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Le istituzioni di gestione dei beni comuni: il “metodo Ostrom” applicato alla ricerca

Le istituzioni di gestione dei beni comuni: il “metodo Ostrom” applicato

alla ricerca storica

1.a) L’approccio neo-istituzionale allo studio dei beni comuni

Si è accennato in precedenza all’interesse dei medievisti per le relazioni tra beni comuni e scontri politici interni alle società comunali tra XII e XIII secolo. Una trattazione simile riferita all’età moderna si ebbe nel 1992 con la pubblicazione di un numero monografico dei «Quaderni storici» dedicato alle risorse collettive e curato da Diego Moreno e Osvaldo Raggio. Partendo dalle considerazioni svolte da Marc Bloch sul regime agrario francese – segnato da un crescente sfavore verso la sovrapposizione di diritti reali sulla terra, di cui il pascolo “vano” sui fondi privati era la principale manifestazione – il volume affrontò il tema proponendo un innovativo approccio di taglio sì “microstorico”, ma capace di coniugare ricerca storica, archeologia, ecologia storica, botanica. Il bersaglio polemico era la tesi sostenuta da Garret Hardin sulla inevitabile distruzione delle risorse naturali sottoposte a forme comuni di gestione, ma l’opzione di scala limitò profondamente la contestualizzazione delle pratiche studiate entro la cornice istituzionale di riferimento126.

In seguito, nonostante la qualità dei saggi e l’indubbia fecondità delle prospettive indicate, l’interesse per le risorse collettive si è parcellizzato, almeno fino al 2009, in una quantità di studi non sempre accostabili per il metodo impiegato e fini di ricerca e aventi come terreno di indagine

singole comunità o regioni127. Cito il 2009 perché in quell’anno è stato assegnato il premio Nobel

per l’economia e le scienze sociali ad Elinor Ostrom per i suoi studi sugli adattamenti istituzionali e le dinamiche delle azioni collettive riguardanti le common pool resources, riassunti nel libro

126 L’influenza di fattori non riconducibili strettamente al contesto locale è chiaramente esclusa, come fenomeno

dotato di un qualche rilievo, dalla stessa premessa dei curatori: «Gli autori di questo fascicolo descrivono realtà definite da una gerarchia mobile di risorse; mostrano il ruolo di una pluralità di attori, spesso antagonisti (notabili locali, creditori, imprenditori, famiglie e parentele, gruppi stratificati, associazioni), e di configurazioni sociali mutevoli, in tempi e contesti diversi», cfr. D. MORENO,O.RAGGIO, Premessa, in Quaderni storici, 81 (1992), p. 614. I modesti successi di quella prospettiva, seppur ampiamente mitigati da un interesse storiografico nel frattempo irrobustitosi, sono stati oggetto di riflessione a 25 anni di distanza in un altro numero della stessa rivista, cfr. V. TIGRINO, Premessa, in Quaderni storici, 155 (2017), pp. 297-316.

127 Una rassegna storiografica sulle varie tendenze regionali è stata recentemente proposta da D. CRISTOFERI, Da usi

civici a beni comuni: gli studi sulla proprietà collettiva nella medievistica e modernistica italiana e le principali tendenze storiografiche internazionali, in Studi storici, 57 (2016), pp. 577-604, in particolare pp. 589-599.

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Governing the commons del 1990128. La studiosa arrivò a quella pubblicazione dopo più di un

ventennio di ricerche sul campo, condotte non solo per sottoporre a verifica la tesi di Hardin formulata nel 1968 sulla rivista Science, ma anche per dimostrare che né il controllo statale né la proprietà privata sono immuni dal rischio di fallire l’obiettivo di conservare la risorsa129. Alla base

delle ricerche ostromiane vi è lo studio di Mancur Olson, che negli anni ’60 indagò il funzionamento dei gruppi di pressione. Olson si concentrò soprattutto sull’analisi del comportamento dei soggetti propensi a sfruttare i benefici dell’azione del gruppo senza contribuire ai costi o rispettare le regole interne (i c.d. free rider) e sulle forme di coercizione necessarie per assicurare l’efficacia delle azioni poste in essere dai gruppi più numerosi. Per Olson la naturale propensione dell’individuo a perseguire il suo interesse egoistico deve essere bilanciata dal ricorso ad incentivi selettivi, capaci di discriminare chi si sottrae alla cooperazione, rendendo così più conveniente unirsi all’azione collettiva130.

È da questo retroterra teorico che Ostrom plasma la nozione di “istituzione” consistente nell’insieme di: «regole operative seguite per determinare chi è autorizzato a prendere decisioni in alcuni campi, quali azioni sono consentite o soggette a restrizioni, quali regole di aggregazione verranno adottate, quali procedure vanno seguite, quali informazioni devono, o non devono, essere fornite e quali compensi devono essere assegnati agli individui a seconda delle loro

azioni»131. In presenza di talune condizioni, quando gli utenti possono scambiarsi informazioni e

128 Tradotto in Italia sedici anni dopo: E. OSTROM, Governare i beni collettivi, Venezia, 2006.

129 G. HARDIN, The tragedy of commons, in Science, n. 162 (13/12/1968), pp. 1243-1248. Secondo Hardin, l’accesso

libero alle risorse naturali comporta la loro integrale distruzione a causa del comportamento dei free-rider, vale a dire coloro che sfruttano eccessivamente la risorsa per ridurre l’utilità che gli altri fruitori possono ricavarne. Il biologo si servì come esempio di una terra dedicata al pascolo comune, risorsa che Ostrom avrebbe invece dimostrato di essere al contrario agevolmente conservabile anche senza ricorrere ad un controllo centralizzato, pubblico o privato. La tesi di Hardin sviluppava per certi versi i concetti già espressi dall’economista William Forster Lloyd negli anni 30 dell’Ottocento. Recentemente è stata posta in rilievo l’affinità della tesi di Hardin con l’indirizzo neo-malthusiano assunto dal movimento ambientalista statunitense negli anni Sessanta, secondo cui la crescita della popolazione globale avrebbe irrimediabilmente danneggiato l’ecosistema via aumento dell’inquinamento ed eccessiva concentrazione abitativa nelle grandi aree urbane. La sfiducia verso le teorie dell’azione collettiva e il successo della tragedy e del dilemma del prigioniero trovarono terreno fertile nel clima culturale e politico degli anni della Guerra Fredda, condizionando, oltre alla didattica accademica, anche alcune iniziative di cooperazione per lo sviluppo promosse dagli USA in Paesi del Terzo mondo, come espone F. LOCHER, Third World pastures: the historical roots of the commons paradigm (1965-1990), in «Quaderni storici», n. 151, (2016), pp. 303-333. Cenni anche in D. WALL, The commons in history. Culture, conflict and ecology, Cambridge, 2014, pp. 10-42.

130 Meno dannosi nelle piccole aggregazioni, i comportamenti di free riding diventano generalmente più numerosi al

crescere del gruppo, laddove si allentano i legami personali di conoscenza (e dunque di controllo reciproco) tra i membri. La strategia per evitare condotte opportunistiche deve quindi tenere conto in primo luogo della dimensione del gruppo in oggetto e in un secondo momento elaborare adeguati incentivi selettivi, distinti dal conseguimento dell’interesse comune e forniti individualmente ai consociati, sotto forma di sanzioni economiche, giuridiche, sociali, premi etc., cfr. M. OLSON, La logica dell’azione collettiva. I beni pubblici e la teoria dei gruppi, Milano, 2013 (ed. orig. Harvard, 1965).

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convenire su modi e livelli di appropriazione del bene e sulle corrispondenti sanzioni per le infrazioni, la “tenuta” dell’istituzione così plasmata è generalmente ottimale.

Un dato su cui la stessa Ostrom ha avuto modo di tornare ancora nel 2010 riguarda la complessità dei sistemi studiati per la gestione dei beni comuni. Essendo i singoli elementi del sistema interrelati tra loro, non possono essere studiati omettendo i legami con le altre parti, né presupponendo che le dinamiche evolutive di tali istituzioni non siano influenzate dall’ambiente locale, dalla cultura e dal rapporto costi-benefici132. Sempre sulla complessità delle informazioni di

cui tenere conto per stabilire le regole di appropriazione, oltre che sulle relative asimmetrie informative e dei costi necessari per colmarle, si basa la dimostrazione che situazioni regolamentari collettive siano più vantaggiose di situazioni etero-normate. Il rilievo dato dalla Ostrom ai caratteri di pubblicità e di effettività delle regole appropriative, caratteri che le distinguono nettamente dalle semplici pratiche, consentono quindi di adattare il suo modello anche allo studio storico-giuridico.

Nello stesso anno un convegno tenutosi a Nonantola – luogo non casuale – si proponeva di raccogliere l’eredità di quella stagione di riflessioni a cavallo tra anni ’80 e ’90, introducendo però un innovativo e più omogeneo approccio allo studio dei beni collettivi proprio sulla scorta della lezione ostromiana, di taglio neo-istituzionale. L’obiettivo dichiarato consisteva nel superare i passati dibattiti di cui si è parlato, concentrandosi sulle forme di gestione dei beni praticate nell’Italia settentrionale in rapporto ai principali cambiamenti economici, che produssero un più attento uso del suolo e la valorizzazione degli introiti generati.133 Gli studi pubblicati, verificando

l’adeguamento delle istituzioni preposte alla conservazione dei commons, hanno tenuto conto per un verso delle peculiarità delle comunità studiate – che la microstoria ci ha dimostrato essere corpi composti da gruppi portatori di interessi talvolta contrapposti – e dall’altro dello specifico sistema giuridico del “lungo medioevo”, che accanto ad una massa di diritti locali di varia origine conosceva una fonte di chiusura del sistema nel diritto comune.

In generale, va detto che la storiografia italiana è giunta con un po’ di ritardo a trattare questi temi, rispetto ad altre esperienze europee. Tra queste spicca soprattutto il nord Europa ed è obbligatorio citare almeno il pluriennale impegno di Tine de Moor e del gruppo di ricercatori da lei coordinato in seno all’Università di Utrecht (denominato Institutions for collective actions) e le

132 Cfr. E. OSTROM, A long polycentric journey, in Annual Review of Political science, n. 13 (2010), pp. 1-23. Riflettono su

questo aspetto della sua ricerca E. BERGE,F. VAN LAERHOVEN, Governing the commons for two decades: a complex story, in International Journal of Commons, 5 (2011), pp. 160-187.

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pubblicazioni dell’International Journal of the Commons, curato dall’associazione IASC promossa

dalla stessa Ostrom134. Secondo de Moor l’emersione di istituzioni di corporate collective action è

un fenomeno che accomuna la nascita delle gilde e delle corporazioni di mestiere alle istituzioni preposte alla gestione di risorse naturali. A tale risultato si sarebbe pervenuti per far fronte alla crescita demografica e allo sviluppo del mercato e le azioni collettive così organizzate, oltre a produrre una distribuzione sociale del rischio, comportavano minori costi di transazione per i singoli agenti e una maggiore uguaglianza nell’accesso alla risorsa. I beni comuni quindi sono da rapportare a specifici “corpi” e non a intere comunità e costituiscono con le corporazioni una delle modalità di azione collettiva diffuse nel medioevo. È una proposta di utilizzo del metodo istituzionale che non è stata esente da critiche ma risulta indubbiamente una delle più organiche finora avanzate135.

Per quanto riguarda più dappresso la storiografia giuridica, posta la posizione di tutto riguardo che le diverse risorse collettive occupavano nelle economie locali, l’analisi delle forme di gestione dei beni comuni ha dimostrato la sua idoneità a porre in relazione la proprietà collettiva con vicende istituzionali, ambientali ed economiche grazie agli studi di Stefano Barbacetto e Alessandro Dani136. L’evoluzione dei diritti d’uso e delle forme di gestione dei beni, coniugando

storia giuridica e diversi aspetti di storia sociale, sono state studiate su una prospettiva di lungo periodo, ponendo particolare cura nel sottolineare tanto le specificità giuridiche degli istituti e il loro modificarsi a seconda dei tempi e dei luoghi quanto il ruolo che ebbe la dottrina di diritto comune nel tradurre in linguaggio giuridico quelle pratiche sotto forma di pareri, trattati o decisioni giudiziarie.

134 Sia l’Institutions for collective actions (www.collective-action.info) sia l’International Association for the Study of the

Commons (www.iasc-commons.org) conducono un’attività di ricerca scientifica spiccatamente interdisciplinare. Di de Moore vedi almeno: M. DE MOOR,L.SHAW-TAYLOR,P.WARDE, The management of common land in north west Europe, c. 1500-1850, Turnhout, 2002; M. De Moor, The dilemma of the commoners. Understanding the use of common-pool resources in long-term perspective, Cambridge, 2015. In Italia va riconosciuto il merito di un analogo impegno non soltanto sul fronte della ricerca storica, ma anche su quello del dialogo con giuristi positivi e amministratori pubblici al Centro Studi sui demani civici dell’Università di Trento, diretto per anni da Pietro Nervi. Il Centro cura anche la pubblicazione dell’“Archivio Scialoja Bolla-Annali di studio sulla proprietà collettiva” (www.usicivici.unitn.it).

135 Perplessità sono state espresse circa le condizioni di esistenza per eventuali azioni collettive (un atteggiamento

relativamente tollerante da parte dell’autorità, la sussistenza di relazioni sociali non strettamente limitate ai rapporti di parentela e il riconoscimento giuridico degli accordi) e il nesso causale tra queste e lo sviluppo di forme di gestione comune delle risorse collettive, dal momento che non si può affermare con certezza che società informate da valori e caratteristiche differenti da quelle studiate nei Paesi Bassi non siano ugualmente riuscite a predisporre istituzioni efficaci, cfr. D.R.CURTIS, Tine de Moor’s “Silent revolution”. Reconsidering her theoretical framework for explaining the emergence of institutions for the collective management of resources, in International Journal of Commons, 7 (2013), pp. 209-229.

136 Sono i già citati A. DANI, Usi civici, cit., e S. BARBACETTO, «La più gelosa delle pubbliche regalie», cit.. Di Dani vedi

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La scelta di adottare il modello ostromiano – con gli opportuni adattamenti –permette così di allargare il campo d’indagine. Focalizzarsi sullo studio delle risorse naturali collettive introduce infatti oggetti, quali i fiumi, i laghi, i bacini di pesca, precedentemente ignorati dagli studi classici sulle proprietà collettive. Prima di entrare nello studio dei casi specifici, è opportuno qualificare le risorse collettive alla luce della classificazione delle res operata dal diritto comune e modificata dalla prassi. Nei prossimi due paragrafi si farà quindi il punto su boschi, pascoli, prati, acque e fiumi da un punto di vista teorico. Infine si farà una panoramica sintetica delle fonti e delle magistrature genovesi coinvolte nella gestione dei beni comuni nella Liguria moderna.

2.a) Le risorse agro-silvo-pastorali dal Corpus iuris alla campagna ligure

La suddivisione dei beni in diverse categorie che i giuristi medievali ereditarono dal Corpus iuris era il risultato di un processo evolutivo durato diversi secoli, che aveva portato ad un’articolazione via via più dettagliata, soprattutto per quanto concerne le cose in vario modo riferibili al “pubblico”. Riprendendo brevemente la classificazione delle res e considerando solo le res humani iuris, ricordiamo che le Istituzioni giustinianee (I. 2.1 pr.) contrapponevano le res privatae a ben quattro specie di cose diverse: le res publicae, le res communes omnium, le res universitatis e le res nullius. Dirimente è il significato che il termine publicus assunse durante i secoli.

In età repubblicana entro la dimensione “pubblica” non trovavano spazio categorie quali “Stato” o “persona giuridica”, ma il populus Romanus nella sua concreta realtà di comunità organizzata e centro di imputazione di diritti e interessi. In tale contesto maturarono comunque due regimi differenziati di res publicae: le res in patrimonio (o in pecunia) populi e le res in publico usu. Si distinguevano così le cose patrimoniali, destinate a sostenere finanziariamente gli oneri dello Stato e delle città e quindi oggetto di una specifica attività negoziale non dissimile da quella privata, dalle cose destinate a soddisfare determinati bisogni e rimesse all’uso pubblico dei cives, pertanto non disponibili né appropriabili. Recentemente Andrea Di Porto ha riproposto all’attenzione degli studiosi la peculiarità del regime delle res in publico usu, mettendo in evidenza in particolare come dall’analisi degli interdetti volti a tutelarle emergano i poteri e le responsabilità riservate al cittadino in ordine alla difesa delle stesse137.

137 Cfr. A.DI PORTO, Res in publico usu e beni comuni: il nodo della tutela, Torino, 2013, pp. 24-35.Vedi anche A. DANI, Il

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A ciò si aggiunga il fatto che in un primo tempo anche i beni delle colonie e dei municipia erano considerati pubblici. Solo successivamente la locuzione publicus fu riservata esclusivamente ai beni del populus Romanus, mentre i beni delle comunità territoriali furono compresi nella nuova categoria delle res universitatis. Il disordine terminologico è tuttavia testimoniato da molti passi del Corpus dove l’appellativo publicae viene ancora riferito ai beni delle città. In ogni caso, anche per questi vigeva un duplice regime normativo e di utilizzo, a seconda che si trattasse di res in patrimonio o in publico usu.138

Almeno fino al Principato quindi il panorama dei “beni pubblici” fu contrassegnato da una certa complessità di contenuti, abbastanza lontano dalle tinte monocromatiche con cui si è soliti tratteggiare la proprietà romanistica. Ma appunto a partire dall’età dei Severi le res in patrimonio populi si trasformarono in res in patrimonio fisci, cioè del fisco statale, mentre le cose veramente publicae rimasero quelle in usu populi139.

Secondo parte della dottrina romanistica, i compilatori giustinianei avrebbero mantenuto tale impostazione della disciplina delle res publicae, considerandole appartenenti alle persone giuridiche pubbliche e non alla collettività di riferimento mentre le res in publico usu corrisponderebbero in sostanza ai nostri beni demaniali140. Una simile classificazione avrebbe

incontrato solo maggiori incertezze a livello delle res universitatis, ma dal punto di vista del patrimonio statale essa sarebbe stata sufficientemente solida. È però ancora condivisibile l’opinione di Grosso, secondo il quale tra le due categorie di beni pubblici in realtà non ci sarebbe mai stata una separazione assoluta. Le ibridazioni e le sfumature, in questa materia all’ordine del giorno, sono da attribuirsi anche al rapporto tra Stato e res in publico usu, oscillante tra atteggiamenti più fortemente proprietari (in senso privatistico) e un ruolo di vigilanza sulla

destinazione pubblica del bene che poneva in secondo piano il profilo dell’appartenenza141.

disponibile al link http://www.historiaetius.eu/uploads/5/9/4/8/5948821/dani_6.pdf (consultato il 30 dicembre 2018).

138 G. GROSSO, Le cose: corso di diritto romano, Torino, 1941, pp. 181-193. Il termine «publicae» utilizzato per i beni

municipali era bollato di abusività dagli stessi giuristi, che però non poterono fare altro che prendere atto dell’uso corrente. Marciano inoltre parlava anche di communia civitatum in D. 1.8.6.1.

139 Il cambio di denominazione ha forse un valore ulteriore rispetto alla pura evoluzione semantica, perché può

intendersi come un riflesso dell’avvenuto distacco dello Stato come ente dalla comunità di uomini governata. Su questo punto va ricordato che il Vassalli sostenne che, dopo l’introduzione del concetto di res fiscales, il termine publicus avrebbe indicato soltanto il contenuto oggettivo delle cose, conferito loro dallo scopo e dal regime di utilizzo, e non dal soggetto titolare. Grosso non condivideva questa impostazione, notando che la limitazione assoluta della qualifica di publicae alle sole res in usu publico non si riscontrava nel diritto giustinianeo, G. GROSSO, Le cose, cit., pp. 118-129.

140 Così G. SCHERILLO, Lezioni di diritto romano. Le cose, parte I, Milano, 1945, p. 212. 141 G. GROSSO, Le cose, cit., pp. 118-129.

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Per quanto riguarda più in particolare le risorse agro-pastorali, va detto che anche i romani conobbero forme di collettivismo agrario, tra cui la più nota è certamente il compascuo. Esso non presentava caratteristiche omogenee già nella Roma arcaica e subì un’evoluzione significativa tra la Repubblica e l’Impero, a seguito dell’innestarsi dell’ordinamento coloniale – colonie che erano titolari di uno specifico ager compascuus distinto da quello statale – su preesistenti forme di sfruttamento comune di boschi e specchi d’acqua, diffuse tra i pagi italici142. Esso coesistette per

secoli assieme alla proprietà ex iure Quiritium e a quella pubblica-patrimoniale, dimodoché va ridimensionata la concezione che vorrebbe la proprietà romana divisa tra “pubblica” e “privata” senza spazio alcuno per dimensioni altre, sulla scorta degli studi di Capogrossi Colognesi 143.

Secondo gli studi di Enrico Sereni, condotti proprio in Liguria, già prima della penetrazione romana esistevano terre aperte agli usi e all’occupazione dei singoli pagi e altre terre, propriamente compascuali, in cui il diritto di occupazione e recinzione a scopo di coltura era precluso. Queste forme di organizzazione della gestione della terra s’integrarono nei secoli successivi con l’ordinamento coloniale e sopravvissero tramutandosi in vicanalia e communalia nell’alto medioevo144. È significativo che la prova più importante di tale assetto sia la nota tavola di

Polcevera, a testimonianza delle radici antichissime delle comunaglie liguri. Fondamentalmente plausibile appare dunque l’ipotesi secondo cui la sintesi tra costumi delle popolazioni rurali, che avevano vissuto la romanizzazione anche nelle forme del controllo territoriale, e le tradizioni germaniche riportò alla luce forme di utilizzo collettivo delle risorse già in vigore, più o meno “occultate”, prima del V secolo.

L’indeterminatezza dei confini tra una categoria e l’altra fu senz’altro incrementata dalla

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