3. L’acquisizione della cittadinanza nei Paesi Extra-UE:
3.5 Israele
Gli ebrei e l’ebraismo hanno molte opinioni diverse relativamente allo
ius soli, in particolare quando vi sono anche delle implicazioni
politiche.
Simili problemi vengono discussi ampiamente nelle fonti ebraiche ed è necessario specificare che il diritto ebraico non parla propriamente di
78 http://www.cittadinanza.biz/cittadinanza-australiana/
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cittadinanza, non riconosce lo ius soli e ha una visione peculiare dello
ius sanguinis.
Infatti la cittadinanza viene definita dalla Enciclopedia Italiana come “condizione di appartenenza di un individuo a uno Stato, con i diritti e i doveri che tale relazione comporta”.
La halakhà ebraica, invece, non si collega alla appartenenza allo Stato ma alla comunità, con tutto ciò che ne consegue, doveri e diritti. Inoltre tale sistema normativo religioso si occupa anche del diritto di residenza nella terra d’Israele di chi è ebreo, ma anche di coloro non appartengono alla comunità di Israele, ma vogliono risiedervi come “stranieri”. Viene appunto precisato il concetto di “gher”, distinguendone due diversi tipi: coloro che non sono nati ebrei ma che si impegnano ad osservare tutte le regole dell’ebraismo e quindi divengono parte di Israele; e coloro che invece si impegnano a rispettare i sette precetti e grazie a ciò hanno diritto di risiedere nella terra d’Israele.
È palese che non si parla di ius soli, ma di appartenenza subordinata al rispetto di determinate regole. Per quanto concerne lo ius sanguinis, criterio di attribuzione della cittadinanza per discendenza biologica da un cittadino, non si parla mai di sangue. Motivazione di ciò è una scelta culturale, i rapporti di parentela vengono infatti indicati solo con le espressioni “ossa e carne”. Altro aspetto da evidenziare è che l’appartenenza a Israele discende solo per linea materna, mentre per l’appartenenza agli altri popoli si segue solitamente il padre. 80
80
http://moked.it/blog/2017/07/03/ius-soli-prospettiva-ebraica/ Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma
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La c.d. Legge del Ritorno, la n. 5710 del 1950 stabilisce il diritto di ogni ebreo di emigrare nello Stato d’Israele. Essa costituisce l’espressione del legame tra il popolo ebraico e la sua patria. Chi ha almeno un nonno ebreo può considerarsi anch’egli tale ed effettuare il ritorno alla “Terra Promessa”. Coloro che tornano in Israele sono considerati come parte del popolo che in passato è stato allontanato. Secondo la Legge viene definito ebreo “una persona nata da madre ebrea, o che si è convertito successivamente all’ebraismo, e non è appartenente a un’altra religione.”
Sulla base di accordi tra il Governo d’Israele e l’Agenzia Ebraica, è stabilito che quest’ultima si occupi dell’immigrazione in Israele attraverso il controllo degli aspiranti, fornendo consulenza, assistenza e infine provvedendo all’accoglienza.
Conformemente alla legge, l’autorità che si occupa del rilascio del
visto per immigrazione procede con il rappresentante
diplomatico/consolare all’esame delle richieste. In casi di dubbio, il rappresentante diplomatico/consolare può trasferire la pratica della richiesta alla sezione consolare del Ministero degli Affari Esteri per una decisione definitiva.
Attualmente gli ebrei interessati a immigrare in Israele sono sempre meno, Tel Aviv ha escogitato un modo per non perdere la propria maggioranza di fronte a un numero crescente di palestinesi: cambiare la Legge del Ritorno, permettendo anche ai “gruppi che hanno legami con il popolo ebraico” di installarsi nel Paese. Il riferimento è alle “tribù perdute”, comunità dell’India, America Latina e altre parti del mondo che rivendicano una discendenza “ebraica”. Altri, invece, sono gli ebrei costretti a diventare cristiani durante l’inquisizione spagnola e quella portoghese. Infine, ci sono i gruppi convertiti recentemente dal rabbinato non ortodosso, in special modo in Africa.
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Le autorità israeliane puntano a comunità più povere e maggiormente inclini a trasferirsi in Israele con tutti i benefici che questo comporta. Jamal Zahalka, membro palestinese della Knesset, ha accusato il Governo di voler sfruttare ancor di più una “legge razzista e antidemocratica” (La legge del Ritorno) che è stata creata appositamente per permettere agli ebrei che non hanno alcun collegamento con questa terra di emigrare.81
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CAPITOLO V
NOTE CONCLUSIVE E PROSPETTIVE IN
ITALIA
Dall'analisi da me condotta nei precedenti capitoli emergono alcuni interrogativi e problemi ai quali mi accingo a tentare di fornire possibili risposte e soluzioni.
Lo stato dell'arte della ius soli in Italia costituisce il risultato di numerosi leggi che si sono susseguite nella storia del nostro Paese, a partire dallo Statuto Albertino e dalla legge n. 555 del 1912 che sancivano l'obbligo di seguire la cittadinanza del pater familias e solo in via residuale quella materna, passando attraverso la Costituzione repubblicana che per quanto concerne la cittadinanza sancisce agli articoli 3 e 29 rispettivamente il principio di uguaglianza e riconoscimento della famiglia unito alla tutela della stessa. Si giunge poi alla Legge n. 151 del 1975 che prevede la possibilità per la donna di “riacquisire” la cittadinanza che aveva perso prima dell’entrata in vigore di questa Legge per effetto del matrimonio con uno straniero o per mutamento della cittadinanza da parte del marito.
La Legge n. 123 del 1983 stabiliva la estensione della cittadinanza ai figli che non avessero ancora raggiunto la maggiore età di cittadini italiani. Veniva inoltre abrogato l'automatico acquisto della cittadinanza come effetto diretto del matrimonio contratto da una straniera con un cittadino italiano. L'analisi conduce poi alle più recenti leggi sulla cittadinanza italiana, prima fra le altre la n. 91 del 1992 che stabilisce essere cittadino il figlio di madre o padre cittadini, chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori apolidi oppure ignoti. Tale legge ammette la cittadinanza multipla ed estende la cittadinanza a categorie di cittadini ai quali era stata preclusa fino a
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quel momento, quali ai residenti e discendenti dell'Impero Austro- ungarico e di Istria, Fiume e Dalmazia.
Resta un punto irrisolto, evidenziato anche dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 4466 del 2009, ossia il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis per via materna, per i figli di una donna italiana che abbiano perduto la cittadinanza italiana per effetto del matrimonio di lei con uno straniero. Dunque l'unica via percorribile per il suo ottenimento è quella giudiziale.
Il culmine del mio breve excursus sullo ius soli in Italia è rappresentato dal d.d.l. n. 2092 del 2015, tutt'ora in fase di approvazione. La maggiore innovazione sarebbe quella della introduzione dello ius
culturae, diritto che permetterebbe allo straniero giunto in Italia nei
primi dodici anni di vita e che abbia completato con successo almeno un ciclo di studi di cinque anni di acquisire la cittadinanza italiana. In Italia vige attualmente lo ius sanguinis, principio in base al quale la cittadinanza viene concessa solamente a chi abbia genitori italiani. La legge Bossi-Fini era stata fortemente restrittiva in merito ai requisiti per concedere il permesso di soggiorno e ai criteri per poter rimanere in Italia.
Nonostante il tema dello ius soli sia di grande attualità e venga molto sentito dall'associazionismo sia cattolico che laico, oltre che da insegnanti e scrittori, l'opinione pubblica sembra disinteressarsi ad una esatta informazione sull'argomento.
La Lega Nord, in particolare,da sempre strenua oppositrice della Legge sullo ius soli in Parlamento, fa passare il messaggio che una simile introduzione comporterebbe elargizioni di massa di cittadinanza italiana a chiunque viva nella nostra Penisola, per non parlare del pericolo di islamizzazione e terrorismo che troverebbero terreno fertile in seguito a ciò.
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Il Movimento 5 stelle, Forza Italia e Federazione della Libertà si dichiarano anch'essi contrari alla Legge, già approvata alla Camera nel 2015 e rimasta bloccata in Senato nell'attesa di un accordo risolutivo. E' indispensabile prendere atto di un problema reale e tangibile, di fronte al quale ragazzi discendenti da stranieri si trovano ogni giorno. L'integrazione non sarà mai completa fino a che gli Italiani "di fatto" ma non di diritto non ricevano la ufficializzazione della loro identità che li renda come gli altri.
E' indispensabile non fermarsi a osservare quelle che sembrerebbero in apparenza le soluzioni più semplici e radicali che una tematica come le sempre crescenti migrazioni alla volta della nostra Penisola suggerirebbero. E' opportuno infatti riuscire a guardare oltre per giungere alla reale fonte del problema, chiedersi sempre il perché di ogni fenomeno, individuare gli interessi nascosti e i traffici che si celano dietro agli accadimenti tristemente noti nel Mar Mediterraneo. Purtroppo il disinteresse per ciò che riguarda uomini diversi dai nostri connazionali è ancora forte nel Bel Paese.
Solo se gli Italiani riusciranno a formare una propria opinione sulla base di dati veritieri, senza pensare con la mente di nessun altro, parlare per bocca altrui o "per sentito dire" riusciranno, non senza un poco di inevitabile empatia, a comprendere il dramma che ogni giorno esseri umani come loro sono costretti a vivere.
Noi italiani ,sicuramente più fortunati di chi arriva sulle nostre coste, non dobbiamo più considerar queste persone ξένοι (xènoi) nella accezione greca di "stranieri nemici", bensì abbracciare la originaria traduzione di "ospiti amici". Lo straniero è per definizione colui che si trova lontano dalla propria patria e famiglia, dunque manca della cosa più importante, la propria identità. Quindi perché non permettere a queste persone in difficoltà di costruire una propria individualità e condurre una vita normale? Finiremmo altrimenti per incorrere nel
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pensiero predominante nella Grecia del V secolo a.C. e percepire tali soggetti addirittura come dei βάρβαροι (bárbaroi) confinandoli alla marginalizzazione più radicale in quanto parlanti una lingua incomprensibile e aventi propri usi e costumi.
La speranza è quella di una evoluzione del pensiero al passo coi tempi, già i romani non nutrivano sentimenti xenofobi nei confronti degli
advena, o "coloro che venivano da fuori", in quanto Roma esercitava il
suo dominio su un impero multirazziale.
Dunque, tornando all'Italia si parla di persone italiane proprio come tutti noi, in quanto ormai talmente radicate nel nostro Paese dalla nascita per aver formato con l'Italia un legame indissolubile. Lo ius
soli è un diritto di cui si sente ormai un impellente bisogno in una
società multiculturale come la nostra, le differenze devono essere viste non come minaccia ma come stimolo al cambiamento perché la società riesca ad evolversi in base alle nuove esigenze senza restar prigioniera di vecchi schemi mentali.
Le diversità devono essere guardate come motivo di arricchimento reciproco e non di diffidenza, di uguaglianza e non di discriminazione, di incontro e non di divisione.
Tutto ciò se non vogliamo che la xenofobia, la paura appunto di ciò che è percepito come alter, "diverso da noi", prenda il sopravvento, impedendoci di ragionare sulla realtà dei fenomeni odierni in maniera lucida.
Forse gli Italiani dimenticano spesso di essere stati proprio loro i principali migranti del XX secolo, quando alla volta degli Stati Uniti si imbarcavano per dare un futuro migliore alle proprie famiglie e venivano relegati ai margini della società, additati dagli autoctoni come portatori di povertà e delinquenza. Eppure col tempo, gli italiani,
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come gli altri immigrati hanno contribuito in parte a fare dell'America la potenza mondiale che è oggi.
Dovremmo ricordare il senso di inadeguatezza che pervade chi non si sente accolto e comportarci di conseguenza con più empatia nei confronti di stranieri sfortunati che vedono nell'Italia la speranza di una vita migliore.
La cittadinanza nel diritto internazionale viene concepita come una prerogativa degli Stati.
Essi tuttavia non dispongono di una totale autonomia nella sua attribuzione, la delimitazione è costituita da un genuine link, una connessione effettiva con lo Stato del quale si domanda la cittadinanza. Le decisioni nazionali possono esercitare un significativo ascendente su quelle internazionali. A tal proposito riporto il caso Nottebohm della Corte Internazionale di Giustizia del 1955.
Il ricorso in esame viene dichiarato inammissibile in mancanza di significativi legami di interessi e sentimenti del Sig. Nottebohm con il Liechtenstein che permettano la attribuzione della cittadinanza di tale paese e dunque la protezione diplomatica da parte sua per far fronte al rifiuto di ingresso perpetrato dal Guatemala ai danni di Nottebohm. Il diritto di "suolo", inteso come luogo di nascita sul territorio italiano, una nave o un aeromobile nazionale, conferisce la cittadinanza italiana per il solo fatto di esser nati in tali spazi. Oppure semplicemente in seguito alla nascita da genitori apolidi o noti ma il cui ordinamento giuridico non contempla la acquisizione di cittadinanza iure sanguinis. Grazie alla naturalizzazione è possibile l'ottenimento della cittadinanza italiana una volta compiuto il diciottesimo anno d'età in seguito a dieci anni di residenza legale.
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Infine la cittadinanza viene concessa anche a seguito di matrimonio o unione civile con un cittadino italiano e tramite iuris communicatio nel momento in cui la cittadinanza viene trasferita da una persona al proprio coniuge e ai figli minori di questo. Ulteriore modalità di acquisizione della cittadinanza è quella conseguente alla successione di uno Stato ad un altro nel potere.
Un limite degno di nota per l'attribuzione o la revoca della cittadinanza è rappresentato dal rispetto delle norme sui diritti umani fondamentali sulla base di criteri discriminatori come quello della "razza" oppure arbitrari. Parlare di "razza" ancora oggi è perturbante se ci volgiamo alla storia passata e alle battaglie per l'ottenimento dell'uguaglianza che sono state intraprese in tutto il mondo. L'unica razza che accomuna l'intera popolazione mondiale dovrebbe essere considerata il genere umano.
La Convenzione delle Nazioni Unite di New York del 1954 definisce "apolide" la persona che nessuno stato considera come proprio cittadino e conseguentemente vengono negati alla persona in questione i diritti e doveri collegati.
L'apolidia può essere originaria o successiva, di diritto o di fatto. Il nostro ordinamento manifesta la sua tolleranza nei confronti del principio della doppia cittadinanza. Nel caso in cui infatti venga acquisita una cittadinanza straniera si può conservare quella italiana, salvo il caso in cui la persona decida di rinunciarvi.
Sebbene l'individuo apolide sia spesso anche un rifugiato, le due qualifiche differiscono quanto a normativa e significato.
I rifugiati hanno quale presupposto l'esistenza di una persecuzione dello Stato di origine o di un espatrio nei confronti dell'individuo.
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Lo stato di apolide invece, comprende un conflitto negativo tra ordinamenti cagionato da una assenza di cittadinanza conseguente a una discordanza fra le legislazioni nazionali.
La solidarietà internazionale è più propensa a manifestarsi per chi sia vittima di persecuzioni politiche o religiose piuttosto che per chi non abbia una patria, infatti il primo è uno status temporaneo mentre il secondo permanente. A differenza di quanto accade per i rifugiati, gli apolidi non godono di una norma che fornisca loro una esenzione dalle sanzioni penali qualora si sia verificato il loro ingresso clandestino. Per quanto concerne gli apolidi, inoltre, non si fa alcun riferimento all'allontanamento da uno Stato che perseguiti l'individuo, come invece avviene per i rifugiati, ma solo all’espulsione.
La Convenzione non esamina l'ipotesi ove un individuo non adempia all'ordine poiché non riesce a identificare lo Stato disposto ad accoglierlo sul proprio territorio. L'individuo si troverebbe di fronte a due comandi tra loro contrastanti, abbandonare il territorio e divieto di accedere allo Stato vicino e vi sono molteplici casi di condanna a causa di mancata ottemperanza a un ordine di espulsione.
Una soluzione per ovviare a tale problema è rappresentata dallo stato di necessità o dalla forza maggiore, in presenza di tali circostanze è possibile non ottemperare al provvedimento di espulsione senza andare incontro ad un reato.
Costituisce un principio generalmente riconosciuto a entrambe le situazioni di apolide e rifugiato quello che proibisce che la persona in questione venga allontanata in direzione di Stati nei quali la vita o la incolumità della stessa sarebbero in pericolo.
In Italia gli apolidi sono 15mila. Si tratta di persone che per molteplici ragioni non hanno né passaporto né cittadinanza, e per questo motivo
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non hanno accesso ai diritti fondamentali. In Europa coloro che versano in tali condizioni sono 600mila.
In Italia trovarsi in una simile situazione può tramutarsi in una condanna, è molto difficile riuscire a farsi rilasciare lo status di apolide, la causa predominante sono le complicate procedure burocratiche. Come se non bastasse l’apolidia si tramanda di padre in figlio in virtù dello ius sanguinis in vigore in Italia, che prevede che possano essere cittadini italiani solo i figli di italiani, o ancora chi sia nato in Italia da genitori di nazionalità straniera solo al compimento del diciottesimo anno d'età. 82
Riguardo ai limiti che sussistono in merito alla cittadinanza nel diritto internazionale un ruolo fondamentale è ricoperto dalla Corte permanente di giustizia internazionale, la quale ha affermato che le questioni di cittadinanza ricadano nel dominio riservato degli Stati. Il principio della competenza domestica è delineato non solo dalla giurisprudenza della Corte ma anche da accordi più generali, quale la Conferenza per la codificazione del diritto internazionale dell'Aja, che stabilisce che la disciplina della cittadinanza rientra nella domestic
jurisdiction degli Stati.
Si tratta di un principio che incontra delle deroghe. Tra gli accordi con cui gli Stati limitano tale competenza esclusiva abbiamo quelli che riguardano le cessioni territoriali riguardanti gli obblighi per le parti sulla cittadinanza degli abitanti dei territori che sono stati ceduti. Un'altra parte della dottrina sostiene che non vi siano delle norme esplicite in materia ma individua il limite alla giurisdizione domestica nel fatto che ogni Stato abbia l'obbligo di rispettare il fatto di non usurpare un'altra sovranità statale.
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E' di fondamentale importanza che il tribunale internazionale verifichi la sussistenza di un vincolo di cittadinanza effettivo e non meramente teorico, si parla a tal proposito del principio di effettività nel quale si attribuiva particolare importanza al domicilio. In merito a ciò è opportuno ricordare il caso Pinson. Il caso Salem rappresenta invece una inversione di tendenza rispetto al principio della cittadinanza effettiva.
I limiti che vengono individuati di volta in volta da dottrina e prassi suggeriscono la sussistenza di un limite generale che è il "collegamento reale".
A partire dalla metà del 1880 è nato un contenzioso riguardo alla pretesa di alcuni stati latino-americani di attribuire la cittadinanza ad alcuni individui sulla base della loro presenza sul territorio dello Stato o all'acquisto di immobili nel paese, pensiamo al caso del Venezuela, del Brasile o del Perù.
La attribuzione della cittadinanza durante bello, invece si giustifica nel fatto che lo Stato occupante debba rispettare il vincolo di fedeltà che lega la comunità allo Stato occupato.
Non si può pensare ad una delega da parte del diritto internazionale nei confronti di quello interno in materia di cittadinanza, poiché infatti quest'ultima costituisce una peculiarità delle legislazioni interne. Gli Stati hanno l'obbligo di attribuire suddetta cittadinanza solo nel caso in cui sussista un legame "effettivo" tra lo Stato e l'individuo interessato, si tratta di un limite il cui superamento viene sanzionato con la inefficacia.
Il riconoscimento della cittadinanza per i figli degli immigrati nati in Italia è già in realtà appoggiato dal diritto internazionale al fine di evitare spiacevoli situazioni di apolidia. Invero, si tratta di persone che hanno formato la loro individualità e cultura nel nostro Paese, dunque
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tale visione ben si sposa con l'articolo 2 della nostra Carta costituzionale che afferma il riconoscimento dei diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Per quanto riguarda la tutela dei diritti di origine comunitaria sono gli ordinamenti nazionali che si occupano di dare una definizione degli aspetti processuali. Tale autonomia degli Stati membri incontra dei limiti.
Il principio del primato del diritto comunitario stabilisce che esso