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Nell’interpretare il risultato di un test quantitativo occorre prendere in considerazione due fattori: la variabilità analitica del test e la variabilità biologica dell’analita che intendiamo quantificare.

La variabilità analitica è intrinsecamente legata al processo di misurazione. Se infatti uno stesso campione biologico viene analizzato ripetutamente (nello stesso laboratorio o in laboratori differenti) utilizzando lo stesso test e gli stessi strumenti, il risultato non sarà sempre uguale, ma potrà variare in relazione alla precisione del test. La misura di tale variabilità è data dal coefficiente di variazione (CV%), che esprime il rapporto percentuale fra la deviazione standard e la media dei risultati ottenuti dalle ripetizioni del test sullo stesso campione. Un CV% alto (valore di deviazione standard rilevante rispetto alla media), indica un’elevata dispersione delle ripetizioni e quindi una scarsa riproducibilità del test, viceversa un CV% basso (valore di deviazione standard contenuto rispetto alla media) corrisponde ad una bassa dispersione delle ripetizioni e denota l’elevata precisione del test.

La variabilità biologica dipende da una serie di fattori legati al processo biologico studiato e responsabili del fatto che i valori di un dato analita possano variare nel tempo. In altre parole, qualsiasi analita può mostrare delle fluttuazioni attorno ad un proprio punto omeostatico (variabilità intra-individuale) che a sua volta può essere differente da soggetto a soggetto (variabilità inter-individuale). La variabilità biologica può essere la semplice espressione di una condizione fisiologica (genotipo, influenze ambientali, ritmo circadiano), ma può anche essere il risultato di una patologia in atto (rigenerazione cellulare conseguente ad un danno). Da quanto riportato si può evincere che un test quantitativo possiede un’utilità diagnostica solo se si realizzano le seguenti condizioni: - la sua variabilità analitica è inferiore alla variabilità biologica; - la presenza di una patologia induce un cambiamento di equilibrio all’interno della variabilità biologica dell’analita tale per cui le fluttuazioni patologiche diventano distinguibili da quelle fisiologiche.

In mancanza di un netto discrimine fra l’entità della variabilità biologica fisiologica e patologica, vengono individuati dei valori soglia, o cut-off, che dovrebbero aiutare il clinico ad interpretare il dato analitico in relazione alla condizione che si desidera identificare. Se ad esempio si vuole usare un test per diagnosticare una patologia, il valore di cut-off dovrebbe

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essere individuato ai fini di distinguere nel modo più accurato i soggetti sani dai malati. Su questa capacità discriminante si fonda la performance diagnostica del test verso una determinata patologia, ovvero la sua capacità di dare un risultato positivo nei soggetti malati (sensibilità) e di dare un risultato negativo nei soggetti sani (specificità). Sensibilità e specificità di un test dipendono quindi dal valore soglia prescelto e sono correlate secondo una relazione esprimibile graficamente mediante una curva nota come “Receiver Operating Characteristic (ROC) curve”, che ha in ordinate il tasso dei veri positivi [i malati risultati positivi al test, (corrispondente alla sensibilità)] e in ascisse il tasso dei falsi positivi [i non malati risultati positivi al test, (corrispondente al valore di 1-specificità)]. Ciascun punto della curva ROC rappresenta un valore di cut-off ed è associato ad una determinata sensibilità e specificità. L’area di grafico al di sotto della curva (area under the curve, AUC) può essere considerata come un indicatore della capacità discriminante del test (nulla al valore di 0.5 e tanto maggiore quanto più il valore si avvicina ad 1). In ultima analisi, l’accuratezza diagnostica di un test dipende dal modo in cui il test viene utilizzato, ovvero dai cut-offs scelti per interpretarne il risultato. Coerentemente a ciò, spostando il cut-off in una direzione o nell’altra è possibile prediligere sensibilità o specificità a seconda delle circostanze richieste; in alternativa, se non c’è una particolare preferenza verso la sensibilità o verso la specificità, è possibile selezionare un cut-off che massimizzi entrambi i parametri140.

In un contesto come quello dello screening e della sorveglianza per una neoplasia, sarebbe auspicabile prediligere la sensibilità; tuttavia, applicando interventi diagnostici su vasta scala, un’eccessiva riduzione di specificità comporterebbe l’incremento di risultati falsamente positivi con la conseguenza di sottoporre dei soggetti sani ad ulteriori accertamenti diagnostici non necessari.

Come discusso nel capitolo precedente, la sorveglianza di HCC nei soggetti a rischio è considerata costo-efficace, tuttavia la quasi totalità delle società scientifiche epatologiche ritiene che le performance diagnostiche dei test sierologici non siano sufficienti a raccomandarne l’utilizzo periodico in associazione all’ecografia addominale.

Se quindi da un lato la ricerca internazionale è impegnata a identificare nuovi potenziali biomarcatori con caratteristiche più performanti, un grande sforzo viene fatto nel tentativo di ottimizzare l’utilizzo dei test attualmente disponibili.

Un primo approccio perseguito in questa direzione è stato quello di utilizzare combinazioni di biomarcatori diversi. Se infatti la correlazione fra due biomarcatori è scarsa, essi possono essere utilizzati in senso complementare e la loro combinazione può determinare un incremento di sensibilità senza ridurre la specificità. Numerosi studi hanno riportato la bontà

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di questo approccio dimostrando che la combinazione di due o tre fra AFP, PIVKA-II e AFP- L3, comportava un’accuratezza diagnostica superiore rispetto al considerare ciascun biomarcatore singolarmente137, 141-143.

In considerazione dell’ampia variabilità biologica riportata dagli studi sui biomarcatori di HCC, un ulteriore tentativo di ottimizzazione ha riguardato l’identificazione dei fattori principalmente responsabili di tale variabilità. E’ stato dimostrato, ad esempio, che fattori quali l’età, il genere, l’eziologia dell’epatopatia, l’attività di malattia e lo stadio della neoplasia alla diagnosi, giocano un ruolo determinante nel favorire la variabilità dei biomarcatori. Di conseguenza, stratificando la popolazione in base a queste caratteristiche, è possibile identificare sottogruppi di pazienti in cui l’accuratezza diagnostica dei biomarcatori sierici è superiore109, 144.

Queste osservazioni sono state confermate anche da un recente studio condotto presso la U.O. Epatologia dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, in cui AFP e PIVKA-II sono stati testati in 388 pazienti con cirrosi da HBV, HCV ed eziologia non virale, con e senza HCC (258 vs 130). Utilizzando differenti valori di cut-off sono state ottenute performance diagnostiche molto variabili nei tre gruppi eziologici, con PIVKA-II che ha mostrato un’accuratezza superiore ad AFP soprattutto nei cirrotici da HCV (dove le fluttuazioni di AFP erano per lo più aspecifiche a causa dei flares epatitici) e nei cirrotici non virali (dove vi era una quota maggiore di HCC diagnosticati in stadio intermedio/avanzato e PIVKA-II risultava più frequentemente elevato anche in virtù della sua correlazione con le dimensioni del tumore)145.

Questa e altre esperienze analoghe mettono in evidenza quelli che sono i limiti dell’utilizzo di un cut-off univoco. Un tale approccio, infatti, rischia di determinare performance diagnostiche insoddisfacenti, soprattutto laddove la variabilità biologica dei biomarcatori è spiccata e dipendente da molteplici fattori. Inoltre l’uso di un cut-off introduce uno svantaggio metodologico che deriva dalla trasformazione di una variabile continua in categorica. In altre parole, la semplificazione interpretativa permessa dall’uso di un valore soglia per suddividere una distribuzione continua in due categorie, viene pagata al prezzo di una perdita di informazione contenuta all’interno della distribuzione di quella variabile146. E’ stato stimato che l’entità di tale perdita di informazione sia pari ad un terzo del totale quando una variabile continua viene dicotomizzata alla mediana della distribuzione147. E’ facilmente intuibile, ad esempio, che introducendo un cut-off all’interno di una distribuzione continua, gli individui che hanno valori molto vicini fra loro, ma che si trovano ai lati opposti rispetto al valore soglia, verranno classificati come appartenenti a gruppi diversi, quando al contrario è più

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probabile che siano individui molto simili. Ne deriva che il potenziale informativo contenuto nella variabile misurata a livello del singolo individuo si perde e con esso si indebolisce la possibilità di trovare una relazione fra quella variabile e un qualsiasi outcome.

L’alternativa alla definizione di un cut-off consiste nell’utilizzare il valore dei biomarcatori come variabili continue all’interno di modelli di regressione in grado di predire la probabilità di HCC. Secondo questo approccio sono stati proposti degli algoritmi che hanno dimostrato eccellenti performance diagnostiche. Nel 2014 El Serag ha sviluppato un algoritmo in una coorte di pazienti con cirrosi da HCV, utilizzando i valori di AFP, piastrine e ALT, in aggiunta all’età del paziente148. Nello stesso anno, Johnson ha proposto un modello basato sui valori di AFP, AFP-L3 e PIVKA-II, insieme all’età e al genere del paziente. Questo modello, denominato GALAD (gender, age, AFP-L3, AFP, DCP), è stato sviluppato in una coorte inglese di pazienti con epatopatia di diversa eziologia ed è stato validato in una coorte esterna, ottenendo le più alte performance diagnostiche mai registrate da un biomarcatore o dalla combinazione di più biomarcatori, con un AUC di 0.97149.

Entrambi i modelli si basano sui livelli dei biomarcatori relativi ad un singolo punto temporale e vengono proposti dagli autori come strumenti utilizzabili per stimare il rischio di HCC al momento in cui il paziente viene valutato durante la visita di sorveglianza periodica. Un ulteriore sviluppo di questi modelli potrebbe essere rappresentato dalla valutazione dinamica del valore dei biomarcatori, misurato in più punti temporali: in tal caso sarebbe la variazione nel tempo del marcatore a fornire indicazioni utili rispetto al processo in studio. Analisi di misure ripetute nel tempo sono state applicate prevalentemente a scopo prognostico, per verificare se i biomarcatori di HCC avessero un ruolo nel predire gli indici di

outcome dopo un intervento terapeutico. Al contrario, nel contesto della sorveglianza i dati

prodotti dalla valutazione di misure ripetute sono ancora insufficienti. Lo studio delle cinetiche del biomarcatore, quindi non solo della sua variazione quantitativa, ma anche della velocità con cui variano i suoi livelli, potrebbe essere più informativo rispetto alla valutazione di una singola misura, e meglio descrivere la complessità dei fenomeni che caratterizzano una patologia, contribuendo a distinguere la componente di variabilità biologica espressione dell’epatopatia cirrotica da quella derivante da viraggio neoplastico di un nodulo.

Sulla base di queste premesse, lo studio oggetto della presente tesi si è posto l’obiettivo di stimare l’entità della variabilità biologica di AFP e PIVKA-II attraverso l’analisi delle loro fluttuazioni temporali misurate nel siero di pazienti con cirrosi che hanno o non hanno sviluppato HCC durante la sorveglianza.

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3.2 Pazienti e Metodi

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