1 1 I NIZIANDO CON V ICO
1.1.2. Intrecciando la lettura delle due opere (La scienza nuova e l’Autobiografia) Said cerca di mostrare una sorta di fenomenologia della volontà, ovvero il modo in cui essa viene a
manifestarsi29. Partendo da un etimo del termine “autorità”, oggi non più accettato, che lo fa risalire al pronome greco “auton”, viene riportata l’affermazione che Vico fa ne La scienza nuova sulla qualità che costituisce nel modo più specifico la mente umana: «il libero uso della volontà, essendo l’intelletto una potenza passiva soggetta alla verità», che poco più in là è chiamato anche «conato propio degli agenti liberi»30. L’atto di imparare che è l’inizio autodidatta di Vico è così letto attraverso la categoria della volontà (o del conato) dal momento che «quando qualcuno impara qualcosa, prima effettua un atto di volontà, poiché soltanto intendendo o volendo imparare, egli può imparare» (B, 358)31. Da quest’atto specifico ed elementare deriva successivamente la capacità di distinguere l’oggetto della volontà dalla volontà stessa – e questo sarebbe il momento della «conscienza» – mentre in seguito quando per induzione la volontà è compresa attraverso l’intelletto, come un principio che sistematicamente guida l’azione, si giunge sul piano riflessivo della «scienza».
Quello che, sulla scorta di Vico, Said ci presenta in queste pagine come una sorta di fenomenologia della mente, rende possibile intrecciare i due percorsi della ricostruzione, fungendo da un lato come modello dell’evoluzione di Vico, inteso come pensatore individuale il cui percorso particolare si svolge diacronicamente, mentre dall’altro lato serve come schema generale in grado di comprendere la storia degli uomini. Tuttavia, questo secondo profilo non è esaminato in base ad una successione temporale come il primo. La mente di cui parla Vico, che in questo caso segue una tradizione che risale almeno a Platone, garantisce una omologia strutturale per cui il microcosmo di una mente individuale illustra il macrocosmo delle azioni degli uomini prese nel loro complesso (la storia). Probabilmente l’affermazione che si è in precedenza citata in apertura di Beginnings per cui essi sarebbero «più una struttura che una storia» deve essere messa in relazione a queste pagine. Essa nasce da un’erudita osservazione su una credenza che da Platone in poi, presso tutti gli uomini e in tutte le epoche, si troverebbe continuamente: quella dell’«idea
29 Said si era occupato di Vico come umanista e dei processi di autoedificazione di sé relativi nella sua formazione sin
dal 1967. E. Said, Vico: Autodidact and Humanist, in Centennial Review, Summer 1967, pp. 336-352.
30 G. Vico, La scienza nuova (1744), Libro II, cap. II, § XXIV; il seguente passo è citato da Said in B, 358.
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della mente dell’uomo». Questa, come già detto, in quanto universale, diventa un principio di comprensione della storia, dal momento che ne è ritenuta una struttura invariante, almeno nelle sue linee generali e tenendo conto delle diverse forme in cui appare. Tuttavia,
«quando questa idea è considerata temporalmente […] diventa storia narrativa (narrative history) […]. Dal momento che l’idea è un’idea della mente dell’uomo, e visto che persiste in differenti forme, un vero storico può guardare la storia – che l’uomo fa – dalla prospettiva di un’eterna, sempre presente, interna (inner) persistenza. La storia diventa così la mente considerata come struttura sincrona (una persistente architettura ideale), in quanto forma interna (inner) dell’attività dell’uomo, ma anche come modalità diacronica, soggetta a modificazioni temporali, o come continuità sequenziale: soprattutto però è necessario comprendere che la storia non è esclusivamente né l’una né l’altra» (B, 361)32.
Questa oscillazione tra struttura e storia probabilmente pone più problemi di quanto ne risolva cercando di tenere assieme dei percorsi fondazionali differenti; essa tuttavia delimita un campo all’interno del quale collocare la nozione di inizio in base al contesto teorico a cui si riferisce. In tutti casi però la discussione sulla mente – a questo livello metateorico – diventa l’elemento comune sia alla storia di Vico (Autobiografia) sia a quella degli uomini (La scienza nuova) proprio nello stesso momento in cui ne determina limiti e funzioni. Rispetto al concetto di “mente” quello di “volontà” si costituisce come il principio attivo per eccellenza, contrapposto a quello riflessivo il quale, se si segue alla lettera il ragionamento vichiano, si applicherebbe soltanto successivamente, in un modo geneticamente derivato, nonostante ciò Said afferma in modo caratteristico:
«Quello che Vico sta provando a descrivere è la mente nel suo doppio aspetto di conato attivo (o volontà) e intelletto riflessivo. Credo si possa descrivere meglio tutto ciò come azione mentale volontaria simultaneamente riflessa» (B, 359).
Ciò che incuriosisce è la necessità che Said sente di collocare sullo stesso piano “genetico” momenti che sono diversi, almeno a livello di un discorso fondazionale. Si può congetturare che Said stia cercando di riscrivere l’atto irriflesso di volontà entro una cornice in cui esso si svolge unitamente ad un momento riflessivo al fine di legittimarne la natura di principio teorico e metodologico, anziché indicare soltanto una antecedenza fenomenologica. Questa fase di fondazione del pensiero vichiano è giustamente messa in relazione con il cogito cartesiano, che Vico accoglie ma in modo soltanto parziale. Se infatti è accettato il processo di autoaccertamento che parte dall’esperienza sensibile per approdare all’unica vera certezza dell’“io”, è comunque rifiutata non solo la natura esclusivamente pensante di questo “io”, ma anche il suo ricorso alle verità eterne garantite da Dio, che consentirebbero al soggetto la possibilità di conoscere la natura esterna. Said si sforza di dimostrare attraverso Vico che partendo dalla percezione, attraverso un
32 L’aggettivo “inner” che si è tradotto con “interna”, allude di certo anche ad ulteriori sfumature come “profonda” o
“intima” che gettano luce su quanto tale idea eterna sia radicata nel soggetto come una sorta di costante antropologica. Tuttavia il suo status oscilla sempre tra invenzione e prodotto della stessa mente dell’uomo; condizione di pensabilità della mente dell’uomo e di tutto il suo universo simbolico e culturale; e infine come principio ontologico e metafisico.
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atto reiterato di riflessione, si arriva da una parte a scoprire la natura volitiva dell’io e dall’altra alla conclusione che la realtà esterna resta impenetrabile, visto che il mondo esterno non può dipendere nella sua sussistenza da un atto di volontà umana.
Per Said il confronto tra l’umano e il divino consente a Vico di fare un passo in più riguardo al primato della volontà, mostrando che tipo di azione e di mondo essa implichi. Dio nel momento in cui (sin dall’inizio) vuole cogliere se stesso come entità, crea ipso facto, da ens realissimum qual è, anche il mondo naturale; così non è per l’uomo, sebbene anche per lui l’atto di autocoscienza implichi ugualmente creazione. La differenza consiste nel fatto che la natura di questa creazione è differente da quella divina, ovvero è una creazione culturale o spirituale. Da questo ragionamento scaturisce, come è noto, la teoria del verum ipsum factum. Tuttavia è da notare che in qualunque caso l’inizio peculiare dell’essere umano si presenta sempre come un triplice momento fatto di percezione, volontà e creazione. Ma in questa maniera la volontà non può essere intesa a pieno come inizio, dal momento che essa è innescata dalla percezione – sebbene essa sia successivamente elaborata culturalmente (creazione) attraverso la volontà.
Per comprendere la natura complessa dell’inizio occorre richiamarsi all’analogia con la storia degli uomini e con il loro inizio. I bestioni che caratterizzano il pre-umano iniziano a creare volontariamente solo a partire dal trauma che un evento come il fragore del fulmine produce su di loro. L’inizio quindi sembrerebbe partire dalla paura o dalla meraviglia piuttosto che dalla volontà e dall’istanza creatrice33. Ma si può anche sostenere che pure i bestioni hanno paura ma che soltanto quando varcano la soglia della volontà e della creazione essi entrano in un regno caratteristicamente umano. Tutto dipende dal considerare l’inizio come una situazione, un evento, un passaggio da uno stato in cui si è in un mondo ad uno stato in cui si è in un altro mondo, dunque come trasformazione, oppure invece, considerare l’inizio come il primo evento-azione specificamente umano visto che viene effettuato proprio dall’“uomo”. In discussione è la frontiera uomo-animale e i modi in cui trattarla teoricamente. Said, forse ancor più che Vico, tende a vedere l’inizio come evento-azione. La strada che viene teoricamente percorsa sembra la stessa che parte dai pitagorici e passa per Platone: l’umano si costituisce come tale quanto più si separa dal corpo.
Un siffatto modo di concepire la volontà come inizio specifica la produzione di senso in quanto scelta intenzionale, ove l’intenzione è ritenuta essere l’atto volontario di inizio che intende o crea un significato. Inizio, volontà e beginning intention sono connesse nella medesima operazione, quella di creare un mondo specificamente umano. Ma quali sono i limiti e le caratteristiche di questo mondo? Di certo tale inizio non può pretendere di creare la natura, la produzione a cui si fa riferimento è solo spirituale e culturale, anche se Vico nota, criticando i
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cartesiani e i materialisti, che gli uomini hanno sempre cercato di pensarsi autori della natura, almeno attraverso la penetrazione delle sue intrinseche legalità. Nondimeno, il mondo degli uomini non può che essere quello delle istituzioni e della storia (che implicano quel momento orizzontale di cui si è già parlato, ma che adesso non rientra nell’economia del discorso vichiano):
«A causa della sua umanità, l’uomo continua a volere, e il suo intero universo è così da lui creato; tuttavia il suo universo è il mondo delle istituzioni e della storia, che attesta uno degli infiniti fallimenti nel creare un mondo dotato di un ordine sequenziale e permanente» (B, 362).
In aggiunta a ciò la creazione del mondo dell’uomo, delle istituzioni e della storia è presentata da Said come qualcosa di “fantastico” o “di finzione”. Tale caratteristica viene a profilarsi mediante la trasposizione della dottrina geometrica (opera creata ugualmente dalla mente umana) su di un registro «metafisico» (a questo punto le virgolette hanno il loro peso trattandosi in fondo di finzione). Proprio come in geometria vengono posti dei punti di inizio ipotetici a partire dai quali le altre linee possono essere tracciate34:
«in termini metafisici si può porre un punto di inizio che non è né interamente spirito [mind] (o astrazione) né materia [matter] (concreto). Il cosiddetto punto metafisico diventa così conato – quello che è stato chiamato in questo libro beginning intention – che nella storia è la volontà umana, compresa sia temporalmente che assolutamente» (B, 361).
Questa creazione dotata dello statuto di finzione è stata, non senza ironia, chiamata da Hayden White una «seconda natura», e ritenuto il punto in cui il ragionamento di Said si farebbe più ambiguo35. Infatti, se bisogna considerare finzione ogni creazione umana, non si comprende come si debba dare più importanza a un ordine fondato sul principio di adiacenza anziché a quello dell’origine sacra – dal momento che entrambi non sarebbero altro che finzioni. Una risposta potrebbe essere che l’origine sacra impedisce alla volontà di iniziare, ovvero di divinare e di inventare le proprie origini e dunque di iniziare da capo36. Il problema, cercando di rispondere all’interrogativo di White, non sarebbe allora di carattere sostanziale ma di carattere funzionale, ovvero, posta la natura di finzione di entrambi gli ordini, quello dell’adiacenza permetterebbe un’apertura che il primo non consentirebbe. Il principio della volontà e dell’inizio sarebbe quindi assicurato nella sua attività e per questo, pur restando finzione, sarebbe da preferire, e ciò anche tenendo conto di tutte le conseguenze pluralistiche e di dispersione che ciò comporta.
Tuttavia nell’aver chiamato il mondo delle umane istituzioni “seconda natura” vi è implicito un paradosso che neanche White esplicita abbastanza. L’inizio è posto, come si è notato sopra, sotto il segno della volontà che crea il suo mondo culturale (l’analogia con la divinità ha qui un suo peso rilevante, esso porta con sé un modello di creazione ex nihilo che produce diverse
34 Essendo ogni linea comunque scomponibile in punti infinitesimali e indivisibili da cui si potrebbe ad ogni modo
sempre iniziare.
35 H. White, Criticism as Cultural Politics, op. cit., p. 12
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difficoltà quando è trasposto su un piano antropologico). La volontà non è solo all’inizio, ma è ciò che dà inizio, tutto quello che si chiamerà umano ha origine da essa. La volontà non è mai passiva, si caratterizza sempre come principio attivo tanto nell’invenzione che nell’auto-disciplina di un metodo. L’inizio così – sotto l’egida della volontà – non può che escludere la percezione, la sensazione, il corporeo, poiché essi sono prima dell’umano inteso come il regno della creazione libera.
Se l’inizio tenesse invece conto del fatto che la volontà potrebbe essere disposta da una situazione in cui il suo potere creativo è in qualche modo limitato dall’essere-ancora-in-parte-animale, tale inizio non sarebbe più quello della volontà. La volontà può dare inizio solo perché si è messa alle spalle il mondo animale, il corpo, la sensazione e questo non perché li ha dimenticati – né Vico né Said evitano di affermare che la percezione rimane «la sostanza del pensiero» (B, 364) – essi semmai sono stati invece hegelianamente aufgehoben, sussunti e superati nell’atto creativo della volontà. E ciò che è così stato assimilato non conserva alcun potere di perturbare la volontà e la sua forza creatrice. Sembra apparire in controluce quella convinzione a cui si è già fatto cenno che da i pitagorici e Platone, passando per lo stoicismo arriva almeno fino a Kant, per cui il corpo, la parte animale dell’uomo o viene abbandonata oppure deve essere sottomessa alla volontà. Essa è il primum, il corpo è il rimosso o ciò che deve essere rimosso. In questo punto Said probabilmente si distacca anche da Vico, che conserva sempre la consapevolezza che la natura tropologica dell’attività simbolica presume ancora una presenza fondamentale della parte sensibile, quella più vicina alla paura che ha spinto “il primo uomo” a istituire un ordine culturale. Per Said invece la volontà sembra divenire un principio che non scende a patti con l’eterogeneità che l’attraversa.
Sebbene Said riconosca che la conoscenza derivi dall’osservazione – ovvero il punto di contatto con il corporeo – essa è comunque interpretata come derivata dalla volontà intesa non solo come appetito o desiderio di un corpo, ma anche come l’inizio del simbolico:
«La certezza implica conoscenza che deriva dall’avere osservato, e l’osservazione implica volontà. Ma la volontà è praticamente (practically) un appetito e presto si scopre che la volontà intellettuale ha sulla natura solo un modesto effetto. La volontà umana ha, sicuramente, un effetto reale su quello che è intellettuale e umano; inoltre la sostanza del pensiero è la percezione sensibile, che è registrata nella mente, in un modo o in un altro, come immagine (imagery). Gli uomini sono comunque dotati del linguaggio; e il linguaggio poiché è associato alla mente, esprime il risultato della percezione sensibile […]. Ogni atto di espressione rappresenta un atto iniziale di scelta, di volontà poiché producendo un suono l’uomo sta confermando un’impressione sensibile, sta diventando cosciente di essa» (B, 364).
Si potrebbe leggere il testo di Said in modo criticamente contrario alle sue intenzioni forzando il significato di “practically”, leggendolo anziché nel senso di “da un punto di vista pratico”, che quindi colloca l’appetito nel mondo pratico della morale, nel senso di “praticamente” in quanto “quasi” appetito, sottolineando un momento di irriducibilità ed
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eterogeneità rispetto all’universo pratico. Sempre “misleggendo” Said, attraverso il termine “imagery” si potrebbe andare oltre al concetto di “immagine” come equivalente di “impressione” e leggerlo come “figura retorica” alludendo ad un assetto tropologico che precede l’azione della volontà, mostrando il rinvio al linguaggio come esteriorità e anteriorità sempre rispetto alla stessa facoltà volitiva. Tuttavia resta abbastanza singolare che, in questo delicato passaggio sulla genesi della volontà, l’osservazione e la percezione insieme alle immagini siano posti tutti su un piano che sembra comunque precedere le operazioni della volontà. Allo stesso tempo sorge anche un altro problema legato al postulato di una perfetta coincidenza tra il momento della volontà e quello del linguaggio: «il linguaggio poiché è associato alla mente». In tal modo viene sanzionata l’equivalenza tra «espressione» e «atto di scelta», attraverso cui l’espressione come prima esteriorizzazione della volontà guida il momento riflessivo che garantisce l’autoaccertamento della volontà in quanto principio.
Da questo passo derivano diversi problemi teorici: il primo è l’assunto, conseguente a quanto ricostruito da Said, che la percezione, l’osservazione e persino l’immagine siano o avvengano al di fuori del linguaggio, siano de-linguistificate e non implichino perciò la minima attività sintetica. In secondo luogo il momento della sintesi e della conoscenza lo si ha solo per un atto di volontà, ma così lo statuto della volontà diventa ambivalente: bisogna pensare la volontà come momento che genera l’osservazione e la percezione o invece intendere la volontà come reazione e organizzazione di queste ultime? In terzo luogo non si comprende come si debba intendere l’“associazione” tra linguaggio e mente, infatti da un lato verrebbe da pensare che sono coestensivi dal momento che l’atto di scegliere un suono è l’espressione stessa (fatta salva la sua componente fisico-motoria), dall’altro lato invece poco più giù si nota che l’espressione «rappresenta» l’atto di scelta dunque non è coestensiva ma derivata; per di più nel rappresentare la volontà, il linguaggio diviene addirittura il mezzo attraverso cui la volontà non solo agisce ma si autointellegge37.
Quest’ultimo punto soprattutto presta il fianco al tipo di critiche che Derrida muove a Husserl nelle pagine di “La voix et le phénoméne”. Infatti proprio nel momento in cui la volontà vuole costituirsi come inizio, dunque come primum, essa ha bisogno di un medium che consenta questo rispecchiamento, il linguaggio nel nostro caso. In tal modo la volontà finisce per essere derivata dal medium che la fa costituire, essa si fonda dunque mediante un rinvio ad altro. Per di più questo medium non è nemmeno così trasparente e dunque in grado di rispecchiare fedelmente l’immagine del primum, poiché rinvia a sua volta a degli altri momenti ad esso esteriori; nel caso che stiamo esaminando sono ad esempio la natura comunitaria del linguaggio o anche la sua natura sensibile.
37 Poco dopo il passo citato Said afferma anche che «Vico ha scoperto la profonda funzione fondamentalmente
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È chiaro che il concetto di volontà e quello di inizio non provvedono ad unificare il senso a partire da un punto prospettico stabile, la loro attività, come si è mostrato, si svolge nel discontinuo, nell’affermazione dell’adiacenza e nel decentramento di ogni inizio o di ogni atto di volontà; questi atti non ricapitolano alcunché sulla base di qualcosa di permanente ma provvedono a disseminare il senso che producono. Tuttavia il momento in cui la volontà viene fondata come inizio resta ampiamente problematico. E lo diviene sempre di più anche a causa delle improvvise oscillazioni teoriche che il testo di Said presenta, infatti qualche riga dopo il passo che si è poc’anzi citato, in cui sembra chiara la preminenza della volontà rispetto al medium linguistico che la esprime, Said afferma in modo sorprendente che «il linguaggio che un uomo parla, così, produce l’uomo e non l’uomo il linguaggio» (ibid.); e più in là nota «L’incessante attività della mente libera il linguaggio ed è liberata da e nel linguaggio» (B, 369). Il linguaggio allora sembra qualcosa che precede e vincola la mente, la volontà e la creatività dell’uomo; la mediazione linguistica non è solo qualcosa di funzionale, come già si è verificato nella specifica teoria della storia di Vico nelle pagine precedenti.
L’inizio sembra pertanto qualcosa di più simile ad una “situazione” generale in cui sono almeno due i nuclei generatori di significato. In effetti, Said cerca di mostrare, proseguendo la