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iudice, et vera aequitas in lege, secundum quam debet iudicari Quinto, fier

potest ut multorum conspiratione integrum monasterium accusetur et testibus convincatur de proditione reipublicae, de idololatria, de sodomia, et similibus gravissimis criminibus, et iudex certo sciat illorum innocentiam: quis non horreat dicere, illum tunc posse et teneri viros innocentissimos equis discerpere, vel flammis tradere, ob calumnias et minas perditorum? Sexto, fieri potest ut ipse iudex accusatorem et falsos testes apposuerit, et postea non possit illorum impetitionem impedire: poteritne etiam tunc illum condemnare? Septimo, si lex aliqua statueret, ut qui per calumniam oppressus est, condemnetur, etiamsi iudex sciat illum innocentem esse, talis lex esset iniqua, et aequas aures offenderet: ergo illud ipsum opere exequi est iniquum. Octavo, denique haec sententia probari potest ex illo Exodi 23 Insontem et iustum non occides, quia

aversor impium»: ivi, 307-8. L’espressione «aequas aures offendere» è un calco

della formula teologica pias aures offendere, ‘offendere le pie orecchie’, che denota una conclusione o una frase indiziata di eterodossia ma non espressa- mente eretica o sospetta di eresia.

129 «In causis civilibus et criminalibus minoribus, quando iudex certo scit

alteram partem falsis probationibus niti, tenetur quidem omni industria curare ut falsitas detegatur, vel ut processus impediatur; tamen si id non potest efficere, potest ex illis probationibus sententiam ferre»: ivi, 308.

scandalo. Per una questione di convenienza – per evitare l’accusa di una sentenza arbitraria perché basata sulla scienza privata –, non per una questione di diritto.

Nella giustizia alta, però, nelle cause penali maggiori, quel- le che comportano una pena corporale e rispecchiano lo ius

vitae ac necis che è tradizionale prerogativa del diritto del

principe, le condizioni cambiano. In questo caso la giustizia, principio direttivo che è superiore alle leggi, non può essere racchiusa nei confini delle leggi, ed esulandole – come nel caso limite dell’imputato innocente che risulta formalmente colpe- vole – le annulla. «Nessuna legge – lo abbiamo appena letto – deve essere osservata se dalla sua osservanza consegue un ri- sultato contrario all’intenzione e al fine della legge»; sottile inferenza logica che abroga in un solo colpo la certezza stessa del diritto: sentenza che racchiude il senso ultimo della casui- stica barocca. Lessius si muove su territori di confine.

Fine e intenzione della legge, dunque, non sono evidente- mente generati dalla legge stessa né dalla sua fonte positiva, ma da un principio sovraordinato che non attende di essere riconosciuto dalla persona publica del giudice perché parla direttamente alla sua persona privata, al suo foro interno, al soggetto – volutamente? – assente dall’argomentazione, la co- scienza. Coscienza e conoscenza, che Tommaso d’Aquino e il Caietano avevano unito nella stessa sorte di fronte alla legge, si separano di nuovo davanti al bivio della giustizia. E la prima, la coscienza, è l’unica ammessa a interpretarla.

L’equità non può essere violata da alcun pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, malgrado vesta la toga di uffi- ciale del principe. Solo la persona privata può giudicare la cau- sa: e, come sancito da secoli di diritto comune, dove vive la

persona privata non può vivere la persona publica, e viceversa.

In questa aporia insolubile, a fronte della cogenza della giusti- zia il giudice scompare: «Il giudice non può in alcun modo condannare a morte l’innocente, e piuttosto deve rimettere

l’ufficio, anche se questo non comporta alcun vantaggio per l’imputato». Siamo in una diramazione periferica – ma non per questo meno importante – del principio direttivo della teolo- gia politica della Controriforma, quello della potestas indirecta: la coscienza non può essere coartata dalle leggi positive perché dipende da un altro ordine di ragioni, quello che sottostà alle leggi divine e alla separazione incolmabile fra giusto e ingiusto, fra bene e male.130

24. Al capo diametralmente opposto della trattatistica sul giudice testimone troviamo Gregorio de Valencia. Potremmo definirlo un coerente interprete della tesi formalistica di Tommaso: ma il caso di Valencia è ulteriormente interessante, perché il suo parere in materia è, per quanto ne so, l’unico fra quelli dei commentatori moderni della Summa theologiae inte-

130 L’opinione di Lessius è seguita da Martin Becanus e Adam Tanner, come

chiosa alla quaestio 67 della II II. Per Becanus «Iudex non iudicat, ut persona privata, sed ut publica: ergo non debet sequi privatam, sed publicam scientiam. […] Verius tamen videtur iudicem nullo modo posse talem innocentem ad mortem condemnare, sed potius debere officium dimittere, etiamsi hoc modo nihil esset reo profuturus […] quia interficere innocentem est per se malum, ac proinde nullo modo licet»: Tractatus de iure et iustitia, in Opera

omnia, cit., I, 398-529, ad q. 67, 475 (orig. in Summa theologiae scholasticae,

1612). Tanner tratta della questione direttamente nel suo rapporto con i processi per maleficio nel suo celebre Tractatus theologicus de processu adversus

crimina excepta. «Generalis regula praescribitur omnibus magistratibus, ut

si quod crimen puniri et extirpari non possit, non solum absque certa pernicie, sed etiam morali periculo innocentum […] abstinendum potius sit ab eius criminis punitione, idque divinae vindictae in extremo iudicio relinquendum»:

Tractatus theologicus de processu adversus crimina excepta, ac speciatim adversus crimen veneficii. Sumptus ex commentario theologico R.P. Adami Tanneri ad 2.2 S. Thom. quaest. 67 a. 23, in Diversi tractatus de potestate ecclesiastica coercendi daemones circa energumenos et maleficiatos, de potentia ac viribus daemonum, de modo procedendi contra sagas et maleficos […] ex diversis iisque celeberrimis huius aevi scriptoribus, tum theologis, tum i[uris]c[onsul]tis desumpti, Coloniae Agrippinae, sumptibus Constantini

so a regolare direttamente la giurisprudenza nei casi di senten- ze dubbie con probabilità di condanna di innocenti.

La risoluzione della quaestio della scienza privata del giudi- ce da parte del gesuita spagnolo è infatti subordinata alla ne- cessità di stabilire un criterio che regoli nel concreto l’amministrazione della giustizia del principe nei processi per stregoneria. Quella di Valencia è una discussione dei medesimi principi fondamentali sui quali riflette Lessius, ma non è una discussione astratta, bensì dettata dalle urgenze della politica di repressione del maleficio che si dispiega in Baviera a partire dal 1589, dalle cause che occupano i tribunali e si decidono nelle camere di tortura. Anche Tanner e Spee, un trentennio più tardi, scriveranno i loro trattati contro la nozione di crimen

exceptum nella congiuntura storica di una nuova ondata di

piena dei processi per stregoneria: ma essi non sono diretta parte in causa (se non come confessori, a loro modo giudici terzi, ma non del corpo, bensì dell’anima degli imputati), men- tre Valencia lo è perché è a lui, come teologo di riferimento dell’università di Ingolstadt, che si rivolge il duca di Baviera per avere una norma quadro in materia.

Con questo ritorniamo al responso emesso dalle facoltà teologica e giuridica di Ingolstadt sull’estirpazione delle stre- ghe dell’aprile 1590. Come si ricorderà, il punto VI della rela- zione contempla le modalità di arresto, di detenzione e di condanna degli indiziati: «Come e quando queste persone debbano essere denunciate, arrestate e punite». Vi si dettano anche le linee generali di condotta del magistrato nella stesura del verdetto. È a questo proposito che l’antica antinomia giu- ridica fra allegata et probata e conscientia acquista una fisio- nomia nuova, ben più concreta e sinistra di quella che costitui- va l’oggetto delle precedenti esercitazioni dialettiche di scuola. «Occorre anche prestare attenzione al fatto che nel caso possa forse verificarsi che una persona sia trovata incolpevole e sia assolta dal giudice e sia dichiarata libera successivamente

[alla condanna], per cui come viene assolta e riconosciuta in- colpevole riceve di nuovo per questo la sua buona stima, come pure ciò che essa ha perduto con l’incarcerazione, e si stabili- sce che essa non ha ricevuto indietro [ciò che ha perduto], allo stesso modo vige il diritto dell’autorità, la quale antepone l’utile della comunità a un danno privato. Per cui da un tale

modus procedendi contro i sospettati di colpa ordinariamente

segue che non occorre ugualmente prestare attenzione al fatto che, in base a ciò che è denunciato e provato secundum allega-

ta e[t] probata, forse a suo tempo sia stato giudicato e condan-

nato chi in verità non era colpevole, poiché è più opportuno in ciò all’utile comune che la sentenza o il giudizio siano decisi secondo ciò che è denunciato e dimostrato, in quanto per la maggior parte è fondato sulla verità, secundum allegata et pro-

bata, quae ut plurimum veritate nitunt, del fatto che possa ac-

cadere o verificarsi che un incolpevole sia condannato, e que- sto è vero anche secondo la maggior parte dei teologi e degli esperti di diritto, che tengono e fanno attenzione a che il giu- dice debba condannare colui che secondo il processo giuridico è stato ritenuto colpevole, malgrado abbia la conoscenza priva- ta del fatto che costui è incolpevole e falsamente denuncia- to».131

131 «Wie und wann diese Personen sollen angegeben, gefangen und gesrafft

werden. [...] Es ist auch zu achten, wann es vielleicht sich begebe, dass ein Person hernach unschuldig erfunden und vom Richter absolviert und ledig gesprochen wird, dann so sie absolviert und unschuldig erkennt wird, so bekommt sie eben durch dies ihr guet lob wiederumben, so sie was durch die Fenknuss verloren hett, und gesetzt, dass si es nit gar bekäme, so hat doch das rechte der obrigkeit, dass sie den Nutz der gemein dem Privatschaden vorsetze, das dann ordinarie folgt aus einem solchen modo procedendi wider die verargwonten der laster, wie dann ebenfalls nit zu achten ist, dass nach für oder angezogenem und approbiertem secundum allegata e[t] probata vielleicht zu zeiten der verdammt oder verurteilt werde, der auch in der Wahrheit unschuldig ist, dann es ist dem gemeinen Nutz mehr daran gelegen, dass nach angezogen und bewehrten, so wie dess merer thaills mit der Wahrheit gegründt sein, Secundum allegata et probata, quae ut plurimum

Tradotto in formula più lineare: il giudice non si faccia ca- rico di eccessivi dubbi di coscienza sulla reale colpevolezza dell’imputato perché è nell’interesse dello Stato che si segua l’apparato probatorio e si emetta la sentenza unicamente in base a esso. La condanna a morte – al rogo, in casi limitati previo strangolamento – di un innocente è un possibile effetto collaterale dell’esecuzione del diritto che non deve inficiare il rispetto delle procedure. Ritradotto nello stile didattico delle scuole, come si rinviene nei Commentarii theologici di Valen- cia, nel capitolo De officio magistratus circa punienda maleficia: «Non occorre curarsi del fatto che possa eventualmente acca- dere che qualcuno [dopo la condanna] sia scoperto innocente e sia assolto dal giudice. Se infatti viene assolto riacquista subi- to la fama, se mai a causa dell’incarcerazione ne ha subito un danno; e se anche non la dovesse recuperare del tutto il magi- strato ha comunque il diritto di posporre il danno privato di qualcuno al bene comune dello Stato, come si segue ordina- riamente secondo un tale modo di procedere contro i sospetti di crimine. Per la medesima ragione non occorre curarsi del fatto che possa accadere che sia condannato in base a quanto è documentato e provato qualcuno che in realtà è innocente. È infatti di maggiore interesse per lo Stato che la sentenza sia emessa in base a quanto è documentato e provato, che poggia in massimo grado sulla verità, che evitare il caso della condan- na di un innocente. Il che è vero in quanto dimostrato dal fatto che la maggior parte dei teologi e dei giuristi ritiene corretta- mente che il giudice sia tenuto a condannare colui che è prova-

veritate nitunt, der sentenz oder Urteil gefällt werde, dann es sie nie beschehen

oder sich begebe, dass ein Unschuldiger gericht werde, und dies ist also wahr, dass auch des mehrern theils der Theologen und auch des Rechts erfahrene halten und achten, der Richter soll den Urteilen, der nach ordentlichen Gerichtsprocess schuldig erwiesen wird, ob wohl der Richter für sich selbst ein Privat wissen hat, dieser sei unschuldig und falschlich angeben»:

Responsum duarum Facultatum Theologiae et Iuridicae Academiae In- golstadiensis, cit., 106.

to colpevole secondo il processo giuridico ordinario, malgrado il giudice stesso, per la sua scienza privata, sappia che l’impu- tato sia innocente e falsamente accusato».132

La conclusione riguarda nello specifico le cause per malefi- cio; ma a tutti gli effetti è il portato immediato di un principio giuridico che Valencia ha già esposto in una quaestio prece- dente, De iustitia et iniustitia iudicis: «È necessario che il giu- dice emetta sempre la sentenza in base alle testimonianze e alle prove, anche se sa con certezza che la verità è contraria alla sentenza. Provo [la tesi]. Il giudice emette la sentenza in base all’autorità pubblica: e dunque deve emetterla sulla base della pubblica conoscenza, che di certo si ha comunemente attra- verso le leggi, e nello specifico o di fatto attraverso le testimo- nianze e altri legittimi strumenti pubblici». Il problema si pone dunque nel rapporto fra la coscienza del giudice e il rispetto delle procedure; tuttavia «il fondamento ultimo di questa con- clusione […] deve risiedere nel fatto che al giudice non è rico- nosciuta un’azione corretta nel proprio ufficio se la stessa co- munità non può riconoscere che egli lo possa fare, e approvar-

132 «Neque est curandum, si forte contingat, personam aliquam postmodum

innocentem inveniri, et a iudice absolvi. Nam si absolvetur, eo ipso recuperabit famam, si quam eius iacturam ex incarceratione fecerit: et dato, quod eam non omnino recuperet, tamen habet ius magistratus, ut postponat privatum damnum alicuius, bono communi reipublicae quod ordinarie sequitur ex tali modo procedendi contra suspectos criminum. Quemadmodum eadem ratione non est curandum, si forte contingat aliquando, ut secundum allegata et probata condemnetur is, qui etiam revera est innocens. Nam plus interest reipublicae ut secundum allegata et probata, quae ut plurimum veritate nituntur, feratur sententia, quam ut nunquam contingat condemnari aliquem innocentem. Quod adeo verum est, ut plerique theologi et iuristae sentiant, et recte, debere iudicem damnare eum, qui secundum ordinarium iuris processum probatur reus, quamvis ipse iudex privata sua scientia nosset, illum esse innocentem, et falso delatum»: Commentariorum theologicorum

tomi quatuor, cit., III, 1595, disp. VI, De religione, quae est virtus iustitiae annexa, et de vitiis ac superstitionibus ei contrariis, q. XIII, De superstitione vanarum observantiarum, punctum IV, De officio magistratus circa punienda maleficia, 2001-10, 2008-9.

lo. Ma se il giudice, guidato dalla propria personale conoscen- za, emette una sentenza che ignora la testificazione pubblica, allora la comunità non può ritenere che egli lo possa fare, e approvarlo. Dunque il giudice non emetterà correttamente tale sentenza».133

Una figura, due persone

25. La trama concettuale entro la quale Valencia dispone i suoi argomenti discende in linea diretta da quella disegnata da Tommaso e affinata dalla lettura che ne aveva fatto il Caietano. Da Tommaso è recepita l’omogeneità fra coscienza e cono- scenza nella persona publica del magistrato e la conseguente partizione tra due forme di coscienza, quella pubblica e quella privata, competenti per due ambiti diversi e irriducibili dell’agire. Dal Caietano la successiva identificazione di una verità pubblica, una “verità di legge” fondata su una cono- scenza relativa ma dotata di vigore assoluto nel dominio della vita collettiva – «quanto è documentato e provato, che poggia in massimo grado sulla verità».

La aequitas, punto di fuga dell’interpretazione di Lessius,

133 «Necesse est semper ferre sententiam secundum allegata et probata,

etiamsi iudex evidenter sciat contrarium esse verum. Probatur. Nam iudex potestate publica fert sententiam: ergo etiam debet illam ferre secundum scientiam publicam, quae quidem habetur in communi per leges, in particulari aut facto per testes et alia legitima publica instrumenta». «Potissimum fundamentum huius sententiae […] debet esse, quod iudex non potest censeri recte facere aliquid ex suo officio, nisi id ipsa etiam communitas censeri possit facere et approbare. Sed si iudex privata sua scientia ductus, postposita testificatione publica ferat aliquam sententiam, non potest tunc censeri communitas id facere aut approbare. Ergo non recte feret iudex talem sententiam»: Disp. V, De iustitia, et eius speciebus, q. XI, De iustitia

et iniustitia iudicis, Punctum II, An iudex debeat semper ferre sententiam secundum allegata et probata, 1378-82, 1378-79.

non compare nemmeno nella discussione: Valencia non con- templa evenienze di giustizia o ingiustizia, ma solo di diver- genza tra le conclusioni desunte dalla procedura e quelle con- seguite per altra via, per la scienza privata del giudice. Le con- dizioni cogenti sono di altra natura, e non pertengono al mon- do della giustizia ma a quello della legge, e dell’ordinamento politico, e sono il bene dello Stato, l’autorità pubblica, la pub- blica conoscenza. Il magistrato che si affida alla scienza priva- ta, che giudica in quanto persona privata, emette scorrettamen- te la sentenza, vale a dire infrange il diritto. È questa infrazio- ne del diritto a tenere quel ruolo di interdizione suprema che in Lessius è tenuto dall’infrazione della giustizia.

Non c’è dubbio che dietro l’intransigenza di questa lettura del luogo comune degli allegata et probata si profili la volontà di dettare una norma giurisprudenziale che possa essere acqui- sita senza sfumature dal diritto penale bavarese sui crimini eccezionali. Il fine è quello di legare il giudice, di stringerlo alla sua identità pubblica di «bocca della legge».

Abbiamo visto come alle lezioni di commento alla Summa tenute da Valencia a Ingolstadt – che nella versione a stampa costituiscono i Commentarii theologici – si formi una parte cospicua del ceto giuridico e politico della Germania cattolica; e come la consonanza tra quelle lezioni e il rescritto del 1590 sia completa. La legislazione contro il maleficio, si è detto, è laboratorio di sperimentazione del potere declinato negli arti- coli del diritto criminale. Ma, in quanto opera ingegnata in condizioni sperimentali, essa soffre di uno statuto precario. Deve dare ordine a consuetudini processuali antichissime, scartare residui ordalici come la prova dell’acqua, decifrare pratiche e invocazioni rituali secondo il lessico rigoroso delle prove giudiziarie, vincere le opposizioni delle magistrature consuetudinarie e dei detentori di prerogative giurisdizionali che si vedono minacciati dal dispiegamento di poteri repressivi illimitati consentito dalla clausola del crimen exceptum.

Le dinamiche variano, come descrive un’amplissima sto- riografia, e spesso si muovono in direzioni opposte. In Francia e negli Stati territoriali tedeschi (con la parziale eccezione del ducato di Baviera), lo si è detto, il centro svolge una funzione di freno e di moderazione dei processi, soprattutto nel pieno Seicento, a fronte dello zelo inquisitorio delle magistrature inferiori. Ma altrove, e soprattutto in una congiuntura tempo- rale precedente, nell’ultimo quarto del secolo XVI, non è scontato che le stesse magistrature inferiori – formatesi verso la metà del secolo, quando la demonologia non conta ancora sull’autorevole biblioteca tardocinquecentesca dei Bodin, dei Binsfeld, dei Delrío, dei De Lancre – siano concordi nell’istitu- zione e nella prosecuzione delle inchieste.

Non a caso da quel tornante storico, e per alcuni decenni, predicatori e giuristi come Pierre de Lancre, Jeremias Drexel e Jean Boucher si appellano ripetutamente ai principi per de- nunciare la negligenza dei magistrati nei casi di maleficio. L’ordinanza sul maleficio emanata dal governatore Pietro Er- nesto di Mansfeld per i Paesi Bassi spagnoli nel 1592 e il suc- cessivo rescritto degli archiduchi Alberto e Isabella minaccia- no di sanzioni i magistrati che mostrano negligenza nelle inda- gini.134 De Lancre, nel suo celebre Tableau de l’inconstance des

mauvais anges et demons (1613) sostiene che i giudici siano

tenuti in coscienza a credere nella stregoneria, dal momento che, nota Stuart Clark, «essi erano veicoli della giustizia regia, e i re erano ‘persone sacre’».135

E non a caso Delrío, nella sezione giuridica delle sue Di-

squisitiones magicae (I ed. 1599-1600) accusa ripetutamente la

freddezza dei tanti anonimi magistrati superiori e inferiori che,