“La storia, e la narrazione che la rappresenta, mettono in dubbio che una visione generale sia sufficiente, che l’Oriente come categoria ontologica incondizionata non renda giustizia della potenzialità di mutamento insita nel reale” (O, 237).
Nelle pagine introduttive della sua opera più importante, Said elenca tre accezioni del termine “orientalismo”. La prima è di natura accademica e comprende «l’insieme delle discipline che studiano i costumi, la letteratura, la storia dei popoli orientali» (O, 12); la seconda e più ampia accezione riguarda «uno stile di pensiero fondato su una distinzione sia ontologica sia epistemologica tra l’“Oriente” da un lato e [...] l’“Occidente” dall’altro» (ibid.); mentre la terza accezione fa invece riferimento ad un quadro storicamente più ristretto e maggiormente legato ai rapporti di potere. In quest’ultimo caso l’orientalismo è presentato come «l’insieme delle istituzioni create dall’Occidente al fine di gestire la proprie relazioni con l’Oriente, gestione basata oltre che sui rapporti di forza economici, politici e militari, anche sui fattori culturali, cioè su un insieme di nozioni veritiere o fittizie sull’Oriente» (O, 13). Queste tre accezioni come è noto legano in un intreccio inscindibile i meccanismi di formazione del sapere e le modalità di esercizio del potere. Lo strumento metodologico che consente a Said di tenere assieme questi tre livelli è la nozione di “discorso” impiegata da Foucault in opere come L’Archéologie du savoir e Surveiller et punir1.
Nel capitolo precedente ci siamo impegnati a evidenziare come la terminologia foucaultiana presa in prestito da Said sin dalle sue prime opere finisse per discostarsi significativamente dagli obiettivi teorici e insieme politici del filosofo francese. In questo capitolo, analizzando più da vicino le pagine di Orientalismo, mostreremo invece come la peculiare strategia di “mislettura” saidiana sia connessa alle specifiche esigenze poste dall’ingente materiale che Said aveva raccolto sugli atteggiamenti testuali e sulle posizioni politico-ideologiche occidentali nei
1 Come afferma Said: «ho trovato utilissima la nozione di “discorso” [...] ritengo infatti che, a meno di concepire
l’orientalismo come discorso, risulti impossibile spiegare la disciplina costante e sistematica con cui la cultura europea ha saputo trattare – e persino creare, in una certa misura – l’Oriente in campo politico, sociologico, militare, ideologico, scientifico e immaginativo dopo il tramonto dell’Illuminismo» (O, 13).
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confronti dell’Oriente. Il consapevole allargamento della nozione di discorso offerto dalle pagine di Orientalismo, come si è già visto, riguardava innanzitutto il peso e l’importanza attribuita ai singoli autori entro un contesto metodologico che sovrapponeva al discorso inteso strictu sensu una cornice epistemologica che si richiamava alla tradizione e alla storia delle idee. Anziché trattare il discorso come insieme anonimo di enunciati che circolano in funzione di determinati rapporti di forza, incrociando queste differenti opzioni metodologiche Said arriva a concepire la dimensione discorsiva come «un sistema di citazioni di autori da parte di altri autori» in grado di garantire all’orientalismo un certo grado di unità (O, 31-32). A questo proposito James Clifford ha brillantemente argomentato come la teoria del discorso e il lessico della tradizionale storia delle idee, se usati una accanto all’altro, finiscano alla lunga per indebolirsi reciprocamente2. Tuttavia per gettare luce sulla «ibrida prospettiva metodologica» impiegata da Said bisogna individuare da quali problemi derivi la necessità di chiamare in causa quei «singoli autori» che lungi dal restare delle semplici etichette attaccate ad affermazioni discorsive che li trascendono, divengono al contrario un momento centrale dell’indagine condotta in Orientalismo.
Oltre alla nozione di discorso tuttavia, l’opera di Said trae ancora e ulteriormente ispirazione dall’impostazione foucaultiana mostrando programmaticamente sin dall’introduzione un intento genealogico che gli permette di ritagliare il suo oggetto a partire da un presente travagliato da urgenti interrogativi epistemologici e da precise istanze politiche. L’orientalismo in questione «è quindi un sistema di rappresentazioni circoscritto da un insieme di forze che introdussero l’Oriente nella cultura occidentale, poi nella consapevolezza occidentale, e infine negli imperi coloniali occidentali. Se questa definizione dell’orientalismo sembrerà più politica di quanto dovrebbe, sarà perché semplicemente l’orientalismo stesso è il prodotto, più di quanto dovrebbe, di forze e attività di natura politica» (O, 201). Partendo da questo assunto si spiegano parecchie delle linee di continuità e dei momenti di discontinuità che la pratica storiografica di Said dispone lungo tutto Orientalismo, malgrado gli improvvisi slittamenti di piano e i continui mutamenti di registro metodologico. Questo taglio genealogico oltre a differenziare l’impresa di Said dall’impostazione enciclopedica di molti altri moderni studi sull’orientalismo – primo fra tutti la
2 J. Clifford, On Orientalism, op. cit., p. 309. Su questo punto gli studiosi sono schierati su posizioni contrapposte, da
una parte stanno coloro che sostengono che malgrado tutto, l’impianto complessivo di Orientalismo resta foucaultiano. Ad esempio, Gyan Prakash, mettendo in evidenza l’impiego del metodo discorsivo foucaultiano da parte di Said, sostiene che questo approccio gli consente di «frammentare le opere individuali e di disancorarle dai loro sicuri ormeggi alle intenzioni autoriali e agli standard individuali di verità e autorità» in G. Prakash, Orientalism Now, in History and Theory, vol. 34. n° 3 (1995), pp. 199-212. Dall’altro lato, proprio il peso accordato da Said agli autori mostrebbe l’incompatibilità di metodo con il filosofo francese, e dissimulerebbe un’impostazione teorica e metodologica più vicina a Vico e Auerbach da un lato e a Gramsci e Raymond Williams dall’altro. Cfr. R. Bhatnagar, Uses and Limits of Foucault: a Study of the Theme of Origins in Edward Said’s Orientalism, in Social Scientist, vol. 14, n° 7 (Jul., 1986), pp. 3-22; T. Brennan, The Illusion of a Future: “Orientalism” as Traveling Theory, in Critical Inquiry, vol. 26, n° 3 (2000), pp. 558-583.
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Reinassance Orientale di Raymond Schwab – giustifica a suo modo anche le cesure storiografiche della ricostruzione da lui proposta3.
Il problema più immediato e vicino al contesto politico entro il quale un docente universitario come Said era immerso, era chiaramente come l’establishment statunitense diffondesse «implicite direttive ideologiche» mediante un insieme di rappresentazioni degli “arabi” o degli “orientali” che veniva avallato dalle autorità accademiche più prestigiose. Da qui alla legittimazione degli interventi politici e degli «interessi globali» americani nel Medio Oriente il passo è breve. Per lo studioso palestinese questa situazione egemonica, nata alla fine del secondo conflitto mondiale, rimanda tuttavia indietro a quella fase in cui l’imperialismo e il colonialismo erano una questione europea – e più precisamente anglo-francese – quando la formazione di un’autorità orientalista si avvaleva dell’esperienza ricavata dalle «due più grandi reti di domini coloniali mai esistite prima del secolo XX» (O, 26). Se questo stacco tra l’imperialismo anglo- francese e quello statunitense è sembrato a diversi interpreti non molto perspicuo, bisogna ricordare come Said considerasse di estrema rilevanza il periodo di massima accelerazione nell’acquisizione di domini coloniali da parte delle potenze europee. Il critico palestinese fa più volte notare come dal 1815 al 1914 la percentuale dei territori coloniali occupati dagli europei sia passata dal 35% a circa l’85% (O, 47)4. Il legame tra conoscenza orientalista e progetto imperialistico disegna quindi per Said la sua fase “classica” o “moderna” proprio in questo lasso di tempo che va grosso modo dall’invasione napoleonica dell’Egitto e dal corrispettivo studio enciclopedico noto col nome di Description de l’Égypte sino al termine della prima guerra mondiale quando la disgregazione della Turchia, “la malata d’Europa”, poteva ritenersi compiuta5.
Rispetto a questa fase classica in cui gli interessi politici e la produzione di sapere risultano profondamente compenetrati, Said individua una fase enormemente ampia ad essa precedente. Questa sarebbe caratterizzata da una visione orientalista all’opera sin dai tempi di Omero, la quale attraverso un processo che pone in primo piano il peso dell’autorità religiosa giunge fino all’inizio del XIX secolo quando l’orientalismo come discorso comincia a giustificarsi in base a delle pretese di scientificità e si configura conformemente ai progetti di conquista imperiale6. Questa
3 R. Schwab, La Renaissance orientale, Payot, Paris 1950; E. Said, Raymond Schwab and the Romance of Ideas, in WTC, pp.
248-267; sull’importanza di Schwab per Said cfr. D. O’Hara, Criticism Worldly and Otherworldly: Edward W Said and the Cult of Theory, op. cit.. Sulle radici romantiche di questa idea si veda invece quanto Said afferma sul Westöstlicher Divan di Goethe in O, 156-157; inoltre sullo stesso tema, K. J. Fink, Goethe’s Westöstlicher Divan: Orientalism Restructured, in International Journal of Middle East Studies (August 1982), vol 14, n° 3.
4 In PT, 711 Said parla del medesimo fenomeno ma estende questo intervallo di tempo sino al 1918, come anche in
O, 126.
5 Description de l’Égypte, ou Recueil des observations et des recherches qui ont été faites in Égypte pendant l’expedition de l’armée
française, publié par les ordres de sa majesté l’empereur Napoleon le grand, 23 voll., Imprimérie imperiale, Paris 1809-1828.
6 Come chiarisce lo stesso Said: «La mia tesi è che gli aspetti essenziali della teoria e della prassi dell’orientalismo
moderno [...] possano essere compresi solo se considerati non come un’improvvisa fioritura di conoscenze obiettive intorno all’Oriente, ma come un insieme di strutture ereditate dal passato, secolarizzate, ristrutturate e risistemate sotto l’influsso di discipline come la filologia, che erano a loro volta surrogati naturalizzati, modernizzati e laicizzati
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prima fase sembra in effetti non esser messa del tutto a fuoco e, di fatto, ha suscitato non poche perplessità sulle sue scansioni cronologiche, le quali finirebbero per appiattire numerose differenze tra Oriente e Occidente entro una descrizione troppo ristretta7. Nondimeno, l’intento genealogico dello studioso palestinese resta chiaro. Per quanto possano esser registrati dei tentativi enciclopedici di mappare culturalmente l’Oriente a partire da fonti orientali (d’Herbelot)8, per quanto ci siano stati eruditi e viaggiatori che si siano cimentati nel simpatetico tentativo di tradurre parti importanti del patrimonio culturale e religioso orientale (Anquetil- Duperron) e infine per quanto si sia comunque potuta registrare una certa interdipendenza tra le strutture amministrative coloniali e la produzione di sapere orientalista già in un periodo precedente all’ascesa napoleonica (Jones); malgrado ciò, la fase dell’“orientalismo moderno” comincia per Said solo quando nel XIX secolo la conoscenza orientalista, attraverso le relative istituzioni entro cui viene prodotta e disciplinata, inizia direttamente ad allestire una scena che il potere militare, politico ed amministrativo sarebbe andato presto a occupare.
Ma la complicità delle strutture conoscitive con il potere coloniale determina anche un doppio e ulteriore restringimento in senso culturale e geografico dell’ambito di ricerca di Orientalismo. Proprio in ossequio al suo taglio genealogico, Said decide da un lato di non occuparsi degli «importanti contributi all’orientalismo di paesi quali la Germania, l’Italia, la Russia, la Spagna e il Portogallo» in quanto la Gran Bretagna e la Francia oltre ad essere state «nazioni pioniere nel campo degli studi sull’Oriente», sono stati anche gli imperi coloniali più vasti (O, 26)9. Inoltre, dall’altro lato, Said sceglie di mettere da parte estese e importanti zone soggette al dominio coloniale come India, Giappone, Cina e altre regioni dell’Estremo Oriente, concentrando invece la propria attenzione sull’esperienza inglese e francese (e poi americana) nel «mondo arabo e islamico, che per quasi mille anni è stato da molti punti di vista il paradigma di tutto l’Oriente» (O, 24). La genealogia tracciata in Orientalismo individua quindi un segmento privilegiato che costituisce il modello in base al quale si è potuta articolare l’esperienza euro-americana dell’Oriente in funzione delle proprie esigenze geopolitiche.
Ma al di là della formalizzazione del campo di studio non saranno certo le scansioni cronologiche o i ritagli geopolitici di un’opera pionieristica e di ampio respiro come Orientalismo a
del sovrannaturalismo cristiano. Sotto la forma dei nuovi testi e delle nuove idee, l’Est fu adattato a tali strutture» (O, 125).
7 D. Porter, Orientalism and its Problems, in F. Barker, P. Hulme, M. Iverson, D. Loxley, (a cura di), The Politics of Theory,
Colchester 1983, (pubblicazione di un paper presentato all’Università di Essex nel luglio del 1982).
8 B. d’Herbelot, Bibliothèque orientale, ou Dictionnaire universel contenant tout ce qui fait connaitre les peuples de l’Orient, Neaulme
& van Daalen, The Hague 1777.
9 In questo senso Said fa notare che i contributi importanti che ha potuto apportare l’orientalismo tedesco sono in
fondo solo un’elaborazione successiva di quanto avvenuto in Francia e in Gran Bretagna (O, 26). A ciò si aggiunga – sottolinea Said – che «tuttavia non ci fu mai, durante i primi due terzi del secolo XIX, una reale convergenza tra gli orientalisti tedeschi e un interesse nazionale per l’Oriente» (O, 28). Dunque un’altra testimonianza di come a Said non interessi tanto il sapere sull’Oriente tout court, bensì il nesso che tale sapere intrattiene genealogicamente con una specifica serie di disegni politici imperialisti. Per una critica nei confronti dell’esclusione dell’orientalismo tedesco cfr. R. Irwin, Writing about Islam and Arabs, in Ideology and Consciousness, vol. 9 (Winter 1981-82), pp. 102-12.
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costituire gli elementi più determinanti per il suo futuro successo. Lo studio del rapporto tra potere e sapere che matura nel contesto anglo-francese rispetto al Medio Oriente, specialmente dai primi decenni del XIX secolo a quelli del XX, risente del resto meno di queste delimitazioni che di un’ultima esclusione la quale – come vedremo meglio in seguito – sarà decisiva anche per la consistenza epistemologica della stessa prospettiva genealogica saidiana, ovvero il modo in cui si sono autorappresentati i popoli orientali e i diversi momenti di resistenza in cui essi si sono opposti al potere coloniale.
Prima di addentrarsi nelle questioni più complesse di epistemologia storica sottese alle strategie ricostruttive di Orientalismo, bisogna fare una precisazione riguardo alle accuse di eccessivo “culturalismo”, lanciate ad esempio da studiosi come A. Ahmad, le quali hanno lamentato un’eccessiva attenzione verso una sfera ideologica che rischiava di perdere di vista i fondamentali legami con lo sviluppo del capitalismo globale e con le corrispettive poste in gioco regionali10. Per quanto le determinazioni dell’economico restino importanti nella percezione di Said, occorre ricordare come la consapevolezza geopolitica retta da una struttura persistente di significati assorbe in realtà entro la sua superficie discorsiva le determinazioni economiche non nella misura in cui esse sono una narrazione esterna al discorso stesso e in grado di proporre delle chiavi di lettura più o meno totalizzanti11. Orientalismo, che questo sia giusto o no resta un problema probabilmente aperto, inquadra l’economico solo nella misura in cui esso ha un risvolto discorsivo nelle dinamiche di circolazione degli enunciati che riconfigurano di continuo l’immagine europea dell’Oriente. Il discorso orientalista non è né un riflesso di dinamiche che lo trascendono né una dimensione limitata ad una testualità intesa in senso stretto. Come ha suggerito Mahmut Mutman, l’Oriente di Said non rimanda a una dimensione extradiscorsiva dal momento che esso è il sito di una serie di lotte sempre e comunque contaminate dalla rappresentazione.
L’analisi dei processi di scrittura mediante i quali si è rappresentato l’Oriente impone a Said di partire come in ogni indagine discorsiva dalla superficie dei testi e dalla «loro esteriorità
10 A. Ahmad, In Theory. Classes, Nations, Literatures, Verso, London 1992; T. Asad, A Comment on Aijaz Ahmad’s In
Theory, in Public Culture, vol. 6, n° 1 (1993), pp. 31-39; M. Levinson, The Discontents of Aijaz Ahmad, in Public Culture, vol. 6, n° 1 (1993), pp. 97-131; A. Ahmad, A Response, in Public Culture, vol. 6, n° 1 (1993), pp. 143-191.
11 Su questa obiezione, oltre a quelle di Ahmad, convergono le riserve di altri studiosi marxisti come ad esempio A.
Dirlik, Placing Edward Said: Space, Time and the Travelling Theorist, in B. Ashcroft – H. Kadhim, (a cura di), Edward Said and the Post-Colonial, Huntington, New York 2001, pp. 1-29. In generale questa critica si estende all’impiego delle teorie poststrutturaliste allo studio dei problemi del Terzo Mondo; vi si sostiene che il ricorso ai problemi dell’identità culturale e alla frammentazione in una molteplicità di storie, di soggettività e delle relative narrazioni rischierebbe di nascondere il loro carattere comune, ovvero la dipendenza dalle nuove modalità di funzionamento del capitale transnazionale. Le forme poststrutturaliste, decentrando le questioni economiche, rischiano di diventare complici di questi nuove modalità di autoriproduzione del capitale pur volendo criticare molti dei suoi effetti. Per una critica più ad ampio raggio di questa prospettiva si veda sempre A. Dirlik, The Postcolonial Aura: Third World Criticism in the Ages of Global Capitalism, in Critical Inquiry, vol. 20, n° 2 (1994), pp. 328-356. Per una difesa di Said da queste accuse cfr. B. Aschcroft, Worldliness, in B. Ashcroft – H. Kadhim, (a cura di), Edward Said and the Post-Colonial, op. cit.; Id. Exile and Representation: Edward Said as Public Intellectual, in D. Ganguly (a cura di), Edward Said: The Legacy of a Public Intellectual, op. cit., pp. 75-95.
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rispetto a ciò che descrivono». Questa esteriorità è il prodotto di una rappresentazione (O, 29), o meglio di un insieme di rappresentazioni che è riuscito ad acquistare una durevole autorità attraverso il sostegno sempre crescente di istituzioni di carattere politico, amministrativo, militare e ovviamente culturale (accademie, biblioteche, società geografiche ecc.). All’interno di queste dimensioni si registra una dinamica produttiva del discorso che favorisce una redistribuzione della consapevolezza geopolitica orientalista entro gli ambiti culturali più disparati, garantendo così una diffusione profonda e capillare che diviene più o meno una caratteristica permanente, malgrado gli aggiustamenti discorsivi che si manifestano a livello di superficie. Interrogando testi così diversi tra loro – dai discorsi politici ai resoconti di viaggio, dai testi letterari alle opere di biologia – Said dimostra instancabilmente come in ogni frangente, chiunque intenda parlare o scrivere dell’Oriente è soggetto a una severa disciplina discorsiva:
«lo scrivere sia in campo scientifico che letterario, non è un’attività libera, ma è soggetta a forti limitazioni nel repertorio delle immagini, nelle premesse e nelle intenzioni [...]. L’orientalismo può essere visto come modo regolamento (o orientalizzato) di scrivere, osservare e studiare, dominato da imperativi, prospettive e inclinazioni ideologiche in apparenza costruiti a misura dell’Oriente» (O, 200-201).
La stessa possibilità di essere intesi o di poter partecipare alla vita culturale del proprio tempo dipende dal conformarsi a questo filtro epistemologico preesistente, condizione epistemicamente imprescindibile per restare nel “vero” e preliminare ad ogni affermazione che aspiri a una qualche pretesa di validità. Alcune tecniche di rappresentazione divengono così delle categorie in grado di classificare e di segmentare le popolazioni e le culture orientali collocandole in un ambito discorsivo tanto coerente e unitario quanto altresì funzionale alle esigenze del dominio coloniale. In questo modo tali popolazioni finiscono a detta di Said per essere “create” o, come altre volte viene detto, “orientalizzate” dalla forza discorsiva dispiegata dal potere/sapere sull’Oriente. Dopo aver analizzato alcuni interventi di Balfour e Cromer, nel periodo di massima espansione dell’impero britannico, Said individua il potente stereotipo alla base dell’atteggiamento occidentale verso l’Oriente12:
«l’orientale è irrazionale, decaduto (o peggio degenerato), infantile e “diverso”, così come l’europeo è razionale, virtuoso, maturo, “normale”. A mitigare la severità di questo giudizio giungeva quasi sempre la precisazione che l’orientale vive in un mondo diverso da quello occidentale, ma organizzato e con una sua interna coerenza, un mondo con i propri confini geografico-politici, culturali ed epistemologici. Tuttavia ciò che dà a quel mondo trasparenza e intelligibilità non è il risultato di un’autoconsapevolezza orientale, ma una complessa serie di interventi conoscitivi e trasformativi con cui l’Ovest dà un’identità all’Oriente. Così i due aspetti della relazione culturale cui ho accennato si congiungono: la conoscenza dell’Oriente, nata da una posizione di forza, in un certo senso crea l’Oriente, gli orientali e il loro mondo. Nel linguaggio di Balfour e Cromer l’orientale è dipinto come qualcuno da giudicare (come in un’aula di tribunale), da esaminare e descrivere (come in un curriculum), da abituare a maggiore
12 A rigore, visti i limiti dell’indagine di Said al mondo arabo e islamico, si dovrebbe parlare di Medio Oriente, tuttavia
tenendo presente la sua ulteriore convinzione che lo specifico atteggiamento verso questo contesto geopolitico in realtà sia paradigmatico rispetto ad altri ambiti territoriali e culturali, seguiamo Said per comodità espositiva in questa sua generalizzazione tutto sommato ingiustificata.
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disciplina (come in una scuola o, se necessario, una prigione), da rappresentare con eleganza e minuziosa precisione (come in un trattato di zoologia). Il fatto è che, in ogni caso, l’orientale è contenuto e rappresentato da un sistema di categorie preesistenti. Ma da dove provengono queste categorie?» (O, 46).
Tuttavia, davanti all’impulso sempre più vigoroso impresso alle esplorazioni geografiche; a fronte di un crescente incremento dello sfruttamento economico di territori e di manodopera (là dove non si tratti anche di schiavitù); e dinnanzi al decisivo proliferare dei discorsi medici e