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In Italia ci sono 3881 aree protette (Protectedplanet, 2018) le quali - estendendosi per circa 64808 km2 e ricoprendo il 21,51% della superfice nazionale - rappresentano un vero

e proprio primato europeo, largamente al di sopra degli obiettivi stabiliti a livello internazionale.

Tra tutte le tipologie di aree protette l’oggetto di studio di questo lavoro sono i parchi nazionali italiani, i quali secondo la definizione della legge quadro 394/1991 «sono costituiti da aree terrestri, fluviali, lacuali o marine che contengono uno o più ecosistemi intatti o anche parzialmente alterati da interventi antropici, una o più formazioni fisiche geologiche, geomorfologiche, biologiche, di rilievo internazionale o nazionale per valori naturalistici, scientifici, estetici, culturali, educativi e ricreativi tali da richiedere l’intervento dello Stato ai fini della loro conservazione per le generazioni presenti e future» (Art. 2). La caratteristica dei parchi nazionali è quella di integrare e completare la salvaguardia perseguita dai parchi naturali regionali48, in quanto essi vano ad occupare territori molto

vasti e coinvolgono nei propri confini decine di comuni, province e in alcuni casi anche tre regioni contemporaneamente.

Al 2018, in Italia si contano 2549 parchi nazionali i quali si aggiudicano il primato europeo

dal punto di vista della tutela della biodiversità, in relazione al numero di specie animali presenti all’interno di essi (Ministero dell’Ambiente, 2017b).

48 «I parchi naturali regionali sono costituiti da aree terrestri, fluviali lacuali ed eventualmente da tratti di

mare prospicienti la costa, di valore naturalistico e ambientale, che costituiscono, nell’ambito di una o più regioni limitrofe, un sistema omogeneo individuato dagli assetti naturali dei luoghi, dai valori paesaggistici ed artistici e dalle tradizioni culturali delle popolazioni locali» (Art. 2).

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Nel contesto nazionale, però, la tutela della natura - in chiave sistemica e in senso moderno - è stata avviata con un sostanziale ritardo sia rispetto ad alcuni Paesi europei 8Svezia, Svizzera e Spagna) sia rispetto all’America (dove viene istituito nel 1872 il primo parco nazionale, il Parco di Yellowstone), tanto che la prima legge nazionale risale a ventisette anni fa (1991). A ciò si aggiunge una scarsa socializzazione ed educazione ambientale e un partito verde che non ha saputo affermarsi negli anni. La conseguenza è che si diffusa nella coscienza collettiva una debole percezione e considerazione dei parchi. Nello scenario collettivo, infatti, essi rappresentano delle isole verdi il cui valore immediatamente percepito è quello naturalistico e vegetazionale: questa è la percezione dei parchi come musei della natura (Paddeu, 2003, op. cit.). Quello che manca è una visione strutturata del soggetto sociale parco.

Infatti, nonostante l’immagine del parco abbia subito un’evoluzione nel corso degli anni - per cui diventa un progetto molto complesso - in accordo con Osti (1992, op. cit.) si ritiene che questa evoluzione sia avvenuta sostanzialmente solo nelle idee, più che nei fatti. «Per taluni il parco resta, secondo la vecchia immagine, un museo della natura, per altri esso è ridotto ad un piano di sviluppo turistico» (Osti, 1992 op. cit. p. 63). Seguendo questa impostazione l’appellativo di «parchi di carta» utilizzato da Tassi (1984) sembra essere particolarmente adatto per riassumere la situazione dei parchi nazionali italiani: essi vengono definiti dalla normativa ma risultano inesistenti sul piano sostanziale. Un piano che da un lato dipende dal riconoscimento stesso di tali soggetti, dall’altra gli stessi enti gestori sembrano sopravvivere più che vivere, in quanto si trovano in difficoltà a gestire anche i compiti che riguardano la normale amministrazione (Melotti, Toselli, 1989). Per cui, «nonostante siano trascorsi venticinque anni dalla sua istituzione, il parco ancora viene percepito come un’unità a sé stante, non pienamente integrata con il territorio del quale, anzi, costituisce una barriera allo sviluppo» (Barone, Cimellaro, 2016, p. 58).

Tale situazione in qualche modo determina e rispecchia anche lo scarso interesse che gli scienziati sociali italiani hanno prestato all’oggetto sociale parco, preferendo principalmente lo studio della dimensione legata alla fruizione turistica.

Partendo dal considerare che il parco in quanto spazio protetto è innanzitutto uno spazio sociale, e che questa socialità non è visibile solo nella sua dimensione fondativa, nella sua mission, ma anche nelle economie e nelle culture locali che esso crea o modifica (Beato, 1999, op. cit.) e nel sistema di relazioni che esso determina, diventa necessario trovare un riferimento che descriva in breve questa particolare commistione che non è più solo

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ambientale, fisica e spaziale, ma fatta di attori e processi più o meno tradizionali e più o meno strutturali inclini a ridisegnare costantemente coalizioni, strategie e finalità (Magnier, Russo, 2002).

Seguendo tale interpretazione, questo riferimento potrebbe essere quella rete che coinvolge tutti gli stakeholders dei parchi nazionali: cittadini, attori istituzionali, attori economici, associazioni, attori culturali. Vuol dire invocare sempre il sistema e la tipologia di partecipazione nella gestione dei parchi. Significa, in buona sostanza, far emergere il suo sistema di governance.

«Il parco evidentemente è un aspetto oltremodo limitato di un qualsiasi progetto politico. Tuttavia, il meccanismo potrebbe essere lo stesso: un certo progetto pubblico ha possibilità di essere attuato solo quando trova una base sociale adeguatamente sollecitata. Parafrasando il ragionamento di Gallino, l’ingovernabilità di un sistema complesso e con valenze politiche, quale è il parco, dipende dal fatto che nessun gruppo sociale (o classe) si senta moralmente in dovere di accettarne i principi e di impegnarsi per realizzarli» (Osti, 1992, op. cit. p.72).

In base a quanto sostenuto fin ora, due sono le ipotesi di partenza sulle quali si basa questo lavoro:

In quanto bene relazionale gli elementi costitutivi del parco sono proprio gli attori sociali che interagiscono tra loro, a livelli diversi e con finalità diverse, per garantirne non solo l’esistenza ma anche la loro funzionalità e fruizione. In tal senso essendosi verificato un

•L’oggetto sociale parco è un territorio i cui confini non sono fissati

esclusivamente a livello normativo ma

dipendono dai parametri culturali e relazionali

Prima ipotesi

•La gestione del parco può essere tradotta in pratica attraverso una

connessione performativa tra gli attori e le

caratteristiche del territorio

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allargamento della platea degli attori nei processi decisionali, appare opportuno considerare le diverse configurazioni di governance in quanto strutturazione di specifici sistemi relazionali.

In realtà, i parchi venendo istituiti attraverso atti legislativi hanno di fatto una governance stabilita, formale, ma si ritiene che sia la funzione sociale che essi hanno a determinare l’organizzazione degli attori, creando non solo dei recinti, ma anche delle vie di comunicazione (Osti, 2010). Per cui il livello formale della governance non è l’unico possibile, e neanche quello auspicabile (anche se questa è un’assunzione abbastanza semplicistica e scontata) in quanto è proprio la partecipazione e la strutturazione di legami tra gli stakeholder a definirne probabilmente i confini di quest’area. A loro volta, la struttura della rete (sostanzialmente la topologia) ha delle conseguenze significative su come gli attori effettivamente si comportano e su quelli che sono gli esiti della loro interazione.

Per tale motivo, si ipotizza inoltre, che la gestione del parco possa essere tradotta in pratica attraverso una connessione performativa tra gli attori e le caratteristiche del territorio. Si è ricorso al concetto di performatività, riferendoci non tanto alla capacità di descrivere quanto quella di produrre allo stesso tempo la forma delle relazioni ed il contenuto delle stesse, traducendosi quindi in realtà sociali. Essa si esplica in specifiche dinamiche che derivano dai rapporti, dalla cooperazione o dalla conflittualità degli attori, di ogni livello, coinvolti nella gestione. Ciò che ci interessa in questo contesto è proprio il modo attraverso il quale questi rapporti determinano una “messa a valore” dell’identità dei parchi. Questa comprensione della performatività si basa sul lavoro di Judith Butler (1990; 1992; 1993), che mette in guardia contro la riduzione della nozione alla comprensione semplicistica delle prestazioni. L’autrice sostiene che mentre la performance è un atto singolare o deliberato, la performatività si riferisce all’io in quanto pratica reiterativa e citazionale mediante la quale vengono prodotto gli effetti (1992, op. cit. p. 12).