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1.8: I percorsi dell’Io: l’autobiografia

Il genere autobiografico assume, nel contesto sudafricano, una valenza molto importante e storicamente “esemplare” in senso sia personale, sia etnografico. La necessità di mettere a nudo il proprio io attraverso le pagine di un testo emerge soprattutto durante il periodo dell’apartheid, in cui l’identità personale subisce le pressioni di costrizioni sociologiche e, in alcuni casi, rischia di essere annientata. Dal 1994 in poi, scrittori sia bianchi che neri (e meticci) non hanno comunque cessato di pubblicare numerose testimonianze autobiografiche dai contenuti interessanti e di sicuro impatto sui lettori.

L’autobiografia, nelle sue forme genealogiche di memoir, diario, letteratura di viaggio e quaderni di annotazione, ha un’origine molto antica: il manifestarsi di questo genere nel territorio di riferimento si rintraccia già nel lontano 1652, con la ormai nota pubblicazione del Journal del pioniere Jan van Rieebeck. Il Journal conteneva perlopiù appunti e riflessioni di viaggio, assieme ad un desiderio di natura empirica di conoscenza del territorio “nuovo” e “straniero” e dei suoi abitanti; per questo motivo, van Rieebeck ispirò le generazioni immediatamente successive alla sua attraverso l’esigenza di annotare tutte le curiosità e le differenze tra l’ambientazione e lo stile di vita europeo e quello dei popoli locali. Così, i missionari e gli avventurieri dell’800 si dedicarono alla stesura di diari, resoconti e memoir di vario genere: interessante citare, a tal proposito, l’emblematico

Alone Among the Zulus (1855) di Catherine Barter e i diari dei Voortrekkers Louis

Trichardt e Erasmus Smit (entrambi pubblicati nel 1836). Con l’egemonia inglese dei primi decenni dell’800, la tematica più importante per lo scrittore diventò la discussione

Sudafrica (1910) innescò sentimenti nazionalistici anche nella critica: gli interventi di Sidney Mendelssohn in South African Bibliography (1910) e di Manfred Nathan in South African Literature: A General Survey (1925) sono due degli esempi più autorevoli di rappresentanza e delineazione di una letteratura nazionale. Interventi critici nei confronti di una letteratura di alveo olandese, vista come eccessivamente circoscritta e subordinata ai modelli biblici o shakespeariani, portano la firma di Gerrit Basselaar, Elisabeth Conradie e E.C. Pienaar: perciò, nel 1923, una speciale edizione del giornale Ilanga Lase Natal attaccò questo tipo di “letteratura nazionale”, invitandola ad adottare uno spirito meno esclusivista e razziale, e a cercare piuttosto di stabilire una fratellanza “di cuore” tra gli inglesi e gli Zulu. La critica letteraria sviluppatasi negli anni dell’apartheid combina un punto di vista dialettico ed ideologico, dando vita a dibattiti (come quello di Albie Sachs e di N. Ndebele) che pongono nuovamente l’accento sugli aspetti sfaccettati delle varie letterature e sull’apporto che ciascuno è chiamato a dare al Sudafrica, affinché il Paese cresca e si migliori. Anche il web si mobilita per aprire forum e discussioni critiche sulla letteratura: Litnet è il primo sito web adibito a tale scopo.

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sulla proprietà della terra; le raccolte autobiografiche di questo periodo, catalogate sotto l’etichetta di genere life writing, evidenziano la difficoltà di definire l’appartenenza in relazione alla terra e alle sue ricchezze.46

È però soprattutto il ‘900 il secolo più permeato di racconti autobiografici nella loro forma più matura; nonostante la diffusione del romanzo imperiale, che riceve ampi riscontri di pubblico, il “senso del vissuto” offerto da un testo autobiografico ha una presa sotto altri aspetti maggiore, coniugando rilievo documentario e esperienza soggettiva. I primi contributi autobiografici moderni sono “figli” delle guerre anglo-boere e del Great

Trek: uno degli autori più conosciuti, Laurens van der Post, arricchì il suo testo di

elementi mitologici e magici, per conferire un alone più eroico alla sua storia47, mentre il poeta e scrittore Jan F.E. Celliers inserì nel suo diario Oorlogsdaboek (1978) contenuti militari e di natura bellica.

La scoperta delle miniere d’oro e di diamanti diede il via al processo di migrazione, confinando il soggetto (spesso quello non-bianco) in spazi ancora più stretti e in una situazione di perenne disagio a contatto con le nuove aree urbane; a risentirne, in misura ancora maggiore, sono le donne, che hanno ben poche possibilità di far sentire la loro voce. Saranno, in seguito, i testi di Ellen Kuzwayo Call me Woman (1985) e di Mamphela Ramphele A Life (1995) a veicolare importanti testimonianze di donne nere invischiate nella situazione disastrosa che l’apartheid e una società prevalentemente maschilista hanno inflitto sull’universo femminile. A fronte dell’egemonia bianca, è giusto spendere alcune parole in favore di quegli scrittori bianchi che, da subito, hanno preso le distanze dal regime e scritto memorabili pagine sulle loro vite; B. Breytenbach con The

Confessions (1984), Hilda Bernstein con The World that was Ours (1989) e Helen Joseph

con Side by Side (1986) sono solo alcune tra le voci di “denuncia” e dissidenza.

A seguito della revoca del bando per l’ANC (e altri organi) nel 1990 e della campagna di De Klerk per un Sudafrica futuro all’insegna dell’uguaglianza, anche gli scrittori bianchi tendenzialmente più “ortodossi” si sono sentiti più liberi di parlare di sé in rapporto alla nazione: gli esponenti più rilevanti si rintracciano soprattutto tra il 1990 e il 2009. Oltre ai testi precedentemente citati di Krog (Country of my Skull, 1998) e Behr

46 Le maggiori testimonianze dei viaggiatori e degli esploratori del periodo coloniale (inglesi e boeri),

assieme alle loro preoccupazioni e perplessità, sono discusse e sistematizzate da Stephen Gray nel volume Southern African Literature (1979) e da Van Wyk Smith in Grounds of Contest del 1990.

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(The Smell of Apples, 1995), nei quali le esperienze biografiche affiorano attraverso la ripresa di alcune testimonianze dei processi della TRC o grazie a proiezioni nei personaggi primari e secondari delle vicende, esistono altri contributi altrettanto importanti per comprendere il delinearsi o consolidarsi dell’identità in relazione alla storia all’interno di un contesto estremamente complesso e delicato. Coetzee sostiene che scrivere di sé sia un’operazione ambiziosa e complessa per uno scrittore, e anche che tutta la scrittura sia implicitamente autobiografica, un riflesso dell’io “tradotto” attraverso il codice del linguaggio e dell’immaginazione. I suoi tre romanzi di matrice dichiaratamente autobiografica, Boyhood (1997), Youth (2002) e Summertime (2009), sfidano il lettore a immergersi nella vita e nella quotidianità di un afrikaner dalla personalità introversa, più vicino all’ethos britannico e incarnante il “refusing colonial” nelle tappe che vanno da un’infanzia su cui grava il disagio psicologico fino alla sensibilità diasporica della gioventù e della più piena consapevolezza della raggiunta maturità. In tutti e tre i testi, Coetzee si concede anche delle riflessioni metaletterarie sulla scrittura, coinvolgendo il lettore nei dilemmi e nei dubbi che lo hanno attanagliato fin dall’adolescenza riguardo all’impegno e alla scelta di diventare scrittore e all’importanza della formazione culturale.

Tatamkulu Afrika, poeta e scrittore sudafricano di origine xhosa, si pone invece in una situazione di distacco e di disillusione rispetto al potere “guaritore” della TRC: la sua autobiografia, intitolata Mr Chameleon (2005), si fonda su una narrazione interamente retrospettiva in cui veniamo catapultati, insieme al protagonista, in uno stato anteriore di assoluta confusione e sgomento. Afrika si serve di questa storia per confessare anche il suo orientamento omosessuale, che ha provocato in lui, come nel suo doppio letterario, tormenti e tensioni al momento in cui si è trovato a renderlo pubblico. Dai contenuti più diretti e razionalmente organizzati è il testo di Karel Schoeman, anch’egli dichiaratamente omosessuale: Die Laaste Afrikaanse Boek, pubblicato nel 2002 con il titolo inglese The

Last Afrikaans Book, affianca un taglio oggettivo che fa leva sulle competenze di

antropologo dello scrittore stesso a una narrazione più intimistica e confessionale che accompagna le descrizioni della quotidianità; si deve parlare, in questo caso, di “auto- etnografia”, poiché Schoeman compone questo testo anche al fine di confrontarsi criticamente con le discriminazioni razziali e sessuali avallate dal National Party, denunciando la situazione di completo isolamento che egli stesso ha vissuto sin da piccolo.

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Un radicale cambiamento di prospettiva e di stile di vita è quello conosciuto dalla scrittrice bianca Elsa Joubert, appartenente a una famiglia benestante di fede ugonotta: la sua autobiografia, The Long Journey of Poppie Nongena (1980), è un vero e proprio viaggio nell’io della scrittrice, che ricostruisce tutti gli accadimenti che hanno portato a questo cambiamento importante. Dopo aver conseguito studi con curricula tipicamente afrikaner ed aver preso parte attivamente, su consiglio del padre, al GRA - Genootsksp

van Regte Afrikaners (l’associazione dei “veri” Afrikaner), inizia a scrivere per una rivista

e, proprio in quel momento, le terribili condizioni dei campi di concentramento tedeschi generano in lei la svolta epifanica: decide così di intraprendere un viaggio in varie zone dell’Africa, motivandolo come una vera e propria esigenza di affrancarsi da un’eredità culturale bianca ed europea soffocante e “colpevole”.

Figura di spicco tra i bianchi radicali opposti al regime, Breytenbach pubblica nel 1999 il lavoro autobiografico Woorwerk (Wordwork), asserendo di sentirsi legato alla famiglia e agli amici piuttosto che ad un preciso gruppo razziale. Ci tiene inoltre a definire l’opera come una “storia del sé”, scegliendo di ambientarne molti episodi in stanze da interrogatorio o luoghi di esecuzione, proiezioni ideali per la messa a nudo dell’io.

All’insegna di una coraggiosa messa a nudo, ed esempio di auto-etnografia, è anche l’opera di Sindiwe Magona, che nella sua prima autobiografia To My Children’s Children (1990) ripercorre la sua difficile gioventù, quando, disoccupata e abbandonata dal marito, si è trovata con tre figli da crescere. Tutta l’ingegnosità e la determinazione di una donna originaria delle aree rurali del Capo, poi laureatasi, quale Magona è, emergono nei suoi scritti autobiografici, emblematici del percorso affrontato da una donna intraprendente e capace di riprendere in mano la propria vita inseguendo un’occasione o un sogno, che tuttavia non le farà mai dimenticare i legami con la sua gente.

La prospettiva moderna e disincantata di Magona ispira lo scrittore nero Fred Khumalo, il quale, tra tutti gli autori finora considerati, è però l’unico ad associare esplicitamente (e criticamente) la sua autobiografia all’esperienza della TRC. La sua storia viene narrata con uno stile essenziale, a tratti umoristico e quasi surreale, e presenta un uomo che confessa le sue paure e le sue perplessità sulla base di una quotidianità terribile ma “ordinaria”. Nell’episodio che chiude Touch my Blood (2005), il protagonista assiste pietrificato al funerale del fratello minore, morto di AIDS, e deride assieme ad un

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amico le inefficaci campagne promosse dalle varie associazioni per scongiurare i decessi legati a questa malattia.

In questo sintetico excursus di scrittori cimentatisi con l’autobiografia non può mancare la figura assolutamente emblematica e carismatica di Nelson Mandela. Il suo capolavoro autobiografico Long Walk to Freedom, pubblicato nel 1994 ed oggetto principale della presente tesi, si colloca a metà tra il genere autobiografico confessionale e quello della Prison Literature. Le molte pagine che compongono questo testo dirigono l’attenzione, infatti, sia sull’aspetto quotidiano ed umano di una figura divenuta estremamente importante nel suo Paese, sia sulle vicende che pure hanno segnato la sua vita in maniera molto forte e che si raccordano agli anni che egli ha trascorso in carcere.

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CAPITOLO SECONDO:

L’IMPIANTO AUTOBIOGRAFICO