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ANALISI MODELLISTICA DELLE FLUTTUAZIONI SIERICHE DI AFP E PIVKA-II IN PAZIENTI CON CIRROSI A RISCHIO DI CARCINOMA EPATOCELLULARE

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

Scuola di Specializzazione in Gastroenterologia

Tesi di Specializzazione

“Analisi modellistica delle fluttuazioni sieriche di AFP e PIVKA-II in

pazienti con cirrosi a rischio di carcinoma epatocellulare”

Relatore

Prof.ssa Maurizia Rossana Brunetto

Gabriele Ricco

Candidato

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Indice

Pag.

Riassunto ……….…….. 3

Cap. 1 Il Carcinoma Epatocellulare……….………...

4

1.1 Epidemiologia, eziologia e fattori di rischio……….……….. 4

1.2 Sorveglianza……….………... 5 1.3 Diagnosi……….………. 5 1.4 Stadiazione……….………. 6 1.5 Trattamento……….……… 9

Cap. 2 La Sorveglianza di HCC………... 17

2.1 Sorveglianza vs screening………... 17 2.2 Popolazioni da sorvegliare……….. 17 2.3 Tipologia di sorveglianza……….... 21 2.4 Intervallo di sorveglianza……….... 22 2.5 L’ecografia addominale………... 22

2.6 Efficacia della sorveglianza………. 23

2.7 Il ruolo dei biomarcatori nella sorveglianza………... 24

2.8 I biomarcatori di HCC………. 26

2.8.1 AFP……… 26

2.8.2 AFP-L3……….. 29

2.8.3 PIVKA-II………...……… 30

Cap. 3 Analisi modellistica delle fluttuazioni sieriche di AFP e PIVKA-II

in pazienti con cirrosi a rischio di carcinoma epatocellulare….….. 34

3.1 Introduzione………... 34

3.2 Pazienti e Metodi……….…..… 38

3.2.1 Disegno dello studio……….………….… 38

3.2.2 Analisi di laboratorio……….……….... 38 3.2.3 Analisi statistica……….………...…….… 39 3.3 Risultati……….….…… 40 3.4 Discussione……….….…….. 41 3.5 Figure e Tabelle……….……….... 44

Bibliografia

……….………... 48

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3

Riassunto

Le fluttuazioni sieriche di un biomarcatore dipendono dalla variabilità analitica del test utilizzato e dalla variabilità biologica del biomarcatore stesso. Nell’ambito dei biomarcatori dell’epatocarcinoma (HCC) questi aspetti sono stati solo parzialmente approfonditi. Nel presente studio abbiamo valutato le fluttuazioni temporali dell’alfa-fetoproteina (AFP) e della proteina indotta dall’assenza/antagonismo della vitamina K (PIVKA-II) nel siero di pazienti con cirrosi che hanno o non hanno sviluppato HCC durante la sorveglianza periodica.

I livelli sierici di AFP e PIVKA-II sono stati quantificati per mezzo di due test automatici in chemiluminescenza (Fujirebio Inc., Tokyo, Giappone). Sono stati testati 1163 sieri provenienti da 418 pazienti con cirrosi di diversa eziologia (31.1% HBV, 58.6% HCV, 10.3% non virale), sottoposti periodicamente a sorveglianza per HCC in tre centri di riferimento italiani. Il numero medio di campioni disponibili per ciascun paziente è stato di 2.8 (da 2 a 3). Nel corso della sorveglianza 124 pazienti hanno sviluppato un HCC (HCC+) e sono stati confrontati con 294 pazienti rimasti liberi da neoplasia nei 12 mesi dopo l’ultimo campione di siero analizzato (HCC-). I livelli di AFP e PIVKA-II sono stati analizzati per mezzo di un modello di regressione di tipo RE-GLS (Random-Effect Generalized Least Squares model) che ha prodotto una stima dell’andamento dei due biomarcatori nel tempo (a 3, 6, 12, 24, 36 e 48 mesi).

L’andamento dei due biomarcatori (log10 AFP and log10 PIVKA-II) è risultato differente negli

HCC+ rispetto agli HCC-. Nei pazienti HCC+ il modello ha stimato un progressivo incremento temporale di entrambi i biomarcatori. Nei pazienti HCC- l’andamento stimato per log10 PIVKA-II è risultato stabile e con minime variazioni, mentre l’andamento di log10 AFP

ha mostrato fluttuazioni maggiori. Grazie all’analisi modellistica è stato possibile calcolare l’aumento percentuale di log10 AFP e log10 PIVKA-II stimato negli HCC+ rispetto agli HCC-

ad un determinato tempo rispetto al valore basale. Considerando un intervallo temporale di sei mesi, coincidente con la tempistica raccomandata per l’ecografia addominale in corso di sorveglianza, tale aumento percentuale è risultato essere dell’11% (95%CI: 5-17%) per log10

AFP e del 5% (95%CI: 1-8%) per log10 PIVKA-II.

In conclusione questo studio, volto ad approfondire la variabilità biologica di AFP e PIVKA-II, suggerisce che l’analisi modellistica delle fluttuazioni temporali dei due biomarcatori durante la sorveglianza di HCC potrebbe essere uno strumento utile alla diagnosi precoce di HCC, meritevole di essere validato in futuri studi prospettici.

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Capitolo 1

Il Carcinoma Epatocellulare

1.1 Epidemiologia, eziologia e fattori di rischio

Il carcinoma epatocellulare (hepatocellular carcinoma, HCC) costituisce oltre il 90% dei tumori primitivi del fegato ed è uno dei principali problemi di salute a livello globale: è la quinta neoplasia più comune nel maschio (la nona nella femmina) e rappresenta la seconda causa di morte per neoplasia (9.1% di tutte le morti cancro-correlate)1. Lo studio

epidemiologico più recente ha riportato 854.000 nuovi casi e 810.000 morti nell’anno 2015, configurando un rapporto incidenza/mortalità vicino all’unità a conferma dell’elevata letalità di questa neoplasia2. Nel panorama europeo l’Italia rientra fra i paesi con il più alto tasso di

incidenza (> 6.0 per 100.000)1 e prevalenza (> 12 casi per 100.000)3. Sebbene i tassi di mortalità nel nostro paese abbiano subito una riduzione a partire dagli anni 2000 la sopravvivenza complessiva a 5 anni dalla diagnosi rimane insoddisfacente (20% nel maschio, 21% nella femmina), senza mostrare significative differenze regionali4.

Nella maggior parte dei casi (> 90%), l’HCC insorge nel contesto di una malattia epatica in evoluzione cirrotica e ne costituisce la più frequente complicanza tardiva5. Per tale ragione l’epidemiologia del carcinoma epatocellulare mostra una significativa eterogeneità geografica, strettamente correlata all’eziologia delle epatopatie croniche che ne rappresentano il principale fattore di rischio (Tabella 1). Nell’Africa Sub-Sahariana e nell’Asia Orientale la maggior parte dei casi di HCC è attribuibile all’infezione da HBV, per il quale è anche noto un effetto oncogenico diretto e la cui diffusione è endemica in queste regioni. Al contrario, nei paesi industrializzati (Stati Uniti, Europa Occidentale e Giappone) HCV rappresenta il maggiore fattore di rischio. A livello mondiale l’epatopatia alcolica risulta essere il principale fattore di rischio non virale, ma vi sono sempre maggiori evidenze a supporto della centralità dall’epatopatia non-alcolica/steatoepatite (NAFLD/NASH) sia come fattore di rischio indipendente6, sia come rischio additivo in pazienti con epatopatia virale7. Tale aspetto ha una

notevole rilevanza nei paesi industrializzati, dove si stima un aumento di incidenza di HCC da causa dismetabolica8. D’altra parte, l’avvento di farmaci antivirali in grado di sopprimere

efficacemente la replica virale e spegnere la necro-infiammazione epatica, ridurrà sensibilmente il numero di pazienti con epatopatia virale cronica evoluta in cirrosi e di conseguenza la quota di HCC ascrivibile a queste eziologie. Anche per questo l’epidemiologia dell’epatocarcinoma subirà notevoli cambiamenti nel corso dei prossimi decenni, a cui si

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dovrà fare fronte adeguando coerentemente gli strumenti preventivi e diagnostici a disposizione.

Tabella 1: Distribuzione geografica dei fattori di rischio principali per HCC

Area geografica Alcol (%) HBV (%) HCV (%) Altro (%)

Europa 32 13 44 10 Occidentale 46 15 29 10 Orientale 53 15 24 8 Nord America 37 9 31 23 Sud America 23 45 12 20 Asia Est Asia 32 41 9 18 Asia Pacifica 18 22 55 6 Sud-Est Asiatico 31 26 22 21 Africa

Nord Africa, Medio Oriente 13 27 44 16

Africa Meridionale (subsahariana) 40 29 20 11

Africa Occidentale (subsahariana) 29 45 11 15

1.2 Sorveglianza

Si stima che fino ad un terzo dei pazienti con cirrosi svilupperà HCC nel corso della vita. Il rischio cumulativo calcolato a 5 anni è compreso fra il 5% e il 30% e dipende da numerosi fattori, tra cui l’eziologia e lo stadio dell’epatopatia, il genere e l’età, la regione di provenienza o l’etnia, lo stadio di malattia9. Secondo analisi di costo-efficacia, se il rischio di incidenza della neoplasia in una popolazione supera l’1.5% annuo, è giustificato applicare dei test periodici di sorveglianza per la diagnosi precoce al fine di ottenere un beneficio in termini di sopravvivenza. In effetti la sorveglianza per HCC è raccomandata da tutte le linee guida nazionali e internazionali, tuttavia i modi e i tempi della sorveglianza sono ancora un argomento di discussione e costituiscono gli aspetti su cui si osservano orientamenti diversi da parte delle varie società scientifiche.

In considerazione della centralità di tali aspetti nell’argomento della presente tesi, si rimanda al capitolo successivo per una loro analisi più dettagliata.

1.3 Diagnosi

La diagnosi non invasiva dell’HCC si basa sull’imaging; i criteri diagnostici cardine sono stati definiti nel 2001 e trovano il loro razionale biologico nel sovvertimento vascolare che ha luogo durante l’epatocarcinogenesi. Basandosi essenzialmente sulle caratteristiche della

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vascolarizzazione del tessuto epatico, la diagnosi radiologica può essere ottenuta solo attraverso metodiche con mezzo di contrasto (Tomografia Computerizzata, TC; Risonanza Magnetica, RM) che mostrino un iper-enhancement nella fase arteriosa rispetto al parenchima epatico circostante (indice di ipervascolarizzazione) e un successivo “wash-out” nella fase portale e/o tardiva (indice di sovvertimento vascolare)10.

Molti studi e meta-analisi hanno valutato le performance diagnostiche di TC e RM. Nella maggior parte di questi studi si conclude che la RM è lievemente superiore alla TC per sensibilità e che tale vantaggio si evidenzia in caso di lesioni epatiche con diametro inferiore ai 2 cm (62% vs 48%)11. Inoltre, a prescindere dalla metodica di imaging utilizzata, non è infrequente che i noduli di piccole dimensioni mostrino caratteristiche contrastografiche atipiche12 e ciò non implica che siano lesioni con potenziale meno aggressivo rispetto ai

noduli tipici. Di conseguenza, una qualsiasi focalità sovracentimetrica, dovrebbe essere caratterizzata fino all’ottenimento di una diagnosi di certezza.

Secondo l’algoritmo procedurale raccomandato dalle ultime linee guida redatte dall’Associazione Europea per lo Studio del Fegato (European Association for the Study of the Liver, EASL), in presenza di una focalità sovracentimetrica di nuova insorgenza o già nota, ma con caratteristiche variate rispetto ad un precedente controllo, è necessario un approfondimento mediante esame con mezzo di contrasto (TC o RM), che risulterà diagnostico se vengono soddisfatti i criteri radiologici suddetti. In caso di dubbio, è consigliabile ripetere un secondo approfondimento con mezzo di contrasto, alternativo rispetto al precedente. La biopsia della focalità è indicata in caso di reperti non conclusivi, soprattutto per lesioni inferiori ai 2 cm di diametro in cui la performance diagnostica degli esami di imaging è inferiore.

Se la focalità di nuovo riscontro è subcentimetrica, viene consigliata la ripetizione dell’ecografia addominale dopo 4 mesi e in caso di stabilità dimensionale il paziente proseguirà la sola sorveglianza ecografica, altrimenti verrà sottoposto ad esame con mezzo di contrasto secondo le indicazioni sopra riportate.

L’orientamento di tipo attendista nei confronti dei noduli subcentimetrici è giustificato dagli studi di anatomia patologica, secondo i quali, nel contesto del fegato cirrotico la maggior parte dei noduli di diametro inferiore al centimetro non sono di natura maligna13.

1.4 Stadiazione

Una volta stabilità la diagnosi di HCC è necessario avviare un processo di stadiazione della neoplasia al fine di stabilirne la prognosi e indirizzare il paziente verso la migliore strategia

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terapeutica. Per la stretta correlazione con l’epatopatia di base, una corretta stadiazione dell’epatocarcinoma non può

ciò, il sistema di stadiazione TNM, che è il più utilizzato in oncologia e tiene conto dell’estensione neoplastica (locale, linfonodale e a

limiti nel contesto dei pazienti con HCC epatocarcinoma infatti rientrano anche Pugh) e il performance status

criteri proposti dall’Eastern Cooperative Oncology Group ( Il sistema di stadiazione ad oggi

di ricerca della

Barcellona-dati provenienti da diversi studi indipendenti

variabili connesse alla neoplasia e all’epatopatia di base, clinici e soggettivi del paziente.

di stadiazione viene indicata una strategia terapeutica Le linee guida EASL raccomandano l’utilizzo punti di forza: in particolare

clinici e che connetta dinamicamente lo stadio della malattia neoplastica con le strategie di intervento, lasciando spazio all’

terapeutica di questi pazienti (Figura 1

Figura 1: Algoritmo diagnostico EASL 2018)

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Per la stretta correlazione con l’epatopatia di base, una corretta stadiazione rcinoma non può basarsi sulle sole caratteristiche della neoplasia.

il sistema di stadiazione TNM, che è il più utilizzato in oncologia e tiene conto eoplastica (locale, linfonodale e a distanza), ha dimostrato di avere

l contesto dei pazienti con HCC14. Tra i principali fattori prognostici

infatti rientrano anche la funzionalità epatica (definita dalla classe di Child il performance status del paziente [PS, definito dalla presenza di sintomi

ern Cooperative Oncology Group (ECOG)]15.

ad oggi più diffuso e validato è quello proposto nel 1999 dal gruppo -Clinic Liver Cancer, (BCLC). Esso è stato sviluppato combinando dati provenienti da diversi studi indipendenti e si basa sulla valutazione consensuale di connesse alla neoplasia e all’epatopatia di base, con riferimento a dati laboratoristici, nici e soggettivi del paziente. Inoltre per ciascuna delle cinque classi proposte dallo schema di stadiazione viene indicata una strategia terapeutica16.

raccomandano l’utilizzo della classificazione BCLC sottolineandone i particolare il fatto che sia stato diffusamente validato in diversi contesti clinici e che connetta dinamicamente lo stadio della malattia neoplastica con le strategie di intervento, lasciando spazio all’integrazione con nuove eventuali acquisizioni nella gestione

peutica di questi pazienti (Figura 1)17.

Figura 1: Algoritmo diagnostico-terapeutico secondo BCLC (mod. da Linee Guida

Per la stretta correlazione con l’epatopatia di base, una corretta stadiazione caratteristiche della neoplasia. A conferma di il sistema di stadiazione TNM, che è il più utilizzato in oncologia e tiene conto distanza), ha dimostrato di avere diversi principali fattori prognostici del paziente con funzionalità epatica (definita dalla classe di

Child-o dalla presenza di sintChild-omi, secChild-ondChild-o i è quello proposto nel 1999 dal gruppo sviluppato combinando valutazione consensuale di con riferimento a dati laboratoristici, Inoltre per ciascuna delle cinque classi proposte dallo schema BCLC sottolineandone i il fatto che sia stato diffusamente validato in diversi contesti clinici e che connetta dinamicamente lo stadio della malattia neoplastica con le strategie di acquisizioni nella gestione

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Nel sistema BCLC, i pazienti vengono suddivisi in cinque stadi di malattia (0, A, B, C e D). Di seguito il dettaglio della classificazione.

-Stadio 0 (Very Early HCC): si caratterizza per la presenza di un tumore singolo con diametro inferiore ai 2 cm e senza invasione vascolare, in pazienti che sono in condizioni di buona salute generale (PS 0) e con indici di sintesi epatica conservati. La strategia terapeutica ottimale per questi pazienti prevede la resezione chirurgica del nodulo tumorale, che si associa ad una sopravvivenza a 5 anni dell’ 80-90%18.

Un’alternativa terapeutica per i pazienti in cui la chirurgia dovesse essere controindicata è la ablazione locale, vista la possibilità di ottenere tramite questo intervento una completa necrosi tumorale nella stragrande maggioranza dei casi. Secondo una meta-analisi di 17 studi, su una popolazione complessiva di 3996 pazienti trattati con resezione e 4454 trattati con ablazione termica, l’intervento termoablativo è sovrapponibile alla resezione per quanto riguarda l’aspettativa di vita a lungo termine, ma comporta costi molto inferiori19. D’altra parte, un

vantaggio della resezione chirurgica è quello di poter valutare istologicamente il tessuto lesionale e derivarne informazioni prognostiche sul rischio di recidiva. In presenza infatti di caratteristiche istologiche di particolare aggressività, questi pazienti potrebbero anche essere indirizzati al trapianto di fegato, secondo quella che è stata definita indicazione “ab initio”20.

-Stadio A (Early HCC): si caratterizza per la presenza di un nodulo singolo di diametro superiore ai 2 cm oppure fino a 3 noduli di diametro inferiore ai 3 cm, in pazienti che sono in condizioni di buona salute generale (PS 0) e con funzionalità epatica conservata.

La sopravvivenza a 5 anni di questi pazienti varia dal 50 al 70% dopo un trattamento che può essere di ablazione, resezione, fino al trapianto di fegato, a seconda delle caratteristiche del singolo individuo21. Diventa pertanto fondamentale la selezione dei candidati più idonei a ricevere un determinato intervento, al fine di ottenere il massimo beneficio in termini di sopravvivenza. A determinare il processo decisionale intervengono fattori correlati al tumore (numero dei noduli, dimensione, localizzazione), con la possibilità per il paziente di rientrare o meno nei criteri di trapiantabilità, oltre a variabili connesse con l’epatopatia di base, che possono determinare differenti profili di rischio verso le potenziali complicanze nel post-intervento.

-Stadio B (Intermediate HCC): si caratterizza per la presenza di neoplasia multifocale, senza invasione vascolare o diffusione extraepatica, ma comunque non resecabile, in pazienti che

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mantengono buone condizioni di salute generale (PS 0) e funzionalità epatica conservata. In questo stadio il trattamento considerato di prima linea è la chemioembolizzazione transarteriosa (transarterial chemoembolization, TACE), con una sopravvivenza mediana di 16 mesi (49% a due anni)22.

-Stadio C (Advanced HCC): si caratterizza per la presenza di sintomi correlati alla neoplasia (PS 1-2), invasione vascolare (di un ramo portale segmentale e/o principale) o diffusione extraepatica della malattia (sia linfonodale che extra-linfonodale). La prognosi di questi pazienti è infausta, con una sopravvivenza mediana di 6-8 mesi, o del 25% ad un anno23. Fino al 2007 non esistevano terapie approvate per i pazienti in questo stadio di malattia. Successivamente, fu introdotta l’indicazione al trattamento con sorafenib, un inibitore tirosin-chinasico che aveva mostrato un beneficio in sopravvivenza rispetto al placebo (10.7 vs 7.9 mesi)24. Più recentemente, altri due inibitori multi-chinasici hanno mostrato un effetto

positivo sull’outcome: regorafenib, come seconda linea in pazienti già trattati con sorafenib senza significativi effetti collaterali25 e lenvatinib, come trattamento di prima linea per cui è

stata accertata la non-inferiorità rispetto a sorafenib26.

-Stadio D (End stage HCC): i pazienti classificati in questo stadio hanno un performance status compromesso (PS 3-4) che impedisce qualsiasi tipo di trattamento diverso dalla sola terapia di supporto. La sopravvivenza mediana è di 3-4 mesi o 11% ad un anno23.

1.5 Trattamento

La definizione della strategia terapeutica è un momento di cruciale importanza per l’impatto che ha sulla sopravvivenza a lungo termine del paziente. Come già accennato nel paragrafo precedente, la scelta terapeutica dipende da numerosi fattori correlati al tumore, all’epatopatia di base e allo stato generale del paziente. Per la complessità degli aspetti da considerare e le diverse tipologie di trattamento disponibili, i pazienti con diagnosi di HCC dovrebbero essere indirizzati a gruppi multidisciplinari che coinvolgono epatologi, patologi, radiologi, chirurghi e oncologi.

Ad oggi, le terapie che sono note per offrire un alto tasso di risposte complete e quindi potenzialmente curative sono il trapianto di fegato, la resezione chirurgica e l’ablazione locale. Tra le terapie non curative, le sole ad avere dimostrato un impatto positivo sulla sopravvivenza sono la TACE e le terapie sistemiche con inibitori tirosin-chinasici (sorafenib, regorafenib, lenvatinib). La radioembolizzazione (transarterial radioembolization, TARE)

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mostra una buona attività antitumorale, ma i dati attualmente disponibili non hanno mostrato un sostanziale vantaggio in termini di sopravvivenza rispetto al sorafenib e occorre meglio definire quale sottogruppo di paziente trarrebbe maggiore beneficio da un tale approccio. Di seguito, saranno riepilogate brevemente le caratteristiche principale delle varie tipologie di trattamento.

1.5.1 Resezione epatica

La resezione chirurgica è il trattamento di scelta per il carcinoma epatocellulare insorto in un fegato non cirrotico, che rappresentano il 5% dei casi nei paesi occidentali e circa il 40% in Asia27. In virtù dello stadio precoce dell’epatopatia, questi pazienti tollerano grandi resezioni con bassa morbilità; al contrario i pazienti cirrotici da candidare ad una resezione devono essere sottoposti preliminarmente ad una valutazione che tenga conto di più fattori: la funzionalità epatica, la presenza o meno di ipertensione portale, l’estensione dell’epatectomia, il volume di fegato residuo previsto, le condizioni generali del paziente e le eventuali comorbidità.

L’indice più diffusamente utilizzato per valutare la funzionalità epatica è quello di Child-Pugh, ma ad ulteriore completamento possono essere considerati anche parametri come il MELD score (model for end-stage liver disaease), l’elastometria epatica o il test dinamico di funzionalità epatica basato sull’indocianina verde, (indocyanine green, ICG), un composto solubile e inerte che si lega alle proteine circolanti e viene estratto principalmente dal fegato. Per quanto concerne l’elastometria epatica, è stato descritto un significativo rischio di insufficienza epatica post-resezione nei pazienti con valori superiori ai 12-14 kPa28. L’ICG test è stato applicato prevalentemente nei paesi orientali e consiste in una valutazione non invasiva della funzionalità epatica, ottenuta misurando il tasso di ritenzione dell’indocianina verde dopo 15 minuti dall’infusione alla dose di 0.5 mg/Kg (ICGR15). Più lunga è la

persistenza in circolo dell’indocianina, minore è la capacità epatica di estrarla dal torrente circolatorio. Sulla base dei dati attualmente disponibili, si riserva l’indicazione resettiva solo ai pazienti con ICGR15 inferiore al 20–25%29.

L’ipertensione portale clinicamente rilevante è un fattore prognostico sfavorevole connesso all’epatopatia, a prescindere dall’HCC, ma la sua rilevanza come fattore indipendente nel determinare l’outcome post-resezione è stata messa in relazione all’estensione dell’epatectomia; è stato riportato infatti che la presenza di ipertensione portale in un paziente candidato a resezione maggiore (>3 segmenti) lo espone ad un rischio > 30% di insufficienza post-chirurgica30. L’estensione della resezione è quindi un parametro importante da

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considerare e deve essere accuratamente programmata prima dell’intervento calcolando il volume della porzione da rimuovere e del fegato residuo mediante TC o RM. Altri aspetti da considerare sono la possibilità di intervenire in maniera mini-invasiva (laparoscopia robotica), che, ove tecnicamente possibile, riduce il rischio di scompenso post-chirurgico31.

A capo di tutte le precedenti considerazioni, così come in tutte le procedure chirurgiche, occorre una precisa valutazione delle condizioni generali del paziente e della rilevanza delle comorbidità. Non vi sono limiti assoluti di età anagrafica se il performance status e le comorbidità non controindicano l’intervento.

La recidiva tumorale si osserva nel 70% dei casi a cinque anni e riflette sia la progressione di malattia di eventuali foci metastatici intraepatici a partenza dal tumore primario, sia lo sviluppo di un nuovo tumore. Sebbene non sia possibile distinguere con certezza queste due modalità di ricorrenza, si ritiene che il cut-off temporale di 2 anni possa differenziare la prima tipologia dalla seconda32. Sebbene siano stati tentate numerose strategie farmacologiche per

prevenire e trattare le eventuali recidive, al momento non vi sono raccomandazioni su chemioterapie adiuvanti post-resezione.

1.5.2 Trapianto di fegato

Il trapianto di fegato rappresenta un trattamento chirurgico con potenziale curativo la cui indicazione dovrebbe essere valutata per tutti i pazienti a cui viene diagnosticato un HCC. Laddove le condizioni generali quali l’età, il performance status o le comorbidità non determinino una controindicazione assoluta, la trapiantabilità di un paziente viene definita sulla base di criteri che tengono conto dell’impegno tumorale epatico. I primi criteri di trapiantabilità ad essere riconosciuti ubiquitariamente furono proposti da Mazzaferro nel 1996 e sono noti come criteri di Milano (nodulo singolo con diametro ≤ 5 cm o noduli multipli in numero ≤3 e di diametro ≤3 cm, senza invasione vascolare)33.

Con tassi di sopravvivenza a 5 anni dal trapianto riportati fra il 65 e l’80%34, le ultime linee guida EASL ritengono che i criteri di Milano siano tuttora il confine più affidabile entro cui considerare la trapiantabilità di un paziente.

Negli anni sono stati proposti criteri diversi e meno restrittivi per permettere l’inserimento in lista di pazienti con malattia più avanzata, oppure per la gestione dei pazienti la cui malattia è progredita oltre i criteri di Milano mentre si trovavano già in lista di attesa. Almeno quattro distinti gruppi di criteri definiti “estesi” sono stati valutati rispetto ai criteri di Milano, mostrando una non–inferiorità in termini di sopravvivenza a lungo termine; tuttavia ad oggi non è stato ancora trovato un consenso univoco sulla loro applicazione al di fuori degli studi

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clinici. Negli stadi più avanzati di malattia viene pertanto riconosciuta la possibilità di eseguire trattamenti loco-regionali finalizzati al “down-staging”, che in caso di efficacia permetterebbero al paziente di rientrare nei criteri di Milano34.

Un aspetto innovativo introdotto con alcuni dei criteri estesi, è stato quello di considerare variabili legate alla biologia tumorale (fra le quali la più rilevante è rappresentata dai valori sierici di AFP) e all’entità della risposta ai trattamenti di down-staging. E’possibile che l’ulteriore sviluppo di criteri combinati a questo tipo di caratteristiche possa permettere di superare i criteri più convenzionali35. A fronte di una simile prospettiva vi sono comunque condizioni di estensione di malattia, quali la presenza di invasione vascolare e/o di malattia extraepatica, che controindicano il trapianto in maniera assoluta e lasciano spazio a terapie non curative, finalizzate a rallentare l’ulteriore progressione neoplastica37.

1.5.3 Ablazione locale

Negli ultimi trent’anni sono stati introdotti e validati diversi metodi per indurre un’ablazione chimica o termica del tumore, generalmente eseguite attraverso un approccio percutaneo, o in alcuni casi in corso di laparoscopia. La tecnica capostipite è stata l’iniezione percutanea di etanolo (percutaneous ethanol injection, PEI), tramite la quale si induce una necrosi coagulativa della lesione tumorale secondaria alla disidratazione cellulare, alla denaturazione delle proteine e all’occlusione dei microvasi. In seguito sono state sviluppate tecniche di ablazione basate su uno shock termico, sia ipertermiche che criogeniche. Le alte temperature (solitamente fra i 60° e i 100°C) possono essere ottenute con radiofrequenze, (radiofrequency ablation, RFA), microonde (microwave ablation, MWA) o tramite laser38.

L'iniezione di etanolo e l’ablazione con radiofrequenza sono ugualmente efficaci per i tumori entro i 2 cm di diametro. Tuttavia, l'effetto necrotico della radiofrequenza è più prevedibile in quanto diretto omogeneamente in tutte le dimensioni del tumore; per questo motivo la sua efficacia è nettamente superiore a quella dell’iniezione di etanolo in tumori di dimensioni maggiori39.

Per la buona efficacia e la relativa sicurezza (la mortalità della radiofrequenza è riportata allo 0.0–0.3%), tale approccio terapeutico è considerato l’ideale per i pazienti in stadio 0 o A secondo BCLC che non sono candidabili alla chirurgia. Risultano predittori di ridotta sopravvivenza a lungo termine una ridotta funzionalità epatica (Child-Pugh B), elevati livelli di AFP e la presenza di circoli collaterali porto-sistemici, mentre l’unico effettivo fattore di rischio predittivo di recidiva locale di malattia, che colpisce approssimativamente il 30% dei pazienti, è il diametro del nodulo >2 cm40.

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La localizzazione del nodulo da trattare è stata motivo di dibattito per quanto concerne la possibilità di eseguire un trattamento di ablazione e le motivazioni sono legate principalmente al fatto che le lesioni sotto-capsulari potrebbero essere trattate con minore efficacia rispetto a quelle profonde, e potrebbero esporre il paziente ad un aumentato rischio di complicanze. Secondo uno studio pubblicato nel 2016 non ci sono differenze significative nella sopravvivenza globale o nel rischio di complicanze fra i pazienti con noduli sottocapsulari rispetto a pazienti con noduli profondi41. Tuttavia occorre sottolineare che alcune localizzazioni epatiche rendono infattibile una ablazione in condizioni di sicurezza (ad esempio in presenza di noduli adiacenti alla colecisti) e lo studio sopracitato, essendo retrospettivo, soffre sicuramente di un bias di inclusione in quanto esclude automaticamente dal gruppo dei pazienti con noduli sottocapsulari quelli considerati ad eccessivo rischio di complicanze.

Per quanto riguarda ablazione con microonde, il razionale di utilizzo al posto della radiofrequenza risiede nel fatto che il calore trasmesso al tessuto dalle microonde risente meno dell’effetto di dissipazione determinato dalla circolazione sanguigna nei vasi posti in prossimità del tumore. Gli studi di confronto fra radiofrequenza e micronde hanno mostrato una sostanziale equivalenza fra le due metodiche, sia in termini di efficacia sia di complicanze post-intervento42.

1.5.4 Trattamenti transarteriosi

La chemioembolizzazione transarteriosa (TACE) costituisce il trattamento principale per i pazienti con HCC in stadio intermedio (BCLC-B). Il razionale di questa strategia terapeutica si fonda sulla spiccata vascolarizzazione arteriosa del nodulo tumorale. La procedura richiede pertanto che vengano identificate le diramazioni arteriose terminali che riforniscono il tumore, in modo da danneggiare meno possibile il fegato circostante. Successivamente vengono iniettati degli agenti citotossici (doxorubicina, epirubicina, cisplatino da soli o in combinazione) solitamente sospesi in un mezzo di contrasto oleoso, il Lipiodol®, che viene selettivamente trattenuto all'interno del tumore, aumentando l’esposizione delle cellule neoplastiche alla chemioterapia. Si procede quindi all’interruzione del flusso arterioso in seno al nodulo epatico per mezzo di particelle embolizzanti. In questo modo, il danno ottenuto sul tumore è sia di tipo citotossico che ischemico.

Due studi clinici randomizzati controllati hanno dimostrato il beneficio di sopravvivenza ottenuto mediante la TACE rispetto alle terapie di supporto43. In una recente revisione sistematica che ha incluso 101 studi sulla TACE con un totale di 10108 pazienti valutati, è

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stato riportato un tasso di efficacia del trattamento pari al 52.5% con una sopravvivenza del 70.3% ad un anno, del 51.8% a due anni, del 40.4 a tre anni e del 32.4% a cinque anni44. Nel valutare l’indicazione alla TACE è di particolare importanza tenere conto della funzionalità epatica e delle condizioni generali del paziente poiché in presenza di una funzionalità compromessa e di condizioni scadute l’intervento terapeutico può essere solo peggiorativo. In presenza di indici di funzionalità ridotta (bilirubina >2 mg/dL), il trattamento di una massa tumorale superiore al 50% del volume epatico espone ad un elevato rischio di insufficienza epatica nel post-intervento. Inoltre la presenza di eventuale invasione vascolare dei rami portali principali o di un flusso portale eccessivamente ridotto, costituisce una controindicazione assoluta alla TACE per l’eccessivo rischio di indurre necrosi estesa e morte per insufficienza epatica45.

Dopo un’iniziale risposta, la neoplasia può sviluppare una nuova vascolarizzazione e può essere indicato un ritrattamento. Ad oggi è preferibile ritrattare il paziente solo in caso di accertata ripresa di malattia piuttosto che programmare un ritrattamento a distanza di un tempo prestabilito. Si ritiene invece controindicato ritrattare quando vi sia evidenza di mancato controllo della malattia dopo due tentativi di TACE, o in caso di fallimento del secondo trattamento nel controllare i foci di malattia progrediti dopo il primo intervento. Occorre infine ricordare che gli agenti chemioterapici come la doxorubicina e altre antracicline possono indurre cardiotossicità in modo dose-dipendente, pertanto la frazione di eiezione ventricolare sinistra deve essere preliminarmente accertata in tutti i pazienti candidati e la dose cumulativa di farmaco infuso non deve superare i 450 mg/m2 46.

Una possibile opzione terapeutica per i pazienti con invasione vascolare e/o trombosi portale non candidabili a TACE è rappresentata dalla radioembolizzazione transarteriosa (TARE o selective internal radiation therapy, SIRT). Essa consiste nell’infusione arteriosa di microsfere ricoperte di ittrio 90, le quali sono dotate di minimo effetto embolizzante e si distribuiscono prevalentemente nei piccoli vasi che riforniscono il tumore; qui emettono alta energia a basso potenziale penetrativo, esercitando un’azione molto selettiva sull’area di malattia con il vantaggio di indurre minore tossicità rispetto alla TACE47.

Studi di coorte hanno riportato una sopravvivenza mediana di 16.9-17.2 mesi per i pazienti in stadio intermedio e di 10-12 mesi per i pazienti in stadio avanzato con invasione vascolare48. In quest’ultima categoria di pazienti l’efficacia della TARE è stata confrontata con quella della terapia sistemica (sorafenib) in due trial clinici randomizzati. Sebbene sia stato riportato in entrambi gli studi un tempo libero da progressione di malattia superiore nel braccio dei

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pazienti trattati con TARE, questo non si è tradotto in un significativo vantaggio in termini di sopravvivenza49.

Occorre infine ricordare che l’esecuzione di una TARE comporta uno studio preliminare della vascolarizzazione epatica, durante il quale vengono identificati i rami arteriosi che saranno sede del trattamento e vengono infusi macroaggregati di albumina tracciati con tecnezio 99, in modo da prevedere la dose radioattiva che interesserà il tumore e il fegato circostante, ed escludere la presenza di severi shunt vascolari che controindicherebbero la procedura. Per la complessità di queste procedure, che richiede la collaborazione di più specialisti e la presenza di adeguata strumentazione, tale opzione terapeutica è limitata a pochi centri di riferimento e non ha ancora avuto diffusione su larga scala.

1.5.5 Terapia sistemica

I trattamenti sistemici si applicano quando lo stadio di malattia non permette di effettuare nessun trattamento alternativo, quindi in pazienti con HCC in stadio avanzato con performance status tale da non controindicare un intervento terapeutico (BCLC-C). Allo stato attuale, sono tre i farmaci sistemici che hanno mostrato un beneficio in studi di fase III: sorafenib e lenvatinib come trattamenti di prima linea, regorafenib come trattamento di seconda linea.

Si tratta di farmaci inibitori multi-chinasici in grado quindi di bloccare simultaneamente più di un pathway di signalling intracellulare. Sorafenib è stato il primo farmaco sistemico ad essere introdotto nel trattamento dell’HCC in fase avanzata, dopo che il trial registrativo aveva mostrato un vantaggio in sopravvivenza rispetto al placebo (10.7 vs 7.9 mesi)24.

Le linee guida EASL ne raccomandano l’utilizzo in prima linea nei pazienti con funzionalità epatica conservata (Child-Pugh A). Il trattamento con sorafenib dovrebbe essere mantenuto fino alla progressione radiologica, tuttavia la terapia non è scevra di effetti collaterali che talora rendono necessaria la sospensione anticipata: fra questi i più comuni sono la diarrea e la sindrome mani-piedi. Proprio per il profilo di tollerabilità sub-ottimale, non è raccomandabile l’utilizzo di questo farmaco in pazienti con funzionalità epatica ridotta (Child-Pugh B).

Il lenvatinib è un inibitore multi-chinasico che riconosce vari bersagli molecolari tra cui i recettori di VEGF, FGF e PDGF-α. Il farmaco è attualmente in fase di approvazione come trattamento di prima linea dopo i risultati di uno studio di fase III che ne ha dimostrato la non-inferiorità rispetto a sorafenib. (sopravvivenza mediana di 13.6 mesi, vs 12.3 di sorafenib). Il trattamento con lenvatinib ha inoltre ottenuto un beneficio in termini di progressione libera da malattia (7.4 mesi vs 3.7 mesi). Fra gli effetti collaterali principali (>5%) si segnalano:

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ipertensione, calo ponderale, riduzione della conta piastrinica, incremento di ALT e riduzione dell’appetito26.

Infine il regorafenib, un altro inibitore multi-chinasico ad azione angiogenica e anti-proliferativa, è stato recentemente approvato dagli enti regolatori del farmaco negli Stati Uniti e in Europa come terapia di seconda linea, dopo che un recente studio di fase III ha mostrato un beneficio nei pazienti con progressione di malattia che avevano tollerato il sorafenib (sopravvivenza mediana 10.6 mesi vs 7.8 mesi del braccio placebo). Gli effetti collaterali riportati dallo studio sono stati, in ordine di frequenza, sindrome mani-piedi, affaticamento e ipertensione25.

A fronte del vantaggio di sopravvivenza ottenuto con queste molecole, che comunque è generalmente limitato a qualche mese, molte altre terapie sperimentali hanno fallito nell’ottenere un beneficio clinico. Questo aspetto riflette in parte l’intrinseca chemioresistenza, ampiamente riconosciuta per l’epatocarcinoma, in parte è legato al fatto che la concomitante presenza di una epatopatia avanzata limita fortemente la tollerabilità alle terapie stesse.

Per quanto riguarda le prospettive future, molte aspettative sono rivolte verso il possibile ruolo dell’immunoterapia; in particolare sono stati presentati dati preliminari sull’utilizzo del nivolumab, un anticorpo monoclonale già approvato nel trattamento del melanoma metastatico. Il meccanismo d’azione del farmaco è quello di antagonizzare il PD-1 un recettore ad azione inibitoria espresso sui linfociti T, con un conseguente rinforzo dell’attività antitumorale cellulo-mediata. Nell’ambito dei pazienti con HCC in fase avanzata, progrediti dopo sorafenib, un recente studio di fase II ha riportato una sopravvivenza mediana di 16 mesi, con effetti collaterali gestibili fra i quali si segnalano affaticamento, prurito, diarrea e incremento degli enzimi epatici50.

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Capitolo 2

La Sorveglianza di HCC

2.1 Sorveglianza vs screening

La sorveglianza e lo screening di una popolazione sono concetti di medicina preventiva talvolta usati erroneamente come sinonimi. Si tratta di interventi sanitari a servizio della salute pubblica che mirano all’identificazione precoce di una patologia attraverso l’applicazione periodica di test diagnostici. La differenza sostanziale che li distingue è la popolazione su cui si applicano. Lo screening infatti interviene su una fascia più o meno ampia di popolazione generale in assenza di segni o sintomi di malattia, quindi considerata sana fino a prova contraria. La sorveglianza invece si applica a pazienti già individuati come portatori di una determinata condizione medica che li espone ad un aumentato rischio di sviluppare una data patologia.

La sostenibilità di questi programmi, classificabili come interventi di prevenzione secondaria, si basa su analisi di costo-beneficio e dipende da diversi fattori. Primo fra tutti, la diagnosi precoce deve tradursi in un vantaggio concreto in termini di sopravvivenza. Infatti, non avrebbe alcuna utilità diagnosticare precocemente una patologia che in ogni caso non lascia spazio ad interventi terapeutici significativi. In secondo luogo, i test diagnostici da applicare periodicamente devono essere sicuri e facilmente accettabili dalla popolazione, devono avere costi contenuti e dimostrare performance diagnostiche ottimali, in grado cioè di identificare le persone malate con la maggiore precisione possibile.

Infine, è fondamentale identificare accuratamente in quali categorie di soggetti tali programmi si devono applicare. Come accennato, mentre lo screening si applica a tappeto su ampie fette di popolazione, la sorveglianza presuppone che vengano identificate le categorie di soggetti a rischio di sviluppare una certa patologia. A tal fine occorre considerare due aspetti: l’incidenza della patologia da sorvegliare nei soggetti a rischio e la possibilità di trattare questi pazienti in modo efficace e possibilmente radicale51.

2.2 Popolazioni da sorvegliare

Entrando nel merito della sorveglianza dell’epatocarcinoma, verranno approfondite di seguito le categorie di pazienti in cui essa deve essere applicata, secondo le attuali raccomandazioni delle linee guida EASL (Tabella 2).

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Tabella 2: Categorie di pazienti in cui è raccomandata la sorveglianza

Pazienti con Cirrosi, Child-Pugh A e B

Pazienti con Cirrosi, Child-Pugh C in attesa di trapianto di fegato

Pazienti senza cirrosi, con infezione cronica da HBV a rischio di HCC intermedio (score PAGE-B*: 10-17) e elevato (PAGE-B* ≥18)

Pazienti senza cirrosi, con fibrosi F3, a prescindere dall’eziologia, in base al rischio individuale

* PAGE-B (Platelet, Age, Gender, Hepatitis B): sistema di punteggio per la valutazione individuale del rischio di HCC, validato in soggetti di razza caucasica. Viene assegnato un punteggio in base alla decade di vita (16-29 = 0, 30-39 = 2, 40-49 = 4, 50-59 = 6, 60-69 = 8, ≥70 = 10), al genere (M = 6. F = 0) e alla conta piastrinica (≥200.000/mmc = 0, 100.000-199.000/mmc = 1, <100.000/mmc = 2). Un punteggio ≤9 identifica un basso rischio di HCC (vicino allo 0% a 5 anni); un punteggio di 10-17 identifica un rischio intermedio (3% a 5 anni); un punteggio ≥ 18 identifica un rischio elevato (17% a 5 anni)52.

Nell’ambito dei pazienti con cirrosi gli studi di costo-beneficio indicano che un’incidenza di HCC maggiore o uguale all’1.5% annuo garantisce la sostenibilità della sorveglianza53.

Tuttavia, dal momento che una severa compromissione della funzionalità epatica limiterebbe significativamente la possibilità di un intervento sulla neoplasia, i pazienti con cirrosi scompensata (Child-Pugh C) dovrebbero essere sorvegliati solo se in previsione di trapianto di fegato, dove lo sviluppo di un HCC potrebbe influire sia sulla priorità del soggetto in lista trapianto, sia sulla trapiantabilità stessa54.

Fra i pazienti senza cirrosi la sorveglianza continua ad essere raccomandata per i soggetti con infezione cronica da HBV che hanno un aumentato rischio di sviluppare HCC rispetto alla popolazione generale in virtù del potenziale oncogenico diretto del virus. L’assenza di significativa fibrosi determina un rischio certamente inferiore rispetto ai cirrotici, tuttavia per la minore entità del danno epatico è verosimile che questi pazienti possano accedere con più probabilità ad interventi radicali sulla neoplasia, pertanto sulla base degli studi di costo-beneficio un’incidenza annua di HCC maggiore o uguale allo 0.2% sarebbe sufficiente a giustificare i programmi di sorveglianza53. Un aspetto importante da tenere in considerazione è che il rischio di HCC in questa categoria di pazienti risulta ampiamente variabile e dipende da molteplici parametri quali il genere, l’età, la provenienza geografica, la fase dell’infezione da HBV e gli eventuali trattamenti antivirali55. Nel tentativo di ottenere una stratificazione del

rischio individuale di HCC, sono stati proposti alcuni modelli sui quali tuttavia non è stato trovato un consenso univoco56. Le linee guida EASL riportano lo score PAGE-B (Platelet,

Age, Gender, Hepatitis B) che assegna ciascun paziente ad una classe di rischio per mezzo di un punteggio calcolato in base al genere, alla decade di età e alla conta piastrinica52. Pur

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pazienti a rischio intermedio e alto (PAGE-B score 10-17 e ≥18, rispettivamente). Il rischio di HCC in questa categoria di pazienti, dovrebbe comunque essere rivalutato su base individuale con cadenza annuale.

Nel caso dei pazienti con epatite cronica da HCV, la presenza di fibrosi avanzata (bridging fibrosis, stadio F3 secondo Metavir) si associa ad un rischio del 5% annuo di progredire verso la cirrosi e le sue complicanze57, pertanto anche per questi pazienti sussiste un rischio di HCC aumentato rispetto alla popolazione generale. In mancanza di modelli standardizzati per una più fine caratterizzazione del rischio oncologico, è consigliabile sorvegliare i pazienti F3 con infezione da HCV che presentino fattori di rischio individuale (genere maschile, età avanzata, familiarità per HCC, multifattorialità del danno epatico, elevati valori di elastometria epatica)58.

Non ci sono invece sufficienti informazioni sul rischio di HCC nei pazienti non cirrotici affetti da epatopatia dismetabolica (NAFLD/NASH). Si stima che circa la metà dei casi di HCC ad eziologia NASH possa svilupparsi in pazienti senza cirrosi59, tuttavia l’incidenza di

HCC nei pazienti senza malattia avanzata è troppo bassa per giustificare la sorveglianza, soprattutto in relazione agli alti tassi di prevalenza della NAFLD nella popolazione generale. In considerazione di ciò, uno degli obiettivi primari per il futuro sarà quello di identificare i pazienti con epatopatia dismetabolica a più alto rischio di HCC e per i quali è indicato mantenere una periodica sorveglianza.

Attualmente, in mancanza di una più fine caratterizzazione del rischio oncologico, le linee guida EASL riportano che la sorveglianza può essere considerata a livello del singolo individuo nei pazienti con fibrosi avanzata, senza cirrosi, indipendentemente dall’eziologia. In conclusione, meritano una menzione a parte i pazienti affetti da epatopatia cronica virale sottoposti efficacemente ad un trattamento antivirale. In questo caso l’intervento terapeutico costituisce il principale metodo di prevenzione secondaria verso lo sviluppo di HCC, che risulta tanto più efficace quanto più precocemente si inserisce nella storia naturale dell’epatopatia, evitandone la progressione verso gli stadi più avanzati e le sue complicanze. Per quanto riguarda HBV, un recente studio europeo indica che dopo i primi cinque anni di terapia efficace con analoghi nucleos(t)idici (NUC, in particolare entecavir e tenofovir) il rischio annuale di HCC si riduce soprattutto nei pazienti con cirrosi (3.22% vs 1.57%), risultando indipendentemente associato all’età avanzata, a bassi valori di piastrine e alla persistenza di elevati valori elastometrici (≥12.0 kPa)60. Questo dato clinico trova un corrispettivo istologico nella regressione della fibrosi, documentata in pazienti trattati a lungo termine con NUC per i quali erano disponibili biopsie ripetute nel tempo61.

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Per quanto riguarda HCV, il rischio di HCC e in generale di mortalità da tutte le possibili complicanze correlate all’epatopatia, si riduce nei pazienti che hanno ottenuto una risposta virologica sostenuta dopo Interferone (IFN)62. Il rischio si riduce indipendentemente dal livello di fibrosi pre-terapia, ma non si annulla completamente e rimane rilevante nei pazienti con cirrosi63 che necessitano pertanto il mantenimento della sorveglianza.

L’introduzione dei farmaci antivirali ad azione diretta (direct-acting antivirals, DAAs) per il trattamento dell’epatite C ha indubbiamente rappresentato un breakthrough fondamentale permettendo alla quasi totalità dei pazienti con infezione cronica da HCV di ottenere l’eradicazione del virus con un profilo di tollerabilità ottimale. A discapito di ciò, nel 2016, due studi indipendenti hanno lanciato un segnale di allarme circa un potenziale aumento del tasso di HCC (sia come recidiva dopo un intervento efficace, che come neoplasia di nuova insorgenza), nei pazienti sottoposti a terapia con DAAs64, 65, riportando anche la tendenza ad un atteggiamento più aggressivo della neoplasia. A possibile spiegazione di tali osservazioni si è ipotizzato che l’improvviso cambiamento dello status infiammatorio indotto dalla terapia antivirale nel micro-ambiente cellulare epatico potesse ripercuotersi negativamente sui meccanismi di immunosorveglianza verso eventuali cloni neoplastici già presenti a livello pre-clinico. In alternativa, la maggiore incidenza di HCC potrebbe essere semplicemente da attribuire ad un bias di selezione derivante dall’aver potuto trattare con DAAs pazienti con malattia molto più avanzata rispetto a quelli che avevano ricevuto un trattamento con IFN. Per fare chiarezza su questi importanti aspetti sono stati avviati numerosi studi a livello internazionale e vi è una significativa prevalenza di evidenze che portano ad escludere un ruolo dei DAAs nel determinare un incrementato rischio di HCC. In particolare, una recente meta-analisi ha confermato che il rischio di HCC nei pazienti con risposta virologica sostenuta dopo DAAs non è diverso da quello osservato nei pazienti che erano stati trattati con IFN66.

Sebbene l’allerta iniziale sia stata ridimensionata, persistono alcune perplessità principalmente dovute ai limiti di molti studi presentati, spesso basati su casistiche retrospettive e con dati di follow-up ancora parziali. Rimangono infine altri importanti aspetti da approfondire da un punto di vista strettamente fisiopatologico, in particolare legati ai pattern di recidiva tumorale e all’effettivo ruolo dei meccanismi innati di immunosorveglianza.

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2.3 Tipologia di sorveglianza

Nel redigere e aggiornare le linee guida sulla gestione dell’HCC, le principali società scientifiche epatologiche nazionali e internazionali definiscono la tipologia di test da applicare per la sorveglianza dei pazienti a rischio. Tali indicazioni sono soggette a revisioni nel tempo sulla base delle conoscenze a disposizione e presentano alcune peculiarità legate ai diversi orientamenti riscontrati in seno alle società stesse, derivanti a loro volta dalle caratteristiche epidemiologiche e socio-economiche delle aree geografiche di appartenenza.

Come verrà meglio dettagliato nei paragrafi successivi, gli strumenti diagnostici che nel tempo sono stati maggiormente applicati e studiati nella sorveglianza dell’HCC sono l’ecografia addominale e il dosaggio dell’alfa-fetoproteina (AFP), che storicamente costituisce il biomarcatore sierico di HCC per eccellenza. Ad oggi l’ecografia addominale rappresenta l’unica modalità di sorveglianza unanimemente riconosciuta; al contrario, l’utilizzo dei biomarcatori sierici come ulteriore strumento di sorveglianza costituisce un aspetto su cui si registrano pareri e raccomandazioni discordanti.

A questo proposito, le precedenti versioni delle linee guida redatte dall’AASLD (American Association for the Study of Liver Diseases) e dall’EASL, scoraggiavano l’utilizzo dell’AFP considerando insufficienti i dati a supporto di un suo valore aggiunto nella sorveglianza di HCC67, 68. Quello che sembrava essere l’orientamento dominante da parte delle società

scientifiche, veniva contraddetto solo dalla Società Giapponese di Epatologia (Japanese Society of Hepatology, JSH), che fin dalla prima edizione delle proprie linee guida (2005) raccomanda di eseguire la sorveglianza associando all’ecografia addominale il dosaggio dell’AFP e di altri due ben noti biomarcatori di HCC quali l’AFP-L3 e il PIVKA-II (Protein induced by Vitamin-K Absence/Antagonist-II)69.

Nel più recente aggiornamento delle linee guida delle società Occidentali (AASLD, EASL) è stata mostrata una maggiore apertura verso la possibilità di applicare i test sierologici in sorveglianza. L’AASLD, ad esempio, raccomanda l’utilizzo dell’ecografia semestrale con o senza il dosaggio dell’AFP70. L’aggiunta del biomarcatore sierico viene quindi demandata alla scelta del clinico e la motivazione addotta nel razionale della raccomandazione rimanda al risultato di alcuni studi che hanno confrontato l’utilizzo della sola ecografia rispetto alla associazione di ecografia e AFP. Sebbene si osservi un beneficio in termini di aumentata sopravvivenza nei pazienti sorvegliati con l’associazione di ecografia e AFP, le differenze rispetto all’utilizzo della sola ecografia non sono risultate statisticamente significative. Viene comunque ribadito che gli studi condotti finora sono gravati da limiti metodologici che potrebbero ridurne l’affidabilità, primo fra tutti una potenza statistica inadeguata a cogliere un

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vantaggio di sopravvivenza71. Similmente a quanto sopraindicato, le linee guida EASL menzionano la possibilità di effettuare test sierologici, pur sottolineandone i limiti diagnostici e la mancanza di sicure evidenze a sostegno del loro utilizzo come strumenti di routine nella sorveglianza17.

Infine, la società epatologica che riunisce i paesi dell’Asia-Pacifica (Asian-Pacific Association for the Study of the Liver, APASL), altra importante società internazionale insieme a quella americana ed europea, lascia spazio all’AFP in combinazione con l’ecografia, precisando tuttavia che essa non può essere usata a conferma di un sospetto diagnostico per i noduli di piccole dimensioni e stabilendo il cut-off di 200 ng/mL come soglia ideale in grado di limitare risultati falsamente positivi e migliorare le performance diagnostiche72.

2.4 Intervallo di sorveglianza

L’intervallo di sorveglianza consigliato da tutte le principali linee guida è semestrale ed è stato definito in base al tempo medio di raddoppiamento dell’epatocarcinoma, stimato essere fra i quattro e i sei mesi. Gli studi di costo-beneficio che hanno confrontato programmi di sorveglianza basati su tempistiche diverse (dai tre ai dodici mesi) sono concordi nel sostenere che una finestra temporale di sei mesi sia quella ideale. Si è dimostrato infatti che una sorveglianza trimestrale non è in grado di aggiungere alcun vantaggio clinico73, mentre una sorveglianza annuale, pur continuando a soddisfare i criteri di costo-beneficio, riduce il tasso di diagnosi precoce e associa ad una sopravvivenza inferiore74. L’intervallo di sorveglianza semestrale quindi risulta una scelta ragionevole sia perché in linea con la velocità di crescita della neoplasia, sia perché ad oggi appare quello più efficace.

2.5 L’ecografia addominale

Con una sensibilità diagnostica del 60% e una specificità variabile fra l’85 e il 90%, l’ecografia addominale costituisce l’esame cardine nella sorveglianza di HCC75. L’ecografia ha i vantaggi di essere una metodica non invasiva e priva di rischi, ben accetta dai pazienti e con costi relativamente contenuti.

D’altra parte, l’eccessiva adiposità addominale dei pazienti sovrappeso/obesi, o la presenza di pattern ecostrutturali di tipo micro-macronodulare, tipici della cirrosi, ne limitano l’accuratezza diagnostica, rendendo questa metodica altamente dipendente dall’esperienza dell’operatore soprattutto per noduli di piccole dimensioni76. L’ecografia rimane comunque un esame di primo livello di fondamentale importanza per l’identificazione delle focalità

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epatiche, mentre non può essere utilizzata con finalità diagnostica. Le anomalie della vascolarizzazione nel contesto di un nodulo epatico rappresentano infatti un segno di viraggio neoplastico che l’ecografia B-mode, anche in modalità Color-Doppler, non è in grado di cogliere.

L’ecografia con mezzo di contrasto (contrast-enhanced ultrasound, CEUS) ha il merito di risolvere questo svantaggio e una recente meta-analisi ne ha riportato una performance diagnostica sostanzialmente sovrapponibile a quelle di TC e RM77. L’applicabilità della CEUS in sorveglianza risente comunque degli stessi limiti dell’ecografia B-mode. Se infatti la finestra ecografica è sub-ottimale, l’aggiunta del mezzo di contrasto non porterà ulteriori vantaggi. Inoltre la CEUS non risulta superiore alla semplice ecografia nella diagnosi dei noduli di piccole dimensioni e ben differenziati. In questi casi infatti, il wash-out del mezzo di contrasto in fase portale può essere relativamente poco evidente e più difficile da valutare su scansioni ecografiche manuali da valutare in tempo reale78. In considerazione di ciò, non vi

sono indicazioni per l’applicazione della CEUS nella sorveglianza dell’HCC.

2.6 Efficacia della sorveglianza

Esiste un solo trial randomizzato controllato sull’efficacia della sorveglianza. Si tratta di uno studio di popolazione eseguito in Cina su oltre 18.000 soggetti con epatite cronica B; i pazienti nel braccio sperimentale (58.2%) venivano sottoposti semestralmente ad ecografia e dosaggio dell’AFP, mentre i pazienti nel braccio di controllo (41.8%) non ricevevano alcuna sorveglianza. Nonostante il limite derivante da una non ottimale aderenza agli accertamenti periodici nel braccio sperimentale, si è registrata una riduzione pari al 37% della mortalità correlata ad HCC rispetto al braccio di controllo, legata al fatto che nei pazienti sottoposti a sorveglianza l’HCC veniva diagnosticato in fase precoce e risultava trattabile mediante resezione nella maggior parte dei casi79.

Altri studi retrospettivi e analisi di costo-beneficio hanno prodotto nella maggior parte dei casi evidenze a supporto dell’utilità della sorveglianza, tuttavia non mancano contraddizioni e risultati eterogenei dovuti principalmente ai limiti metodologici degli studi presenti in letteratura. Un aspetto di primaria importanza, ad esempio, è la possibile interferenza di due tipologie di bias: il “lead-time bias”, per cui l’aumentata sopravvivenza dei pazienti in sorveglianza potrebbe essere solo apparente e dipendere dal fatto che viene anticipata la diagnosi, senza che questo cambi la storia naturale della malattia; e il “lenght-time bias”, per cui in corso di sorveglianza si selezionano inevitabilmente pazienti con neoplasie a crescita

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lenta in quanto le neoplasie a crescita rapida hanno una fase asintomatica breve e vengono diagnosticate più frequentemente in seguito all’insorgenza dei sintomi.

Entrambi i bias possono influire sui dati di sopravvivenza dei pazienti sottoposti a sorveglianza, determinandone una sovrastima. A tal proposito, un recente studio caso-controllo italiano ha corretto i dati di sopravvivenza stimando un “lead-time bias” equivalente a 6.5 mesi, il cui effetto confondente si annullava comunque dopo tre anni dalla diagnosi, a dimostrazione del fatto che la sorveglianza a cadenza semestrale mantiene un effettivo beneficio soprattutto a lungo termine80.

Nella pratica clinica, la più consistente dimostrazione dell’effetto positivo della sorveglianza proviene dal Giappone, che è stato il primo paese ad introdurla in maniera capillare a livello nazionale. Fin dai primi anni ’90 sono state impiegate risorse pubbliche per formare i medici e sensibilizzare i pazienti a rischio sull’importanza di sottoporsi ad una sorveglianza periodica. Il servizio sanitario nazionale promuove attivamente lo screening gratuito dei virus epatitici maggiori per identificare i soggetti a rischio e avviarli alla sorveglianza periodica, coprendo le spese dell’ecografia addominale e del dosaggio di tre biomarcatori sierici di HCC (AFP, PIVKA-II e AFP-L3).

Il risultato di queste misure preventive è che in Giappone il 62% degli HCC viene diagnosticato in fase precoce (BCLC 0/A), il 32% in fase intermedia (BCLC B) e solo il 6% in fase avanzata (BCLC C/D), mentre lo scenario corrispondente nei paesi Occidentali vede il 30% dei casi diagnosticati in stadio BCLC-A, il 20% in stadio BCLC B, il 40% in stadi BCLC C e il 10% in stadio BCLC D81.

Infine, secondo il registro giapponese di sorveglianza nazionale, il tasso di sopravvivenza a 5 anni risulta essere del 43%82, mentre si ferma all’11-15% negli Stati Uniti83 ad ulteriore conferma dell’importanza e dell’efficacia dei programmi di sorveglianza nazionale. Come già accennato è possibile che parte del beneficio osservato in termini di sopravvivenza sia dovuto a bias metodologici connessi alla tipologia di studio, ma è anche evidente che la diagnosi precoce nella maggior parte dei casi aumenta le probabilità di un intervento curativo (resezione, ablazione o trapianto) in grado di modificare in maniera sostanziale la storia naturale della neoplasia e la prognosi dei pazienti.

2.7 Il ruolo dei biomarcatori nella sorveglianza

Abbiamo parlato del ruolo ubiquitariamente riconosciuto dell’ecografia nella sorveglianza di HCC, mentre si è accennato di come il dosaggio dei biomarcatori sierici rappresenti un aspetto ancora controverso e non sia raccomandato dalle linee guida internazionali. E’

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comunque interessante sottolineare come nella pratica clinica molti medici in Asia, Europa e Nord America continuino ad utilizzare l’AFP in aggiunta all’ecografia84.

Non mancano evidenze a supporto dei vantaggi dei biomarcatori rispetto alla stessa ecografia, riportati più recentemente da studi che hanno introdotto la distinzione tra i concetti di “efficacy” ed “effectiveness” della sorveglianza. Con “efficacy”, che potremmo tradurre come “efficacia”, si intende infatti la performance di un qualsiasi intervento in condizioni ideali e controllate. Per contro, il termine “effectiveness”, traducibile come “efficienza”, rappresenta la performance di un intervento ottenuta con le condizioni e i limiti del mondo reale85. In questo senso l’ecografia dell’addome potrebbe essere idealmente il migliore metodo di screening, ma tenuto conto dei limiti legati alla costituzione fisica dei pazienti o all’esperienza dell’operatore, non è da escludere che nella pratica clinica essa risulti molto meno sensibile e specifica di quanto sia emerso dagli studi86.

Da questo punto di vista, il dosaggio di biomarcatori sierici ha il vantaggio di essere più standardizzabile e indipendente dal centro in cui viene eseguito. Inoltre, sempre nell’ottica dell’efficienza e del controllo delle risorse disponibili, non si può prescindere dal tenere conto del danno causato dai risultati falsamente positivi di un test, dove con danno si intende la necessità di richiedere altri interventi sanitari a completamento diagnostico che hanno un sicuro impatto in termini di spesa sull’intero sistema. A questo proposito è stato recentemente riportato che un risultato falsamente positivo ottenuto all’ecografia è associato a danno in misura maggiore rispetto alla falsa positività dell’AFP (22.8% vs 11.4%, P <0.001)87.

Un altro aspetto indirettamente a favore dell’uso dei biomarcatori di HCC in sorveglianza è rappresentato dai dati di efficacia provenienti dal Giappone, dove AFP, AFP-L3 e PIVKA-II sono dosati ogni 3-4 mesi nei pazienti con cirrosi da HBV e HCV (considerati a rischio estremamente alto) e semestralmente nei pazienti con epatite cronica da HBV, HCV e cirrosi non virale (considerati a rischio alto)88.

Nonostante le performance diagnostiche dei biomarcatori sierici siano ancora lontane dall’ideale, esistono numerose prove a favore della loro utilità e a fronte di un discredito da parte delle principali linee guida internazionali, l’orientamento generale nella pratica clinica è quello di un tacito consenso verso l’uso dei biomarcatori, a dimostrazione del potenziale informativo che essi mantengono a livello del singolo paziente.

Anche in considerazione di ciò, un ambito di studio particolarmente promettente nel campo dei biomarcatori sierici di HCC è quello di sviluppare degli algoritmi o dei modelli di analisi in grado di ottimizzarne le performance, ad esempio incorporando le informazioni derivanti dalla combinazione di più marcatori con quelle provenienti da fattori di rischio come l’età, il

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genere e l’eziologia dell’epatopatia di base, oppure considerando il trend ottenuto da misure ripetute nel tempo89. Questi nuovi potenziali sviluppi, combinati all’esecuzione periodica dell’ecografia addominale, potrebbero permettere di migliorare notevolmente l’efficacia della sorveglianza dell’HCC.

2.8 I biomarcatori di HCC 2.8.1 Alfa-fetoproteina (AFP)

Nel 1956 una breve comunicazione sulla rivista Scandinavian Journal of Clinical Laboratory

Investigation, descrisse la presenza di una proteina riscontrabile in elevate concentrazioni nel

sangue fetale, che sul tracciato elettroforetico occupava una posizione situata fra quella dell’albumina e quella delle alfa-1 globuline90. Qualche anno più tardi, nel 1963, Abelev

descrisse un’alfa globulina embrionale presente nel siero dei topi appena nati e scoprì che questa proteina poteva essere riscontrata anche nel siero dei topi adulti con tumore epatico91.

L’anno successivo, Tatarinov dimostrò che la variante umana della stessa proteina era presente nel siero dei pazienti affetti da carcinoma epatocellulare92.

L’alfa-1 globulina di topo identificata da Abelev poteva essere isolata dal medium colturale delle cellule di epatocarcinoma murino. Se tali cellule venivano iniettate nel fegato di un ratto, la proteina murina appariva nel siero dell’animale. Cominciò a diffondersi l’ipotesi che un’alfa-globulina normalmente presente nella vita embrionale e successivamente chiamata alfa-fetoproteina (AFP), potesse tornare ad essere sintetizzata dagli epatociti che subivano una trasformazione neoplastica93.

Per la prima volta veniva stabilito un legame fra una proteina prodotta durante l’embriogenesi e i tumori riscontrati nell’adulto, aprendo la strada ad un campo di indagine del tutto nuovo a metà strada fra la biologia dello sviluppo e la carcinogenesi94.

L’interesse clinico per la nuova proteina fu immediato e diede avvio alla messa a punto di metodi sensibili per la sua quantificazione nel siero. I primi test infatti si basavano su tecniche immunoelettroforetiche con un limite inferiore di sensibilità di 1 µg/mL; in seguito, a partire dal 1971, furono sviluppati test basati su tecniche radioimmunoenzimatiche che permisero di aumentare la sensibilità di 1000 volte rispetto ai precedenti metodi, fino ad un limite inferiore di detezione di 1 ng/mL. Grazie a questi sviluppi metodologici, i livelli sierici di AFP furono accuratamente definiti in varie condizioni fisiologiche e patologiche nell’uomo e nei modelli animali studiati. Il valore di normalità di AFP nel siero dei soggetti sani adulti fu definito fra 5-10 ng/mL95.

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