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Irrilevanza del mutamento di indirizzo giurisprudenziale ai fin

4. Revoca della sentenza per abrogazione o dichiarazione d

4.1. Irrilevanza del mutamento di indirizzo giurisprudenziale ai fin

Analizzati quelli che sono i presupposti operativi dell’art. 673 c.p.p., ci si domanda se un innovativo indirizzo giurisprudenziale favorevole al condannato possa essere assimilato all’abolizione o alla declaratoria di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, consentendo, in caso affermativo, la revoca della sentenza fondata sull’applicazione di una norma precedentemente interpretata in senso sfavorevole al condannato.

Prima di dare una risposta a tale quesito, o meglio, di enunciare quella che è la soluzione prospettata dalla Corte Costituzionale159, appare utile evidenziare due distinte ipotesi di mutamento giurisprudenziale: da un lato, mutamento di giurisprudenza rispetto ad un testo legislativo invariato nella sua dimensione diacronica (e dunque un nuovo significato dello stesso testo normativo); dall’altro, overruling giurisprudenziale rispetto ad un indirizzo della Suprema Corte che si è formato in relazione ad una innovazione legislativa (e dunque un ripensamento della precedente esegesi compiuta sopra un testo normativo novellato dal legislatore)160.

Con la sentenza n. 230 del 2012 la Consulta ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p., «nella parte in cui non prevede l’ipotesi di revoca della sentenza di

158 Cass., SS. UU., 20 dicembre 2005, Catanzaro, cit.

159 Corte Cost., s. 8 ottobre 2012, n. 230, in www.penalecontemporaneo.it, 15 ottobre 2012. 160 Così, M. GAMBARDELLA, Eius est abrogare cuius est condere. La retroattività del diritto

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condanna (o di decreto penale di condanna o di sentenza di applicazione della pena su concorde richiesta delle parti) in caso di mutamento giurisprudenziale – intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge penale come reato», negando, in altri termini, la possibilità di disporre la revoca della sentenza al cospetto di un overruling giurisprudenziale favorevole non conseguente ad un mutamento legislativo.

Più nello specifico, la questione di legittimità costituzionale era stata sollevata, con ordinanza depositata il 21 luglio 2011161, dal Tribunale di Torino, in funzione di giudice dell’esecuzione, deducendo la violazione degli articoli 3, 13, 25, comma 2, e 27, comma 3, della Costituzione, nonché dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art.7 della Convenzione E.D.U. Il giudice rimettente era chiamato a provvedere sull’istanza del pubblico ministero di revoca parziale – limitata al solo capo di imputazione concernente la contravvenzione di omessa esibizione dei documenti di identificazione e di soggiorno, prevista dall’art. 6, comma 3, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) –ai sensi dell’art. 673 c.p.p., della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, emessa il 9 luglio 2010 dal Tribunale di Torino nei confronti di una persona nata in Mali e divenuta irrevocabile il 9 marzo 2011, prima, quindi, che le Sezioni Unite si pronunciassero, con sentenza del 24 febbraio 2011162,

161 Trib. Torino, sez. III, (ord.) 27 giugno 2011 (dep. 21 luglio 2011) in

www.penalecontemporaneo.it, 26 luglio 2011.

162 Cass., SS.UU., 24 febbraio 2011 (dep. 27 aprile 2011), n. 16543, Alačev, in C.E.D. Cass., n.

249546. Sul tema: V. DI PEPPE, Il reato dello straniero che non ottempera all’ordine di

esibizione dei suoi documenti identificativi: considerazioni in margine all’intervento della “legge sicurezza” del 2009, in Cass. pen., 2011, p. 341; M. GAMBARDELLA, Ancora sulla mancata esibizione dei document da parte del cittadino straniero “irregolare”, in Questione giustizia, 2010, pp. 173 ss.; M. GAMBARDELLA, Lo straniero irregolare e il reato di mancata

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nel senso che il delitto de quo – in seguito alle modifiche apportate dalla l. n. 94/2009 – non si applica allo straniero il cui soggiorno sia irregolare.

Delle precisazioni in ordine all’art. 6, comma 3, T.U. imm., nella sua formulazione originaria e in quella successiva al c.d. “pacchetto sicurezza del 2009”, appaiono quanto mai opportune. Le due versioni della disposizione divergono non solo per il profilo sanzionatorio, divenuto più afflittivo, ma anche e soprattutto per l'introduzione della congiunzione “e” al posto di “ovvero” tra le due categorie di documenti (passaporto o altro documento di identificazione e permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato) che l'agente abbia, senza giustificato motivo, omesso di esibire a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza. La formulazione originaria sanciva: «lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non esibisce, senza giustificato motivo, il passaporto o altro documento di identificazione, ovvero il permesso o la carta di soggiorno è punito con l'arresto fino a sei mesi e l'ammenda fino a lire 800.000». Dopo l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite con la sentenza Mesky163, in giurisprudenza risultò

consolidata la tesi in forza della quale il reato potesse essere perpetrato anche dagli stranieri “irregolari”: la lettera della norma, difatti, indusse le Sezioni Unite a ritenere che destinatario della norma fosse lo straniero in genere, quindi anche lo straniero che avesse fatto illegale ingresso nel territorio dello Stato, affermando che il reato potesse essere integrato dalla mancata esibizione, senza giustificato motivo, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, del passaporto o di altro documento di identificazione, da parte del cittadino straniero che si trovasse, regolarmente o non, nel territorio dello Stato.

ottemperanza all’ordine di esibizione dei documenti, in www.penalecontemporaneo.it, 13

dicembre 2010.

163 Cass., SS. UU., 29 ottobre 2003 (dep. 27 novembre 2003) n. 45801, Mesky, in C.E.D. Cass.,

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La legge n. 94 del 2009, oltre ad aver introdotto il reato di immigrazione clandestina (art. 10 bis, T.U. imm.), ha parallelamente riformulato la figura criminosa della mancata esibizione del documento di identificazione o del permesso di soggiorno: «lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non ottempera, senza giustificato motivo, all'ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato è punito con l'arresto fino ad un anno e con l'ammenda fino ad euro 2.000».

Il mutamento della norma incriminatrice ha creato non pochi problemi interpretativi: di fatto, l’aver sostituito nella struttura linguistica dell’art. 6, comma 3, T.U. imm., la congiunzione con valore disgiuntivo “ovvero” con la congiunzione copulativa “e”, ha determinato il mutamento del novero dei possibili soggetti attivi del reato de quo. La congiunzione “e”, infatti, segnala un indispensabile collegamento tra le diverse classi di documenti da esibire: passaporto/documento di identificazione e permesso di soggiorno/documento attestante la “regolarità”. Tale considerazione, sommata all’inserimento della nuova contravvenzione di cui all’art. 10

bis, T.U. imm., da un lato, comporta che il soggetto attivo del reato ex

art. 6, comma 3, T.U. imm., possa essere soltanto lo straniero regolarmente soggiornante in Italia, dall’altro, ha fatto sì che il reato non possa più essere perpetrato dall’extracomunitario irregolare, il quale per definizione non è in possesso del permesso di soggiorno o di altro documento comprovante la regolarità della sua presenza164. In pratica,

164 A tale riguardo, nella giurisprudenza di merito si è affermato che «in questo senso depone

anche la lettura dell’art. 6 d.lgs. n. 286 del 1998 fondata sulla ratio del complesso normativo introdotto dalla l. n. 94 del 2009; in particolare, con la nuova previsione del reato di cui all’art. 10 bis il legislatore ha sostanzialmente previsto un doppio binario: l’uno, per gli stranieri “regolarmente presenti sul territorio” (onerati dell’esibizione, a richiesta, dei due documenti indicati nell’art. 6 d.lgs. cit.); l’altro, per gli stranieri “clandestini”, sanzionati, in via

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l’indispensabile esibizione di entrambi i documenti (identificativo e attestante la regolarità della presenza in Italia) ha specializzato la tutela penale riducendo l’ambito applicativo della menzionata incriminazione rispetto al passato.

Lo stesso giudice a quo, nell’ordinanza di rimessione del 21 luglio 2011, evidenziava come, a seguito della modifica dell’art. 6, comma 3, T.U. imm., ad opera della l. 94/2009, fosse sorta questione in ordine alla perdurante applicabilità o meno della fattispecie agli stranieri irregolarmente presenti nel territorio dello Stato (non provvisti, in quanto tali, del permesso di soggiorno): interrogativo al quale la Corte di Cassazione, nelle sue prime decisioni, adottate da sezioni singole, aveva risposto in senso affermativo165.

Tuttavia, le Sezioni Unite, cogliendo la portata innovativa dell’intervento legislativo del 2009, con la sentenza Alačev hanno accolto la soluzione opposta, ritenendo che il precetto penale si indirizzi ai soli stranieri regolarmente soggiornanti, con la conseguenza che la novella legislativa del 2009 ha comportato una parziale abolitio

criminis, abrogando la fattispecie criminosa preesistente nella parte in

cui si prestava a colpire anche gli stranieri in posizione irregolare. In tal modo, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno determinato «un significativo révirement giurisprudenziale» fondato su di un mutamento legislativo.

Il giudice a quo rilevava, tuttavia, come il caso sottoposto al suo esame non risultasse «perfettamente riconducibile al fenomeno dell’abolitio criminis». Il fatto giudicato con la sentenza della cui revoca si discuteva era stato, infatti, commesso in data successiva a quella di

gradatamente sempre più grave, con le previsioni di cui agli artt. 10 bis, 14 comma 5 ter, 14 comma 5 quater, 13 comma 13, d.lgs. n. 286 del 1998», Trib. Bologna, 28 ottobre 2009, in

Questione giustizia, n. 3 del 2010, pp. 173 ss.

165 Cass., sez. I, 23 settembre 2009 (dep. 18 novembre 2009), n. 44157, in C.E.D. Cass., n.

245555; Cass., sez. I, 20 gennaio 2010 (dep. 16 febbraio 2010), n. 6343; Cass., sez. I, 30 settembre 2010 (dep. 18 ottobre 2010), n. 37060.

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entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 (segnatamente, l’11 giugno 2010) e, dunque, in un momento nel quale la norma incriminatrice di cui all’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 risultava già formulata nei termini attuali. Non si sarebbe stati, pertanto, di fronte ad un fenomeno di successione nel tempo di leggi (intese come «fonti formali»), ma ad una successione nel tempo di diverse interpretazioni giurisprudenziali della medesima «fonte formale»: in altri termini, il pubblico ministero aveva sollecitato il giudice dell’esecuzione a disporre la revoca parziale della sentenza a fronte di una abolitio criminis conseguente, non già ad un intervento legislativo, ma ad un mero mutamento di giurisprudenza.

L’art. 673 c.p.p., come ormai noto, non prende però in considerazione tale fattispecie, prevedendo la revoca della sentenza di condanna passata in giudicato nei soli casi di abrogazione e di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice. Considerato il carattere tassativo delle condizioni di operatività dell’art. 673 c.p.p., il giudice a quo reputava costituzionalmente necessaria una modifica di tale assetto, chiedendo segnatamente alla Corte Costituzionale di aggiungere al novero dei presupposti di operatività della revoca anche il «mutamento giurisprudenziale – intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge penale come reato».

Ad avviso del giudice a quo, l’art. 673 c.p.p. avrebbe violato, anzitutto, l’art. 117, comma 1, della Costituzione, ponendosi in contrasto con l’art. 7 della Convenzione E.D.U.: disposizione che – secondo l’interpretazione datane dalla Corte E.D.U. – da un lato, sancisce implicitamente anche il principio di retroattività dei trattamenti penali più favorevoli e, dall’altro, ingloba nel concetto di «legalità» in materia penale non solo il diritto di produzione legislativa, ma anche quello di derivazione giurisprudenziale.

La norma denunciata avrebbe violato, altresì, l’art. 3 Cost.: a fronte dell’esplicita valorizzazione, da parte dello stesso legislatore ordinario,

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della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione (art. 65 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, recante l’«Ordinamento giudiziario») e particolarmente di quella svolta dalle Sezioni Unite di detta Corte (artt. 610, comma 1, e 618, comma 1, c.p.p..; art. 172 disp. att. c.p.p.), la scelta di continuare a punire l’autore di un fatto che, secondo il «diritto vivente sopravvenuto», ricostruito con decisione resa dalle Sezioni Unite, non è più previsto dalla legge come reato, risulterebbe manifestamente irragionevole e lesiva del principio di eguaglianza. In tal modo, «persone che hanno commesso fatti identici rischierebbero di essere trattate in modo radicalmente differenziato per evenienze puramente casuali, quale il semplice ordine di trattazione dei processi».

La soluzione normativa censurata si sarebbe posta, altresì, in contrasto «con il principio di (tendenziale) retroattività della normativa penale più favorevole», desumibile dagli artt. 3 e 25, comma 2, Cost., e avrebbe violato anche l’art. 13 Cost., privilegiando ragioni di «tutela dell’ordinamento» – quali quelle di certezza del diritto e di stabilità delle decisioni – rispetto a «precise esigenze di libertà della persona».

Sarebbe risultato leso, infine, l’art. 27, comma 3, Cost., giacché, nell’ipotesi considerata, l’esecuzione della pena sarebbe rimasta priva di scopo: «né la funzione retributiva, né quella di prevenzione generale o speciale, né, ancora, la rieducazione del condannato avrebbero, infatti, alcuna ragion d’essere a fronte della commissione di un fatto che, alla luce dell’assetto giurisprudenziale sopravvenuto, deve considerarsi privo di rilevanza penale».

La Corte Costituzionale dichiara la questione non fondata in rapporto a tutti i parametri invocati. La prima e fondamentale censura svolta dal rimettente – quella di violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., per contrasto con l’art. 7 della Convenzione E.D.U. – trova il suo presupposto nell’orientamento della Corte Costituzionale medesima, costante a partire dalle “sentenze gemelle” n. 348 e n. 349 del 2007, in forza del quale le norme della Convenzione E.D.U, nel significato loro

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attribuito dalla Corte E.D.U., integrano, quali «norme interposte», il parametro costituzionale evocato, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Nella specie, il rimettente individuava la «norma convenzionale interposta» – con la quale la norma interna denunciata si sarebbe posta in asserito contrasto – combinando fra loro due distinte affermazioni della Corte europea, riferite all’art. 7, par. 1, della Convenzione E.D.U. (ove si stabilisce che «nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale», e che, «parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso»). La prima affermazione è quella per cui la citata norma convenzionale, malgrado il suo tenore letterale (evocativo del solo divieto di applicazione retroattiva della norma penale sfavorevole), sancisce implicitamente – in aggiunta al più generale principio di legalità dei delitti e delle pene (nullum crimen, nulla poena sine lege), con i corollari dell’esigenza di determinatezza delle previsioni punitive e del divieto di analogia in malam partem – anche il principio di retroattività della legge penale più mite. L’altra affermazione è quella per cui la nozione di «diritto» («law»), utilizzata nella norma della Convenzione, deve considerarsi comprensiva tanto del diritto di produzione legislativa che del diritto di formazione giurisprudenziale. Tale lettura «sostanziale», e non già «formale», del concetto di «legalità penale», se pure stimolata dalla necessità di tenere conto dei diversi sistemi giuridici degli Stati parte – posto che il riferimento alla sola legge di origine parlamentare avrebbe limitato la tutela derivante dalla Convenzione rispetto agli ordinamenti di common law – è stata ritenuta valevole dalla Corte europea anche in rapporto agli ordinamenti di civil

law, alla luce del rilevante apporto che pure in essi la giurisprudenza

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penale. Proprio tale seconda affermazione dimostra, peraltro, come nell’interpretazione offerta dalla Corte di Strasburgo, il principio convenzionale di legalità penale risulti meno comprensivo di quello accolto nella Costituzione italiana (e, in generale, negli ordinamenti continentali). Ad esso resta, infatti, estraneo il principio – di centrale rilevanza, per converso, nell’assetto interno – della riserva di legge, nell’accezione recepita dall’art. 25, comma 2, Cost.; principio che demanda il potere di normazione in materia penale al Parlamento.

La Consulta prosegue affermando che la Corte europea non risulta aver mai enunciato il corollario che il giudice a quo vorrebbe far discendere dalla combinazione tra i due asserti dianzi ricordati: e, cioè, che, in base all’art. 7, par. 1, della Convenzione E.D.U., un mutamento di giurisprudenza in senso favorevole al reo imponga la rimozione delle sentenze di condanna passate in giudicato contrastanti con il nuovo indirizzo. La Corte di Strasburgo non ha mai sinora riferito, in modo specifico, il principio di retroattività della lex mitior ai mutamenti di giurisprudenza. I giudici europei si sono occupati di questi ultimi solo con riferimento al diverso principio dell’irretroattività della norma sfavorevole, ritenendo contraria alla norma convenzionale l’applicazione a fatti anteriormente commessi di un indirizzo giurisprudenziale estensivo della sfera operativa di una fattispecie criminosa, ove la nuova interpretazione non rappresenti un’evoluzione ragionevolmente prevedibile della giurisprudenza anteriore.

Peraltro, contrariamente a quanto mostra di ritenere il giudice a quo, è da escludere che dalle conclusioni raggiunte a proposito del principio di irretroattività della norma sfavorevole possa automaticamente ricavarsi l’esigenza “convenzionale” di rimuovere, in nome del principio di retroattività della lex mitior, le decisioni giudiziali definitive non sintoniche con il sopravvenuto mutamento giurisprudenziale in

bonam partem. I due principi, infatti, hanno diverso fondamento:

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strumento di garanzia del cittadino contro persecuzioni arbitrarie, espressivo dell’esigenza di «calcolabilità» delle conseguenze giuridico- penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale, esigenza con la quale contrasta un successivo mutamento peggiorativo “a sorpresa” del trattamento penale della fattispecie; nessun collegamento con la predetta libertà ha, per converso, il principio di retroattività della norma più favorevole, in quanto la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, cui l’autore si era liberamente e consapevolmente autodeterminato in base al panorama normativo (e giurisprudenziale) dell’epoca, trovando, detto principio, fondamento piuttosto in quello di eguaglianza, che richiede, in linea di massima, di estendere la modifica mitigatrice della legge penale, espressiva di un mutato apprezzamento del disvalore del fatto, anche a coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore. Con riferimento a questo primo parametro, la Consulta conclude affermando che l’ipotetica «norma convenzionale interposta», chiamata a fungere da parametro di verifica della legittimità costituzionale della disposizione denunciata, risulta in realtà priva di attuale riscontro nella giurisprudenza della Corte europea.

Parimenti infondate risultano le censure di violazione del principio di eguaglianza, anche sotto il profilo della ragionevolezza (art. 3 Cost.). Contrariamente a quanto assume il giudice a quo, non può ritenersi manifestamente irrazionale che il legislatore, per un verso, valorizzi, anche in ossequio ad esigenze di ordine costituzionale, la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, e delle Sezioni Unite in particolare – postulando, con ciò, che la giurisprudenza successiva si uniformi «tendenzialmente» alle decisioni di queste ultime – e, dall’altro, ometta di prevedere la revoca delle condanne definitive pronunciate in relazione a fatti che, alla stregua di una sopravvenuta diversa decisione dell’organo della nomofilachia, non sono previsti dalla legge come reato, col risultato di consentire trattamenti radicalmente

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differenziati di autori di fatti analoghi. L’orientamento espresso dalla decisione delle Sezioni Unite “aspira” indubbiamente ad acquisire stabilità e generale seguito, ma si tratta di connotati solo «tendenziali», in quanto basati su una efficacia non cogente, ma di tipo essenzialmente “persuasivo”. Con la conseguenza che, a differenza della legge abrogativa e della declaratoria di illegittimità costituzionale, la nuova decisione dell’organo della nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica, sia pure con l’onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni Unite possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni, anche su impulso delle sezioni singole, come in più occasioni è in fatto accaduto. In questa logica si giustifica, dunque, il mancato riconoscimento all’overruling giurisprudenziale favorevole della capacità di travolgere il principio di intangibilità della res iudicata, espressivo dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici esauriti.

Infondata è anche l’ulteriore censura di violazione del «principio di (tendenziale) retroattività della normativa penale più favorevole»: principio che il rimettente reputa desumibile dagli artt. 3 e 25, comma 2, della Costituzione. Per costante giurisprudenza della Corte Costituzionale, il principio di retroattività della legge penale più favorevole al reo non trova, in realtà, fondamento costituzionale nell’art. 25, comma 2, Cost. – che si limita a sancire il principio di irretroattività delle norme penali più severe – ma, come già accennato, esclusivamente nel principio di eguaglianza, che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento dei medesimi fatti, in presenza di una mutata valutazione legislativa del loro disvalore, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice. Proprio in conseguenza di ciò, il principio in questione non ha, quindi,

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