbero andate senza l'intervento dello stato. C compito della scienza economica, e non della sola teoria, procedere alla determinazione delle premesse necessarie per questa indagine e non limitarsi a dire, come fa il Ricci capovolgendo un ragionamento popolare, che «essendosi abolito il commerciante privato non si può dimostrare che egli, lasciato libero o più libero, si sarebbe mostrato impari al compito » (p. 148). In

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