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Capitolo III Governare terre contese: fonti e conflitti per l’utilizzo di boschi e pascoli

1) C OMUNAGLIE E QUESTIONI DI CONFINE IN V ALLE D ’A RROSCIA

1.a) Il capitanato di Pieve di Teco e la fisionomia delle comunaglie

Lo studio prende le mosse dall’esame di uno degli aggregati insediativi più importanti dell’entroterra ligure della riviera di Ponente, vale a dire l’insieme di comunità situate lungo la valle del torrente Arroscia, alle spalle della pianura di Albenga, che avevano in Pieve di Teco il centro principale. Tale scelta è giustificata per diversi motivi.

In primo luogo il territorio di Pieve si snoda alle falde delle prime, alte cime delle Alpi marittime, situato in una posizione strategica lungo una vallata che conduceva da Albenga verso Ormea e il Piemonte. Venduto dai signori di Clavesana al comune di Genova tra 1384 e 1386, il capitanato pievese fu teatro di diverse azioni militari e cambi di mano durante il travagliato secolo

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XV, finché Genova non ne cedette l’amministrazione al Banco di San Giorgio in attesa della stabilizzazione della situazione politica con la fine delle guerre d’Italia223.

Retto da un capitano genovese tratto dall’ordine patrizio, era a tutti gli effetti una circoscrizione di confine. Eccettuato il versante orientale, verso il contado di Albenga, la giurisdizione pievese confinava per il resto con Pornassio, posseduto in parte dalla Repubblica e in parte dai signori Scarella; a sud con Rezzo (dei Clavesana), Cénova, Lavina e S. Bartolomeo (dei signori del Maro e cedute nel 1575 al Duca di Savoia), Vellego, Marmoreo, Ubaghetta, Montecalvo e Casanova Lerrone (dei signori Della Lengueglia), mentre a occidente Caprauna e Alto (dei signori Cepollini), Aquila d’Arroscia e Gavenola (appartenenti ai Del Carretto di Zuccarello). Ciò contribuì ad aumentare il tasso di litigiosità intercomunitaria per l’accesso a boschi e pascoli condivisi tra comunità vicine, dando luogo ad un contenzioso anche molto aspro e duraturo.

Il capitanato di Pieve si presenta poi come una circoscrizione amministrativa complessa, composta da due compagini distinte (le ville superiori e inferiori). Il capoluogo formava con altri centri una delle due castellanie delle ville inferiori. Di essa facevano parte anche Vessalico, Cartari, Siglioli, Lenzari, Gazzo e Gazzetto. Nel complesso con 2250 persone circa era la frazione più popolosa. La seconda castellania delle ville inferiori aveva come perno il borgo di Ranzo, che con Borghetto di Acquatorta (Borghetto d’Arroscia), Ubaga, Costa Bacelega e Degola giungeva a contare circa 1800 abitanti. Sotto la dicitura “ville superiori” erano invece ricompresi il quasi abbandonato insediamento di Teco, dove era sito il castello prima della rifondazione clavesanica degli anni ’30 del Duecento, Acquetico, Trovasta, Trastanello, Armo, Moano, Nirasca, Lovegno, Ligazorio, Muzio e Calderara per circa 1950 abitanti224. Tale sub-articolazione del capitanato

rifletteva i legami di solidarietà politica e di condivisione di beni comunali in essere tra le comunità

223 Cenni di storia del borgo di Pieve in P. GUGLIELMOTTI, Ricerche sull’organizzazione del territorio, cit., in particolare pp.

101-106; J. COSTA RESTAGNO, Le villenove del territorio di Albenga tra modelli comunali e modelli signorili (secoli XII-XIV), in R. COMBA, F.PANERO,G. PINTO ( cura di), Borghi nuovi e borghi franchi nel processo di costruzione dei distretti comunali nell’Italia centro-settentrionale (secoli XII-XIV), Cherasco-Cuneo, 2002, pp. 271-306; R. MUSSO, Il dominio degli Spinola su Pieve di Teco, e la valle Arroscia (1426-1512), in Ligures, 1 (2003), pp. 197-214. Già in possesso dal 1453 della Corsica, a fine Quattrocento il Banco ricevette Lerici (1479), Sarzana (1484) con i rispettivi contadi. Durante le convulse vicende delle guerre d’Italia, furono affidate al Banco anche Ventimiglia (1514), Pieve e Levanto (1515). Il Doge, consapevole dell’ostilità degli uomini d’Arroscia nei confronti dei Fregosi, ritenne più prudente affidarne l’amministrazione al Banco finché, per l’onerosità delle spese, questo non restituì tutti i possedimenti liguri alla Repubblica nel 1562. La bibliografia su San Giorgio difetta però di studi sul suo governo delle comunità locali, si segnala solo la parziale ricostruzione di G. DE MORO, Ventimiglia sotto il banco di San Giorgio 1514-1562, Pinerolo, 1991.

224 I dati relativi agli abitanti sono riferiti agli anni ‘10 del Seicento, quando fu redatta la Descrizione di luoghi e terre

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interessate, oltre a costituire un fronte di azione comune contro il borgo di Pieve per il riparto delle imposte.

Le comunità pievesi disponevano di numerosi beni usati collettivamente, economicamente più redditizi e quantitativamente più estesi nell’alta valle, rispetto alle comunaglie delle ville inferiori225. Si riscontra una notevole eterogeneità di siti compresi nel generico termine di

comunaglie. Numerosi i boschi, che potevano essere costituiti da vegetazione minuta e di scarso valore o da faggete e castagneti. Diffuse le terre seminate stagionalmente e usate poi per la segatura del fieno, e in misura minore le terre incolte. Per fare qualche esempio, Acquetico possedeva due appezzamenti importanti, uno misto, boschivo (faggi e castagni) e seminativo e il secondo di boscaglia minuta e di faggi. La comunità aveva anche un terreno (le «chiazze di Theco») utilizzato prevalentemente per il pascolo. Armo e Trastanello possedevano in comune i boschi e i prati detti della valle Orsaira, alquanto estesi. Se per le ville superiori le risorse agro-forestali costituiscono talvolta l’unica voce d’entrata, per quelle inferiori spicca la partecipazione ai ricavi prodotti dai mulini di Vessalico.

I censimenti di inizio Seicento classificano le comunaglie in base alla comunità di appartenenza. Ciascuna di esse disponeva quindi di propri beni comuni, dai quali erano solitamente esclusi gli uomini degli altri villaggi, anche se appartenenti alla medesima giurisdizione. La comunione indivisa su risorse naturali e beni artificiali tra Pieve e i centri minori dell’alta valle aveva infatti cessato di esistere nel 1491, quando gli uomini di Teco, Acquetico, Trovasta, Trastanello, Armo, Moano, Nirasca e Lovegno si radunarono al cospetto del Podestà di Pieve Giuliano Castagnola per porre termine alle liti e alle controversie e: «dividere an non cum hominibus dicti loci Plebis, et Vallem, sive territorium Viozene, nec non omnes alias gabellas, molendina, et res communiter hactenus possessas cum eis»226. Dalla divisione discese così la

potestà di ogni centro abitato a gestire in autonomia i propri beni e ad autoregolamentarne l’utilizzo, come si vedrà nel prossimo paragrafo.

Il territorio di Viozene citato era il più importante bene comune del capitanato227. Posto

aldilà del Tanaro e del torrente Negrone, l’altopiano di Viozene è delimitato dalle vette dei monti Marguareis e Mongioie e si presentava come:

225 ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, cc. 134 v-157. 226 ASGe, Giunta dei confini, 94.

227 Il nome “Viozene” pare derivare dalla tribù dei Liguri Vogenni, abitanti le regioni montane poste tra Liguria e

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«Un territorio campestre alpino e seminativo, nominato Viozena, distante dal Borgo diece miglia, qual circonda miglia 30 in circa, confinato all’oriente dal territorio d’Olmea, all’occidente dal territorio della Briga, al mezo di, dal fiume Negrone, e Tanagro, et alla Tramontana dal territorio del Mondevio, Freboza, et Olmea nel qual Territorio li Contadini delle suddette Ville sogliono seminare, e condurre i loro bestiami a pascere nei tempi estivi, e vi hanno molti alberghi, o sia tetti, nei quali habitano in detti tempi estivi et alcuni anco vi si governano all’invernata»228.

Le dimensioni ragguardevoli del sito ne facevano la principale zona di pascolo dell’intero complesso della valle Arroscia ma anche il territorio più conteso da pievesi e ormeaschi per ben cinquecento anni.

1.b) I diritti d’uso delle comunaglie

Alla molteplicità delle risorse collettive si associava un’ancor più grande varietà di diritti d’uso in capo agli uomini delle comunità pievesi. La ricostruzione di questi diritti è resa possibile tramite l’incrocio di fonti diverse: gli statuti dei borghi di Pieve e Vessalico, i bandi campestri approvati dalle comunità a partire dalla fine del XVI secolo, i censimenti patrimoniali di inizio Seicento svolti dagli inviati genovesi. Il processo di parziale autonomizzazione politica e amministrativa delle ville del capitanato, culminato con l’atto di divisione del patrimonio pubblico del 1491, favorì infatti la costituzione di situazioni giuridiche differenti per ciascun centro, che si trovò a quel punto nella condizione di dover gestire e difendere i propri beni collettivi.

specifico sulla pastorizia nell’alta val Tanaro vedi T. PAGLIANA, Gli alpeggi dell’alta val Tanaro e la vita dei pastori, in R. COMBA,A.DAL VERME,I.NASO (a cura di), Greggi, mandrie e pastori nelle Alpi occidentali, Cuneo, 1996, pp. 149-178; per la rilevanza del pascolo di Viozene e del controllo di altre risorse naturali nel conflitto signorile tardo-medievale che oppose i Signori di Pornassio, di Garessio, di Ormea, i marchesi di Ceva e Clavesana – di cui in parte si è detto in apertura, vedi G. COMINO, Economia, scambi e signoria locale. L’area alpina del Piemonte sud-occidentale tra XI e XVI secolo, in F. PANERO,C.BONARDI (a cura di), Il popolamento alpino in Piemonte. Le radici medievali dell’insediamento moderno, Torino, 2006, pp. 237-262. Più in generale, alcune note sulla pratica del pascolo sulle Alpi liguri sono offerte da E. BASSO, Tracce di consuetudini pastorali negli statuti del Ponente ligure, in La pastorizia mediterranea, cit., pp. 133-153.

228 M.P. ROTA, Una fonte, cit., p. 72. Nel registro del Magistrato delle Comunità si indugia maggiormente sulla misura

dei suoi confini: «Una terra detta Viozena, che cominciando dal fiume Tanaré in la parte verso Grimaudo vi sono canelle 1850 dal luogo detto le Colme, sin al colle delle Saline vi sono canelle n. 1955, dalle Saline sin’al fiume Tanager in confine del Carlino canelle 1419, dal Carlino sin’al Grimaudo in confine della Giara canelle 1950», ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, c. 136 v.

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Per il borgo di Pieve e le ville superiori gli statuti risalgono ad un anno imprecisato, tra il XVI e il XVI secolo, e furono successivamente messi a stampa229. Il testo è sostanzialmente ricalcato sui

coevi statuti genovesi, senza significativi adattamenti alle condizioni economiche e ambientali locali. Non stupisce quindi che il solo articolo dedicato alla materia in oggetto sia il capitolo De his qui arbores inciderint, vel terras intraverint alienas, molto simile all’omologo della capitale230. Per il

complesso delle ville inferiori vigevano invece gli Statuta villarum inferiorum del 1513, approvati dal Banco di San Giorgio il 18 dicembre 1514231. Il contenuto di questo testo presenta una

maggiore vicinanza con le peculiarità del territorio, dedicando alcuni capitoli anche ai beni comunali.

La comparsa dei bandi campestri rispose quindi a diverse esigenze. In prima istanza occorreva mettere per iscritto norme integrative di un dettato statutario o lacunoso (come per Pieve di Teco) o non più attuale. Un secondo motivo pare risiedere nelle conseguenze dell’occupazione militare del 1625-26. Non appare fuori luogo ipotizzare che l’evento bellico abbia contribuito ad innalzare il numero degli episodi di pascolo o taglio illecito, alterando l’equilibrio agricolo della zona, come espresso dal preambolo di alcuni bandi approvati nel decennio successivo232. Inoltre il costante transito delle greggi dirette a Viozene e la presenza di proprietari

terrieri e di bestiame originari di comunità vicine appartenenti al Ducato di Savoia, come Cènova o Lavina, giustificarono un generale aggravio delle sanzioni per i danni campestri, di cui si parlerà ancora.

Tornando ai diritti d’uso, dalle fonti ricaviamo quattro temi importanti: la sopravvivenza di comunioni indivise, la natura giuridica delle bandite, la disciplina dello ius pascendi conciliato con altri usi, i diritti esercitabili in particolare a Viozene.

229 Pieve di Teco tentò di dotarsi di nuovi statuti, sia civili che criminali, a metà Seicento, ma senza successo per

l’opposizione di alcune ville del Capitanato, cfr. R. SAVELLI, Gli statuti della Liguria. Problemi e prospettive di ricerca, in Società e storia, 83 (2009), pp. 3-33, in particolare pp. 17-24. La versione a stampa a cui si fa riferimento è quella datata 1652 intitolata Statutorum civilium burgi Plebis, et Villarum Superiorum libri quatuor cum aliquibus capitulis extraordinariis in fine, Genuae, apud Ioannem Mariam Farronum, 1652.

230 La riproduzione assume i tratti della copiatura nel primo capoverso, come si può notare confrontando il capitolo

degli statuti di Pieve e il capitolo XIV del 6° libro degli statuti civili genovesi sulle fattispecie di danno dato, cfr. Degli Statuti civili della Republica di Genova, libri sei, Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1613, p. 189; Statutorum civilium burgi Plebis, cit., p 130. Simili, pur con gli opportuni aggiustamenti, anche le disposizioni in materia di procedura.

231 Editi da B. BATTISTIN, Gli statuti di Vessalico del 1513, Imperia, 1990. Il testo, in sostanza una risistemazione di

materiali precedenti oggi ignoti, trovava applicazione espressa nei centri di Vessalico, Cartari, Ranzo. Ho consultato anche il manoscritto conservato presso l’Istituto Internazionale di Studi Liguri, Fondo Rossi, 27.

232 Nei bandi del 1634 di Armo si propone di «deputare persone ch’habbino facoltà di capitulare, ordinare e provedere

intorno a ciò quello sarà necessario et con authorità di poter terminare il domestico dal salvatico, come era inanti delle passate guerre» (ASGe, Senato Senarega, 1939). La stessa preoccupazione di preservare le coltivazioni private dal pascolo fu espressa dai capitoli di Pieve di Teco del 1632, da quelli di Moano del 1638.

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Nonostante il frazionamento dei patrimoni citato, alcune ville mantennero situazioni di comunione indivisa o di condivisione dei diritti d’uso. Alcuni fondi di Calderara presentano ad esempio la caratteristica di essere aperti agli usi di semina degli uomini di Lenzari233. Armo e Trastanello

possedevano in comune i boschi e i prati detti della valle Orsaira, alquanto estesi234. Anche il

territorio di Viozene fu diviso nel 1491 in due lotti, identificati con i toponimi Rataira e Grimaldi235.

Il primo fu assegnato alle comunità di Acquetico e Trovasta e l’altro a Moano e Calderara. A loro volta i due lotti sarebbero stati divisi dal Podestà di Pieve per ripartire tra gli uomini delle varie località l’effettivo godimento, qualora non avessero voluto conservare i pascoli indivisi, tenendo conto del “peso” di ciascuna villa in base ai registri d’estimo236. I casi di promiscuità erano quindi

nettamente minoritari: in generale la fruizione delle comunaglie era legata alla residenza in uno specifico borgo o villa.

Sia l’inchiesta del 1611, sia gli statuti di Vessalico e molti bandi campestri citano le bandite o comunque l’atto del “bandimento” dei terreni comunali. A Vessalico si trovavano cinque bandite, Lenzari disponeva di un terreno detto “Selvago” «la qual terra è posseduta in commune», mentre altre due bandite di semina (il Quarto sottano della chiazza e i Laghi) erano messe in affitto. Pieve di Teco possedeva un bosco (la “Bandiazza”) mentre ad Acquetico erano banditi i boschi comunali di Ancise. I nuovi capitoli campestri del 1629 introdussero la facoltà per i consoli locali di nominare appositi custodi dei terreni banditi237. La villa di Calderara proibì integralmente il

pascolo nelle bandite comunali e nei castagneti durante il periodo della fruttificazione, senza eccezioni né per i terrieri né per i forestieri.

L’istituto della bandita era diffuso nella Liguria di Ponente e nel Piemonte sud-occidentale. Secondo gli statuti di Ormea sulle bandite della comunità, distinte dai prati privati, erano vietati il pascolo e la raccolta di legname. «Herbagia seu bandita herbagii» per gli statuti di Lingueglietta non potevano essere venduti a persone forestiere ed erano riservate agli uomini della comunità. A

233 Nello specifico gli uomini di Lenzari hanno espressi diritti di semina sui terreni detti Loveira e Peli curti, mentre altri

due (Oveghi e Beccarelli) sono goduti esclusivamente dai calderaresi. Soltanto la Chiazza del bosco genera un reddito di 16 lire di Genova annue, ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, cc. 145 v -146 r.

234 ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, cc. 141 r – 142 r.

235 Secondo Palmero le “alpi” costituenti l’altopiano di Viozene erano sette: Piano della Reijna, Mascaira, Pian

Grimaudo, Roschatto, Lontararsi, Alpe dell’Armella, Alpe di Pian Rosso, cfr. B. PALMERO, Alpeggi monregalesi nelle relazioni territoriali di età moderna. Appunti di ricerca, in G. GALANTE GARRONE (a cura di), Le risorse culturali delle valli monregalesi e la loro storia, Vicoforte, 1999, pp. 31-58, in particolare p. 39.

236 ASGe, Archivio segreto, 355.

237 Le Ancise erano costituite da castagneti coltivati e terre incolte. Il bando campestre del 1629 lasciò ai Consoli di

Acquetico la facoltà di bandirle per il consueto periodo (con le relative pene per chi vi avesse portato degli animali) o di dar «libertà di pascere in detto territorio per beneficio universale impunemente», ASGe, Archivio segreto, 52 (RSL, n. 2).

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Cosio d’Arroscia i pascoli delle Alpi del Tanaro erano bandite a partire da maggio e protette da appositi guardiani. A Diano numerose bandite identificate con precisione accoglievano le greggi della comunità nei vari periodi dell’anno per il pascolo e la tosatura. I capitoli sull’erbatico di Ventimiglia (1303) disegnavano diversamente lo ius pascendi a seconda dell’animale coinvolto, assegnando a buoi e animali da macello bandite diverse da quelle delle capre ed escludendo dalla possibilità di acquistare l’erbatico gli uomini di molte comunità limitrofe. A Triora la bandita attribuiva il dominium herbae al titolare, il quale non poteva però impedire che fino a due buoi da lavoro vi pascolassero in ogni periodo dell’anno238.

Le bandite compaiono anche in altre regioni italiane o straniere (Provenza e Alpi marittime francesi)239. Le caratteristiche del territorio e i diversi modi di organizzazione dell’attività agro-

pastorale rendevano le bandite differenti da una località all’altra, ma è possibile rintracciare alcuni elementi comuni o, perlomeno, più ricorrenti. Anzitutto la bandita era un istituto di governo delle risorse collettive a disposizione delle comunità locali, che in alcune realtà si trovò a concorrere con il pascolo di Dogana regolato dallo Stato, come nel caso di Siena240. La bandita consisteva nella

concessione a titolo oneroso dello ius pascendi ad una platea di soggetti che non si identificava sempre e necessariamente con l’intera comunità, potendo anche essere composta da un ristretto numero di grandi allevatori. Le entrate così generate consentivano alla comunità di far fronte a determinate spese correnti o al pagamento delle imposte determinate dallo Stato. Il diritto di pascolo era quindi di natura obbligatoria e non reale, non trattandosi più di un uso civico, e i capitoli rurali potevano escludere o conservare l’esercizio di altri usi collettivi sui fondi banditi (semina, raccolta di legna, foglie etc.).

238 Per Ormea vedi G. BARELLI,E.DURANDO,E.GABOTTO, Statuti di Garessio, Ormea, Montiglio e Camino, Pinerolo, 1907,

pp. 172-199; Per Lingueglietta vedi gli statuti del 1434 di cui RSL, n. 585 editi da N. CALVINI, Il feudo di Lingueglietta e i suoi statuti comunali (1434), Imperia, 1986, pp. 152-153; per Cosio d’Arroscia i capitula sono editi da R. G. GASTALDI, Cosio in Valle Arroscia, cit., pp. 230-231 ma vedi RSL, nn. 329-331; per Diano RSL, n. 338, statuti editi da N. CALVINI, Statuti comunali di Diano (1363), Diano Marina, 1988, pp. 232-240; i capitoli dell’erbatico di Ventimiglia in RSL, n. 1168 sono editi da N. CALVINI, Gli statuti inediti dell’erbatico di Ventimiglia (1303), in Rivista ingauna e intemelia, VII, (1941), pp. 49-64; per Triora RSL, n. 1118, editi da F. FERRAIRONI, Statuti comunali di Triora del secolo XIV, riformati nel sec. XVI, Bordighera, 1956, I, pp. 74-75.

239 Ben note sono le bandite di pascolo della Maremma, per le quali vedi A. DANI, Usi civici, cit., pp. 228-242; ma vedi

anche per le Marche, S. CHIRICI, Proprietà terriera e allevamento nella Valle dell’Ussita nei secoli XIV-XVI, in Studi Maceratesi, XX (1987), pp. 165-198; per il nizzardo D. PERNEY, Une institution originale: les droits de bandite, Nice, 1978; M. ORTOLANI, Le droit de bandite dans le pays niçois - Etapes d'une réflexion, in Propriété individuelle et collective, cit., pp. 111-130.

240 Cfr. O. DELL’OMODARME, La transumanza in Toscana nei secoli XVII e XVIII, in Mélanges de l’Ecole française de Rome.

Moyen age, Temps modernes, 100 (1988), pp. 947-969; D. CRISTOFERI, I conflitti per il controllo delle risorse collettive in un’area di dogana (Toscana meridionale, XIV-XV secolo), in Quaderni storici, 155 (2017), pp. 317-347.

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Perney ha tentato una ricostruzione del diritto di bandita alla luce dei diritti reali così come disciplinati dal codice civile (usufrutto, servitù, superficie, uso), rilevando l’irriducibilità della bandita ad uno o all’altro istituto. Questo non sorprende se si considerano le sue radici medievali, aliene dalle astrazioni razionalistiche e pandettistiche dei secoli XVIII e XIX241. La bandita assume

invece una ben precisa fisionomia se la si inserisce nel contesto delle situazioni reali dell’età intermedia, ove la scomposizione dei diritti in relazione alle diverse utilità offerte dai fondi era la regola e la promiscuità dei godimenti in capo a diversi soggetti richiedeva strumenti giuridici altrettanto flessibili. È insomma dal punto di vista degli strumenti “pubblicistici”, di governo del territorio tramite la definizione dei diritti collettivi (riflettenti i rapporti socio-economici) che si possono inquadrare storicamente le bandite, senza snaturarne la realtà storica242.

Le bandite presenti sul territorio del capitanato di Pieve di Teco erano chiaramente volte a limitare il pascolo del bestiame in alcuni siti durante determinati mesi dell’anno. Titolare del potere di dichiarare bandito un fondo era la comunità, tramite i propri rettori, ma il contenuto del bando risulta variabile. Gli statuti di Vessalico ad esempio, nel prevedere le sanzioni per gli ufficiali

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