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La scrittura contro l’apartheid rispondeva negli anni ‘70 a un nome preciso, quello del militante Steve Biko. Fondatore del Black Consciousness Movement, egli si rivelò da subito “profetico” nelle sue parole, riportate ad e sempio come un vero e proprio manifesto nel testo (uscito dopo la sua morte) I Write What I Like del 197834; secondo Biko, e sull’onda di un pensiero connesso a Fanon, la realtà afro-americana, il panafricanismo, l’essere neri, non equivaleva soltanto ad avere una diversa pigmentazione della pelle, bensì a una vera e propria condizione di ingiusta emarginazione umana e sociale, da combattere con determinazione. Uno dei maggiori seguaci di Biko, Richard Rive, indagò ulteriormente la condizione dell’essere nero e, perciò, discriminato, all’interno del memoir Writing Black: An Author’s Notebook, del 1981; l’esigenza ideologica e letteraria di cooperare, con la scrittura, alla liberazione del Sudafrica da un regime razzista spinse molti scrittori ad aderire al movimento fondato da Biko, come Peter Horn, Jeremy Cronin, il già citato Rive, James Matthews, Achmat Dangor e molti altri. In quest’ambito spiccano i rappresentanti della Soweto Poetry, che acquisì un profilo netto dopo le tristi vicende di Sharpeville e di Soweto.

Il Black Consciousness Movement ebbe una risonanza enorme: non solo la letteratura, ma anche l’arte, la musica e la pittura iniziarono a profilarsi in quest’ottica espressiva. Alcuni poeti trassero inoltre ispirazione dalla storiografia recente per invitare il lettore a reagire e a far valere i princìpi della giustizia sociale e dell’identità nera, mentre altri attinsero alla sfera biografica e personale mettendo in luce tutti i sacrifici che negli anni avevano obbligato i neri a vivere in una condizione così obliterante per l’essere umano. La morte violenta di Steve Biko (12 settembre 1977), ufficialmente un decesso per cause naturali, ma in realtà conseguenza delle torture subite dai suoi carcerieri, ebbe una

34 “We have in our policy manifesto defined blacks as those who are by law or tradition politically,

economically and socially discriminated against as a group in the South African society and identifying themselves as a unit in the struggle towards the realisation of their aspirations.” – Steve Biko, I Write What I Like, A. Stubbs, London, Bowerdean 1978, p. 62.

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risonanza importante tra i poeti intenzionati a raccoglierne le testimonianze: i sentimenti di rabbia rivoluzionaria fanno da sfondo alla poesia di Mtschali, Fireflames, composta nel 1980 in connessione con l’ennesima uccisione, durante una manifestazione di protesta, di uno studente nero da parte delle forze di governo. I quattro “pilastri poetici” del Movement, Sipho Sempala, Mongane Serote, Mafika Gwala e Ingoapele Madingoane, scelsero di potenziare tematiche cardinali, quali l’orgoglio nero, il rispetto per l’individuo e il rifiuto totale dell’imposizione di ruoli o caste, rivolgendosi a destinatari molteplici ed esponendo le loro idee e le loro paure contestualizzandole in vari scenari: fu un tentativo di plasmare una nuova identità collettiva per la comunità nera, favorendo la fruizione delle poesie grazie alle pubblicazioni all’interno di riviste e giornali di taglio letterario.

Per convenzione, si tende a individuare nell’anno del massacro di Sharpeville (1960) l’inizio della poesia nera di protesta: è, in realtà, opportuno precisare che le basi erano già state gettate tra il 1930 e il 1940 da Peter Abrahams e H.I.E. Dhlomo attraverso l’opera

A Blackman Speaks of Freedom (1940). Anche in questo campo, come è accaduto per gli

altri generi, la poesia è soprattutto scritta da uomini (il poeta Serote ha emblematicamente dedicato alcuni componimenti all’universo femminile). L’arte, in particolar modo la pittura e la musica, gioca secondo questi poeti un ruolo cruciale sia dal punto di vista psicologico che fisico per la liberazione dei neri dalla morsa delle restrizioni separatiste; è anche per questo motivo che Serote cerca in tutti i modi di dar valore alla bellezza e alla dimensione estetica attraverso la sua poesia.

Puntando l’obiettivo su scenari lungamente censurati dal governo bianco, il Black

Consciousness Movement apre la strada a nuove forme di associazione che verranno

degnamente riconosciute, anche se non correlate al Movimento in modo diretto: nel 1983 nasce infatti lo United Democratic Front (UDF), mentre il 1985 è l’anno della costituzione del Congress of South African Trade Unions (COSATU), presentato ufficialmente allo stadio di Durban attraverso le parole di due poeti popolari, Qabula e Hlatschwayo. Nel luglio 1988 prende vita anche il Congress of South African Writers, organizzazione che consente agli scrittori di promuovere eventi letterari, condurre ricerche importanti, fare gruppo e sostenere gli aspiranti colleghi nel percorso verso il successo.

Alcuni luoghi, fino a quel momento sottaciuti a causa delle restrizioni dell’apartheid, assumono una valenza peculiare, come la prigione, che diviene una sorta di luogo

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“iniziatico” per chi è intenzionato a lasciare una testimonianza, e nasce così il genere della

Prison Literature. La cella è, simbolicamente, una sineddoche che include tutto il sistema

di confino, controllo e segregazionismo. Come suggerisce Jeremy Cronin, la condizione disagiata degli oppressi, assieme al desiderio di scrivere, rendono questi luoghi “parlanti” per tutti i cittadini, specialmente per coloro che sono stati privati della voce nei loro territori. Le prigioni sudafricane, inoltre, rappresentano ancor più emblematicamente uno spaccato che riflette la durezza del regime dell’apartheid: è soltanto nel 1996, dopo troppe morti e atrocità, che il governo sposta il quartier generale da Pretoria al Johannesburg Fort (una delle prigioni più note della nazione), sottintendendo un cambiamento di linea politica, da assolutista a più democratica. In prigione, successive generazioni di attivisti hanno via via espresso il loro ideale di resistenza contro le politiche dell’apartheid, gettando virtualmente le basi del futuro Stato democratico e ridefinendo il significato della cittadinanza e dei rapporti personali. La prigione riveste una doppia funzione: da un lato catalizza la riflessione sull’io e intensifica le tensioni psicologiche (interne ed esterne), dall’altro può porsi come un vero e proprio incentivo alla formulazione di nuovi pensieri e filosofie di vita, abbattendo le barriere dell’io in favore di un’apertura alla comunità. Negli anni dell’apartheid è, indubbiamente, la funzione coercitiva e dittatoriale della prigione (la famigerata quanto mistificata Robben Island) ad emergere, con l’esempio-principe rintracciabile nel lavoro autobiografico di Nelson Mandela, Long

Walk to Freedom, pubblicato nel 1994 e scritto appunto in gran parte durante gli anni di

prigionia.

L’opera di Michael Dingake, prigioniero anche lui a Robben Island, è l’autobiografia che meglio descrive le tensioni interne dei carcerati di fronte ai provvedimenti di censura, di oppressione e di proibizionismo attuati dal governo.35 Il memoir è una forma di scrittura verso cui virano molti autori, tra cui Herman Charles Bosman36, con Cold Stone Jug del 1949, opera che costituì anche un interessante esempio di autobiografia moderna. Bosman fu in effetti il primo a confrontarsi con l’ambiente della prigione, mettendone in risalto la funzione riabilitativa, oltre che punitiva; il carcere centrale di Pretoria era infatti uno dei più “moderni”, eticamente parlando, del Sudafrica: qui esistevano celle singole per i

35 Michael Dingake, My Fight against Apartheid, Kliptown Books, London 1987.

36 Herman Charles Bosman (1905-1951) era un afrikaner, noto oltre che per il genere in questione, anche

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detenuti di lungo corso, insieme alla possibilità di svolgere piccole mansioni durante la detenzione.

Importanti testi che emersero durante la prima grande fase delle incarcerazioni a sfondo politico sono Jail Diary di Albie Sachs (1966) e The Stone Country di Alex La Guma, pubblicato nel 1967 e apertamente polemico. La Prison Literature si aprì poi gradualmente alle donne, con la pubblicazione di testi come 117 Days della militante Ruth First (1965), No Child’s Play: In Prison under Apartheid di Caesarina Makhoere (1988), Conviction: A Woman Political Prisoner Remembers di Jean Middleton (1988) e

Prison Diary di Fatima Meer (2001).

Da tutti i testi citati è possibile evincere che, diversamente dai soggetti bianchi, i prigionieri neri erano più inclini ad adottare una voce collettiva forte, derivante anche dal peggiore trattamento subito all’interno della prigione. È infatti soltanto dopo il trasferimento in una cella singola che a Mandela venne offerta la possibilità di negoziare con il governo (cfr. Long Walk to Freedom).

Anche il teatro reagì all’apartheid, attraverso un’evoluzione nelle forme e nello stile che si suddivise in tre fasi: una prima, nota come regulation, comprende testi teatrali elaborati sotto la rigida supervisione bianca e del suo apparato di censura; segue una seconda fase, detta resistance, in cui il teatro lanciò una vera e propria sfida al sistema, violando tutta una serie di leggi approvate dal governo; infine la terza fase, denominata

recovery, si occupò, nell’epoca post-apartheid, di portare alla luce vicende e argomenti

“proibiti” durante il segregazionismo. Ci sono, tuttavia, tre elementi trasversali che si mantennero identici durante tutte le fasi: un’ambientazione di tipo prettamente urbano, un teatro “moderno” ispirato ai criteri occidentali, attori quasi interamente di sesso maschile.

Nella prima fase, l’apartheid aveva una completa egemonia su ogni rappresentazione: favoriva quindi moltissimi testi prodotti da autori bianchi, mentre metteva in discussione e rendeva più difficile l’affermarsi di drammaturghi neri. La seconda fase, invece, assunse contorni più definiti e prese di posizione di maggior contrasto, anche attraverso l’istituzione del Market Theatre di Johannesburg, fulcro della resistenza teatrale, che rese accessibili testimonianze performative come Call Me Woman (1977) e Black Dog (1984). Fanno parte di questa fase autori come il già menzionato Fugard, con No-Good Friday (1958) e L.Nkosi con The Rhythm of Violence (1973), opere pubblicate in esilio, come

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nel caso di Dark Voices Ring di Zakes Mda (1979), oppure testi che videro protagoniste delle vicende le donne, come The Nun’s Romantic Story dello stesso Mda (1995) o

Woman in Waiting di Mtschali (1999). Ultima e terza fase è quella della riscoperta del

passato “censurato”, che ha già nelle ultime opere di Mda dei degni precursori; il ritorno agli eventi passati si manifesta attraverso scelte musicali (è il caso di Ghoema, presentato nel 2005 e scritto da Kramer e Petersen), trame al femminile (come Purdah di Ismael Mahomed del 1993, o At her Feet, opera del 2002 di Nadia Davids), o storie d’ispirazione leggendaria micenea e greca, come in Molora (2007) di Farber.