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5.1: Goodbye Bafana (Il colore della libertà)

5.2. Invictus, l’invincibile (2009)

Il film Invictus, uscito nelle sale cinematografiche nel 2009 per la regia di Clint Eastwood, è forse la rappresentazione più nota al largo pubblico delle vicende mandeliane. Corredato da un cast stellare, con Morgan Freeman a prestare il volto a Madiba e Matt Damon a impersonare il capitano della squadra di rugby François Pieenar, il film si attesta su un unico particolare della vita del leader sudafricano: la sua passione per il rugby. Grande amante dello sport, Mandela si appassionò al rugby in maniera graduale, conducendo la squadra del bianco Pieenar all’insperata vittoria; Eastwood propone quindi Invictus, adattamento cinematografico del romanzo Playing the Enemy:

Nelson Mandela and the Game that Made a Nation di John Carlin, a sua volta ispirato a

fatti realmente accaduti, e catalizza l’attenzione sulla situazione politico-sociale immediatamente successiva alla elezione di Nelson Mandela come Presidente della Repubblica, avvenuta nel 1994. Il regista si prodiga nell’intento di indagare la psicologia che anima il popolo a seguito delle elezioni, fotografando, di fatto, un paese in cui le tensioni risultano ancora piuttosto forti. Il perimetro semantico del film è da subito esplicitato, sin dalla prima scena: l’obiettivo della telecamera si posa infatti su due campi, uno verde, calpestato da una squadra di ragazzi bianchi dai completi verde-oro alle prese con il rugby, l'altro fatto di terreno sabbioso e arena di indisciplinate ma appassionate partitelle di calcio tra ragazzi neri. I cancelli dividono i rispettivi campi da gioco e isolano una strada, mentre sull’asfalto passa l'auto che trasporta il neo-scarcerato Nelson Mandela. I ragazzini neri smettono immediatamente di giocare a calcio e assistono esultanti al passaggio di Madiba, mentre i bianchi continuano, totalmente disinteressati, il loro allenamento di rugby; le barriere tra bianchi e neri sembrano invalicabili e netta è l'impressione che, al di là del quieto vivere, sia pressoché impossibile costruire altro.

Mandela, da sempre in prima linea per l’uguaglianza e il raggiungimento di un’armonia collettiva, prende a cuore la causa e si rivolge alla squadra nazionale di rugby per eccellenza, gli Springbocks, per cooperare al risollevamento delle sorti del paese. Gli

Springbocks rappresentano infatti una sineddoche emblematica dell’esistente spaccatura

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un giocatore nero. Con il Paese sull'orlo dell'implosione, Mandela intravede una speranza in un luogo insolito, un campo da rugby, e in vista della Coppa del Mondo del 1995, ospitata proprio dal Sudafrica, si interessa delle sorti della squadra, con la speranza che una eventuale vittoria contribuisca a rafforzare l'orgoglio nazionale e lo spirito di unità. Lo sport è capace di unire laddove la politica divide, e una buona riuscita contribuisce ad uno stato di sicuro benessere e, per questo, il Mandela di Eastwood sceglie questo settore come “trampolino di lancio” per la ricostruzione del suo Sudafrica.

La vita da uomo libero di Mandela appare qui scandita da ritmi veloci e impegnativi, che rischiano anche di mettere a repentaglio la sua salute, ma egli riesce sempre a ritagliarsi un momento per sé; le passeggiate notturne diventano quindi il “suo” momento personale, in costante compagnia di una scorta che lo protegge da eventuali attacchi di rivolta. Nel frattempo, i giornali titolano in maniera critica il suo operato già dal primo giorno, ma Madiba non si perde d’animo e continua a perseguire la sua politica di riconciliazione. Conosciamo, a questo punto, la famiglia di François Pieenar, il capitano della squadra di rugby: di origini boere, il nucleo familiare vive in una zona residenziale della città, in una casa molto grande, con una governante nera. La madre di François, di professione insegnante, è molto legata al figlio e, credendo di fare una buona azione, decide di regalare a un bambino africano la sua maglia da gioco: il bambino però rifiuta seccamente, e così si scopre facilmente quanto gli Springbocks rappresentino ancora un emblema dell’apartheid. Il solo idolo dei ragazzi africani è Chester, l’atleta nero della squadra, che però è ben presto messo fuori gioco da un brutto infortunio al tendine.

La vita politica di Mandela va di pari passo con l’interesse crescente verso il rugby, dapprima sempre ignorato; così, nel giro di pochi mesi, Madiba convoca tutti i membri del governo nel suo ufficio e li invita a restare (se essi credono in un futuro migliore), rifiuta lo stipendio, giudicato troppo elevato, e lo devolve in beneficenza, e poi si appresta a infoltire la sua scorta, affiancando ai suoi fidi protettori uomini scelti e ben addestrati di origine afrikaner, al fine di favorire l’interscambio e l’integrazione tra le due etnie. Intanto, tutto è pronto per l’inizio delle competizioni sportive: la prima gara vede fronteggiarsi il Sudafrica e l’Inghilterra e Mandela è fortemente intenzionato a seguire l’incontro direttamente allo stadio, scendendo in campo per augurare buona fortuna a Pieenar e compagni e spingendosi fin sugli spalti dello stadio gremito di persone favorevoli e contrarie alla sua elezione. La partita è ampiamente compromessa sin dalle

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prime battute, e gli Springbocks vivono così una brutta sconfitta: per i neri è l’occasione per indire una riunione reclamando a gran voce lo scioglimento della squadra, ma Mandela si mostra risoluto nel volerla ripristinare, mantenendone l’emblema, i colori e la storia e facendola tornare a vincere. A giustificazione di questa decisione, egli porta ad esempio l’esperienza di Robben Island: per prevalere e sopravvivere occorreva conoscere il nemico. Per questo è assolutamente importante non cadere negli errori compiuti da loro in passato, seminando odio e disparità, ma perdonare, considerando i nemici come nuovi fratelli, e lavorando insieme alla costruzione della “nazione arcobaleno”.

Per spronare la squadra, Madiba sceglie di coinvolgere direttamente il suo capitano, facendo recapitare a Pieenar un invito ufficiale presso il suo ufficio. Pieenar è al contempo sorpreso ed elettrizzato da questo incontro, ma cerca di non far trasparire alcuna emozione, e giunge al palazzo del governo ignorando i fotografi e i giornalisti appostati in attesa di notizie. Madiba lo accoglie in maniera estremamente informale, interessandosi subito della sua salute e offrendosi personalmente di fare gli onori di casa, mentre Pieenar tradisce un forte imbarazzo. Per rompere il ghiaccio, allora, Mandela intavola un dialogo con lui sulla filosofia del leader, secondo Pieenar da materializzarsi con l’esempio, secondo Mandela con l’innalzamento delle proprie aspettative e con l’interesse per l’altro. A dimostrazione della sua tesi, questi propone nuovamente il caso di Robben Island, e confida a Pieenar il suo segreto per resistere alla detenzione trovando un appiglio all’ottimismo anche da dietro le sbarre: una poesia vittoriana a lui molto cara, vero conforto per le sue pene durante gli anni di prigionia. La poesia in questione è Invictus (da cui il nome della pellicola) e porta la firma di William Ernest Henley (1849-1903), giornalista e scrittore inglese. Henley scrisse questo componimento in occasione della propria degenza in ospedale, a seguito della diagnosi della tubercolosi, e lo dedicò a R.T. Hamilton Bruce, amico e mercante scozzese, scomparso poco prima. Per Henley la poesia rappresentò una lode alla forza dello spirito, dell’indole umana e dell’immortalità dell’anima; gli stessi sentimenti invocati da Mandela nell’ “adottare” questi versi durante gli anni di detenzione. Il componimento presenta infatti molte parole-chiave, utili a ridefinire ancor più dettagliatamente i contorni del carattere e dei princìpi seguiti da Madiba:

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Out of the night that covers me, Black as the pit from pole to pole,

I thank whatever gods may be For my unconquerable soul. In the fell clutch of circumstance I have not winced nor cried aloud.

Under the bludgeoning of chance My head is bloody, but unbowed. Beyond this place of wrath and tears

Looms but the Horror of the shade, And yet the menace of the years Finds and shall find me unafraid. It matters not how strait the gate, How charged with punishments the scroll,

I am the master of my fate: I am the captain of my soul.117

Questa frequentazione fra Pienaar e Mandela dà inizio a una serie di eventi che rafforzano il morale degli Springboks (reduci da un lungo periodo di sconfitte) e li motivano ancor di più ad allenarsi duramente. Mandela organizza così dei corsi di formazione speciali nelle township, con Pieenar in prima linea a promuovere il progetto: assiste agli allenamenti, si informa su tutti i membri della squadra e segue tutte le fasi della preparazione da vicino. Il risultato confluisce nella prima vittoria stagionale degli

Springbocks, giunta a sorpresa contro l’Australia, e permette alla squadra di qualificarsi

per il girone successivo; intanto Pieenar e gli altri visitano il penitenziario di Robben Island, e il capitano rimane particolarmente colpito dalle condizioni disumane in cui vivevano i detenuti. Eastwood propone qui una scena molto toccante per lo spettatore, sovrapponendo le immagini del carcere con le parole della poesia, recitate da Mandela in sottofondo. Pieenar conosce ora il vero turning point della sua vita e della sua carriera: da questo momento in poi, infatti, non smetterà più di leggere quella poesia e di trovare l’energia spirituale in ogni momento della sua carriera sportiva, anche il più difficile. Gli

Springbocks vincono anche la seconda partita, disputata contro Samoa, e volano in finale,

dove devono vedersela con i temibili e imbattibili neozelandesi All Blacks.

Pieenar è molto pensieroso alla vigilia del match, e si interroga su come sia stato possibile, per Mandela, perdonare con tale facilità chi, per quasi trent’anni, lo aveva

117 William Ernest Henley, “Invictus”, 1875, in The Oxford Book of English Verse, David Nutt, London

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rinchiuso in cella; per stemperare la tensione, procura i biglietti per la finale a tutta la famiglia, includendo, a sorpresa, anche la governante. Il giorno della finale è arrivato, lo stadio pullula di tifosi di tutte le etnie, le bandiere sudafricane sventolano in un cielo terso, e il clima è di totale armonia. Un jet guidato da due bianchi sembra minacciare improvvisamente la quiete dell’Ellis Park Stadium, ma si tratta solo di un passaggio aereo contenente un messaggio di buon auspicio per la partita. Mandela fa così il suo ingresso trionfale allo stadio, accolto dal boato di 62 mila persone che urlano “Nelson!”, con la divisa verde-oro e il cappellino degli Springbocks.

La partita è molto agguerrita e gli All Blacks racimolano subito un netto vantaggio, ma Pieenar non ci sta, e, da vero capitano, sprona gli altri a recuperare i punti persi, giocando in difesa e sfruttando le ripartenze. Gli ultimi sette minuti di partita vengono vissuti con grande partecipazione da Mandela, divenuto ormai un agguerrito tifoso, e gli Springbocks vincono la Coppa del Mondo. Il successo della nazionale diventa simbolo del riavvicinamento della popolazione nera alla popolazione bianca e dell’avvio del processo di integrazione: in tutto il paese si respira un’aria di ottimismo e di entusiasmo generale.

La struttura narrativa del film si articola infatti sul paradigma metamorfico bianco/nero, e la squadra di rugby si mostra come una sineddoche del regime dell’apartheid e delle successive evoluzioni. La combinazione dei due elementi produce di fatto altre due contrapposizioni destinate a sciogliersi, quella tra padre e figlio della nazione e quella tra squadra e nazione. La territorialità dell’apartheid, così tangibile nella prima scena (oggettivata dai due campi da gioco), si annulla definitivamente nelle scene conclusive, amalgamando di fatto tutte le etnie in un comune sentimento di gioia e di felicità. La “simbiosi” tra Pieenar e Mandela è raccordabile agli ultimi due versi della poesia Invictus: entrambi, adesso, sono divenuti “capitani della loro anima”, in un destino che unisce, in maniera quasi sacra, un padre nero e un figlio bianco per un ideale comune. Un’anima invincibile, appunto, libera, priva di pregiudizi e paure, capace di superare tutte le avversità e di prendere in mano le redini della vita senza lasciarle mai.