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5. Nomadi nell'immobilismo L'ipotesi di una persistenza nella marginalità e il ruolo chiave della scolariz-

6.2. Anche gli italiani erano così

E una mattina di febbraio, mentre la maestra si sforzava di farmi scrivere alla lavagna, mio padre, sorretto dalla convinzione morale di essere il mio proprietario, con lo sguardo terrificante di un falco affamato dalla strada fulminò la scuola […] “Sono venuto a riprendermi il ragazzo… E’ mio”

Gavino Ledda 335

Scrive Antonio Russo, responsabile dell’Area Immigrazione delle A.C.L.I.336 nell’introduzione all’importante ricerca del 2011 promossa dall’U.N.A.R.337: “per certi aspetti questo corposo lavoro di ricerca sollecita il ricordo di una ricerca sociale condotta anni or sono, che fu strumento di denuncia ma anche elemento di riflessione per la definizione di interventi efficaci. ‘Vite di Baraccati’, di Franco Ferrarotti, pubblicato nel 1974, diede un contributo importante alla realizzazione di azioni tese a migliorare le condizioni di vita dei baraccati. Anche noi speriamo di apportare un contributo altrettanto valido al miglioramento delle condizioni di vita dei rom in Italia” 338. Non è certamente ardito paragonare le condizioni di vita della classe contadina italiana del secondo dopoguerra con quelle condivise dai rom nel nostro Paese ancora oggi. Docenti, intellettuali, studiosi, in tanti hanno creduto che proprio l’istruzione obbligatoria fosse l’elemento chiave in grado di far uscire una larga fetta di popolazione dalla marginalità estrema in cui era relegata. Marginalità economica, sociale, politica, financo linguistica.

Altra interpretazione interessante, che non schiaccia le fasi della scolarizzazione dei rom solo su numeri e date, è quella di Stefania Pontrandolfo, la cui ricerca è stata più volte citata, che lega la storia dell’inserimento dei rom di Melfi a quella più generale del mutamento del sistema scolastico italiano, dimostrando di fatto come in alcuni casi le esperienze scolastiche dei rom e dei non rom siano andate di pari passo, mentre in altri no. Nel suo studio sui rom di Melfi Pontrandolfo339 analizza anche le fasi della scolarizzazione della popolazione italiana, ritenendo tale analisi utile alla comprensione dell’attuale situazione delle comunità rom di quella regione. Dall’unità

335 Cfr. Ledda G., Padre padrone, Il Maestrale, 2004. 336 Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani.

337 Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali. Per un approfondimento sul ruolo e sui

compiti dell’U.N.A.R. si veda la voce nella sezione Sitografia posta in allegato alla presente ricerca.

338Cfr. Catania D., Serini A. (a cura di), op. cit., p. 13.

agli anni Cinquanta del ventesimo secolo nel nostro Paese avvenne il lungo tragitto che portò la popolazione italiana dall’analfabetismo alla scolarizzazione di massa. I primi governi dell’unità d’Italia si sforzarono in ogni modo di promuovere una politica scolastica più aperta, a partire dalla legge Casati del 1859 che sancì la gratuità e l’obbligatorietà dell’istruzione primaria. Fu tuttavia solo durante il primo dopoguerra che il problema dell’analfabetismo si pose in tutta la sua drammaticità (è del 1921 la creazione dell’Opera contro l’Analfabetismo): il problema maggiore era quello di inseguire butteri, boscaioli, carbonai, pastori, la cui vita nomade impediva di frequentare a lungo la stessa scuola. Si escogitarono allora anche cattedre ambulanti e maestri itineranti. Un ruolo importante lo ebbe l’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia (A.N.I.M.I.), le cui denuncie e inchieste contribuirono anche alla cosiddetta Riforma Gentile, del 1923: l’obbligo scolastico veniva innalzato fino ai 14 anni. Nel secondo dopoguerra la lotta all’analfabetismo aumentò in modo considerevole: decisivi furono i 10.000 corsi di scuola popolare per il recupero degli analfabeti istituiti da parte del ministro dell’Istruzione Gonella nel 1947.

Nella pianificazione delle politiche di inserimento scolastico dei rom questo fermento e questi riferimenti storici sono mancati. Secondo Bruno Morelli, tante erano le affinità che intercorrevano tra il mondo contadino italiano del dopoguerra e i rom. Il mondo contadino ospitava meglio i rom proprio per un fattore di comunicazione: si condividevano gli sforzi, le tribolazioni, le ignoranze scolastiche. Scrive in proposito Morelli che “nella società di oggi, perdute le attività tradizionali, il rom, senza più un ruolo, ha perso un collegamento […]. Qui la scuola può fare molto se impostata correttamente. Essa infatti può assimilare oppure inserire. In ogni caso essa fornisce quegli strumenti che permettono di confrontarsi con questa società riallacciando il filo di comunicazione interrotto” 340.

La condizione di marginalità in cui vivono le popolazioni rom è stata ampliamente descritta e ben si compara, come affermato, a quella della classe contadina del dopoguerra. Eppure, tale condizione, non era diversa anche dalla “vita violenta” dei baraccati italiani nelle periferie degli anni Cinquanta e Sessanta, che abitavano i medesimi luoghi su cui ancora oggi sorgono i cosiddetti campi nomadi. Infatti, ogni bambino o bambina che non trova il suo posto a scuola, che rimane prigioniero nel sistema arcaico di doveri e valori che lo vuole fonte di sussistenza per la famiglia, moglie o madre precoce, o raccoglitore di reddito nelle strade della metropoli, è un bambino perso. E un pezzo di futuro perso per tutti noi. Questa è la vera conseguenza del fallimento della scolarizzazione dei rom. Scrive giustamente

Cefisi che però “allora non si usava ancora giustificare la miseria con ardite teorie delle differenze culturali e dell’impossibilità d’interazione tra di esse: nessuno sosteneva che chi vive nelle baracche preferisce non lavarsi e non si vuole integrare. Eravamo tutti più poveri, noi italiani, e sicuramente con più pudore” 341.

Secondo Giuseppe De Rita la scolarizzazione di massa in Italia ha mutato profondamente proprio quegli stili di vita che all’epoca si pensava immutabili: “la scuola pubblica ha rotto il diaframma delle disparità economiche […]. Poi è arrivata la spinta propulsiva della televisione che ha avvicinato i linguaggi in un paese d’idiomi – secondo la brillante definizione di Giovanni Spadolini – e ha accompagnato il cambiamento degli stili di vita a partire dai consumi di massa. [….] Nel 1904 Giustino Fortunato scriveva: c’è fra il Nord e il Sud della penisola una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nell’intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e quindi per gli intimi legami che corrono tra il benessere e l’anima di un popolo anche una profonda diversità tra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale“342.

341 Cfr. Cefisi L., op. cit., pp. 10-19.