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J’ai pas sommeil (1993): il corpo transgender, il farsi e il “disfarsi” del genere.

Parte Seconda

6.2 J’ai pas sommeil (1993): il corpo transgender, il farsi e il “disfarsi” del genere.

<<L’erotismo dei corpi nei film di Claire Denis non è una questione di pelle nuda mostrata (…). E’ l’erotismo del non conosciuto, della possessione e al contempo della libertà dell’io più incognito. >>

(P.M. Bocchi e L. Malavasi, Claire Denis)

La figura del transgender e la performance drag

In linea con le teorie di una tra le studiose e filosofe femministe più importanti della contemporaneità come Judith Butler, il genere rappresenterebbe una direttrice del sapere, un criterio per la distinzione, l’ordinamento, l’assoggettamento dei corpi e, quindi, un’istanza disciplinante e normalizzatrice. In quanto tale, esso produrrebbe le norme attraverso cui il corpo arriva a guadagnare una vera e propria esistenza sociale ed entra a far parte della categoria stessa dell’”umano” e del “reale”, intese a loro volta, evidentemente, come questioni strettamente connesse con il potere.

La complessa questione del genere rappresenta il nodo politico e disciplinare più importante del pensiero di Butler, e costituisce l’ambito di azione in cui è anche possibile contestare la fissità, la normalità e la permanenza delle categorie di maschile e femminile. Nel contestare tali categorie e cornici di intelligibilità, infatti, la filosofa afferma anche l’importanza della loro funzione riconoscitiva, senza la quale non potrebbe esserci alcun processo di decostruzione, trasgressione e continua formazione della soggettività.228 Contemporaneamente, tuttavia, è importante secondo la Butler, che il gender come strumento di gerarchizzazione sociale e di controllo subisca appunto una decostruzione, finalizzata in primis a mettere in crisi l’idea del rigido binarismo maschile/femminile.

228

Secondo Judith Butler non si può affrontare la questione dell’assoggettamento del corpo e della soggettività senza ricorrere a una prospettiva che riesca a rendere conto anche, in parte, degli effetti “generativi” delle restrizioni, senza le quali non potrebbe esserci la capacità di eccedere le stesse e trasgredirle. E’ proprio nella ri-formazione continua dell’identità, infatti, che esiste la possibilità di una risignificazione e di una sovversione.

Se il genere rappresenta << il sistema attraverso cui hanno luogo la produzione e la normalizzazione del maschile e del femminile >>229 e il meccanismo con cui vengono

naturalizzati, esso può anche diventare lo strumento con cui de-naturalizzare i termini; il gender, infatti, come ha sottolineato anche Teresa De Lauretis230, è per molti aspetti sia una

rappresentazione che un costrutto socioculturale e un apparato semiotico (piuttosto, quindi, un sistema di rappresentazioni) che conferiscono significato agli individui all’interno di una data società. Se da un lato, quindi, il gender è costruito da e nella società, dall’altro può diventare il centro di meccanismi di resistenza e di auto rappresentazione diversi da quelli dominanti; esistono sempre, infatti, per Butler come per De Lauretis, i termini per una diversa costruzione del gender, soprattutto ai margini dei discorsi egemonici, all’interno di pratiche micro politiche di resistenza. Secondo la studiosa italiana, in particolare, i termini per una diversa costruzione del gender possono trovarsi nell’“altrove” inteso come spazio ai margini e negli interstizi degli apparati di potere-sapere, uno spazio spesso non rappresentato ma implicito, non visibile ma deducibile. Esso è situato a metà, tra la rappresentazione del genere nel quadro di riferimento eterosessuale e androcentrico, e ciò che la rappresentazione esclude, o semplicemente rende irrappresentabile; lo spazio della resistenza può quindi essere concepito come un movimento flessibile tra lo spazio discorsivo egemonico e il fuoricampo che esiste nei suoi interstizi, e non al di fuori di esso. Se in alcune narrazioni (e produzioni culturali) questi due spazi sono spesso riconciliati, in altre sono invece separati, o comunque problematizzati e aperti a un certo tipo di interrogazione e di approfondimento che non danno per scontati l’armonia e l’unione tra le diverse realtà.

Il film di Claire Denis già analizzato, J’ai pas sommeil, rientra piuttosto nel secondo tipo di narrazioni, in quanto ogni elemento che lo costruisce e ne fa parte, dai personaggi allo stile della messa in scena, alle scelte scenografiche fino al plot in sé, è caratterizzato da un’ambiguità volutamente ricercata, da un senso di frammentazione e sospensione del giudizio che non lasciano spazio a facili risposte o teorizzazioni.

Anche se si tratta, come si è visto, di un film prevalentemente corale, ambientato nel quartiere popolare e métissé del XVIII arrondissment di Parigi, vi è un personaggio che acquista particolare rilievo rispetto agli altri, ed è il travestito Camille, il cui ruolo assume molteplici e diversi significati, soprattutto alla luce delle considerazioni della Butler.

229

J. Butler, La disfatta del genere, Roma, Meltemi, 2006, p. 69. (ed. or. Undoing gender, New York-London, Routledge, 2004).

230

Camille incarna nel film la complessa figura del transgender, l’“Altro” per eccellenza, colui che sfugge alle categorizzazioni binarie di maschile e femminile e che gioca con i ruoli sociali e di genere, cambiando continuamente identità e restando in questo modo impenetrabile sia dallo spettatore che dalla macchina da presa. Camille si esprime soprattutto attraverso la performance drag, uno spettacolo di travestitismo che rivela i meccanismi di costruzione sociale del genere, e che rappresenta un modo per riflettere non solo sulla performatività di questo, ma anche sulla sua risignificazione collettiva.

La figura del transgender, infatti, induce secondo la Butler a interrogarsi su ciò che è reale e su ciò che “deve” esserlo, mostrando << come possono essere messe in discussione le norme che governano le nozioni correnti di realtà e come sia possibile creare nuovi modi in cui la realtà può darsi >>231; la creazione di nuove modalità con cui il genere può manifestarsi si attua attraverso la rappresentazione della corporeità, laddove il corpo sia inteso come un processo che eccede la norma e la riformula di continuo. Il corpo travestito di Camille si mostra non come una spazialità data e definita, ma piuttosto come una realtà attiva e in divenire, limitata e attraversata dalla norma-genere ma anche resistente ad essa. Judith Butler analizza i meccanismi e la struttura imitativa su cui si regge la performance drag, osservando come essa giochi sulla << distinzione tra l’anatomia di chi esegue la performance e il genere che è l’oggetto della performance >>232, mettendo lo spettatore di fronte a tre dimensioni contingenti della corporeità significante: il sesso anatomico, l’identità di genere e la performance di genere.

Il travestitismo durante la performance drag dà un nuovo significato al concetto stesso di “gender” e ne rivela implicitamente la contingenza; lo spettacolo drag, infatti, non si limita a mettere in scena una performance piacevole e per alcuni aspetti sovversiva ma, pur facendo comunque parte secondo la Butler della cultura egemonica, ha il merito di denaturare e mobilitare i significati di gender attraverso una loro ricontestualizzazione parodica. La ripetizione parodica di un presunto genere “originale” rivela che esso è a sua volta solo una parodia dell’idea stessa del naturale e dell’originale: è la nozione di originale, quindi, a essere parodiata. J.Butler, più precisamente, scrive: << la parodia di genere rivela che l’identità originaria in base alla quale il genere modella se stesso è un’imitazione senza origine >>233. La parodia, quindi, priva la cultura egemonica della pretesa che le identità di genere siano “naturali” o essenzialiste, e implica, al contrario, la

231

J. Butler, Op. cit., p. 55.

232

Ivi, p. 192.

233

perdita di senso del “normale”, soprattutto quando << il “normale”234 si rivela essere una copia, un ideale che nessuno sa incarnare. >>235

Il drag, in ultima analisi, dimostra che il genere è un atto che richiede ogni volta una performance ripetuta, la quale è a sua volta una nuova messa in scena e una nuova contestualizzazione di significati già stabiliti e legittimati socialmente; in quanto tale, perciò, il genere si mostra come << un’identità fragilmente costituita nel tempo, istituita in uno spazio esteriore mediante una ripetizione stilizzata di atti >>. 236

Il personaggio di Camille e le strategie del “passing”

Il gender, così definito, fa emergere l’importanza cruciale della << disidentificazione dalle norme canoniche e dominanti dell’identità >>237 e appare quindi come uno strumento che consente una << messa a fuoco delle interconnessioni tra il sé e l’altro, la cultura e la società, il sociale e il simbolico o la dimensione della rappresentazione >>238. La teoria del gender abbracciata da studiose come Judith Butler, infatti, evidenzia l’importanza di una politica della vita quotidiana, e resta fedele alla nozione per cui il personale è sempre anche politico; non è un caso che la ricerca di genere si intersechi spesso anche con questioni di multiculturalismo e di scenari postcoloniali, a dimostrazione dell’interconnessione esistente anche tra gender e appartenenza etnica, soprattutto in molti degli odierni contesti di alcune società occidentali.

In J’ai pas sommeil la regista Claire Denis usa la macchina da presa esattamente per esplorare le possibilità e i limiti di un’ermeneutica interculturale, e cerca di osservare e approfondire la distanza che ci separa dall’“altro”; quest’ultimo può essere affascinante o spaventoso, ma in quanto “altro” non appare mai così com’è, ma sempre in vesti e ruoli diversi e spesso contraddittori, che ne mistificano l’identità presunta vera o reale.

Camille incarna nel film questa alterità sconosciuta e ambigua, e adotta delle complesse strategie di passing e di mistificazione per sfuggire a ogni tentativo esterno di categorizzazione. La figura del “passer”, sebbene incentrata sulla declinazione razziale e

234

J. Butler cita a questo punto F. Jameson (Postmodernism and consumer society) per spiegare meglio il meccanismo parodico del travestimento. Secondo lo studioso l’imitazione che si fa beffe della nozione di originale è più

caratteristica, in realtà, del pastiche che della parodia: il primo è anch’esso una pratica imitativa, ma senza l’impulso satirico che contraddistingue invece la parodia. Nel pastiche, infatti, non si ha più la sensazione ancora latente che esista qualcosa di normale rispetto a cui ciò che viene imitato risulta piuttosto comico.

235

J. Butler, Op. cit., p. 194.

236

Ivi, p. 196.

237

R. Braidotti, Nuovi soggetti nomadi, Roma, Luca Sossella, 2002, p. 175.

238

sullo specifico contesto storico e sociale in cui si è formata239, intende interrogare la questione dell’identità come costruzione, scrittura, processo, mettendo in evidenza l’ambiguità strutturale di un Io definito dalla confusione, dalla indicibilità, dalla sovrapposizione di superficie e profondità, di apparenza e verità, di visibilità e invisibilità, di leggibilità e illeggibilità. Il corpo passer di Camille è ibrido, caratterizzato da una dualità costitutiva che fa vacillare il confine illusorio tra verità ed errore, tra percezione e conoscenza, tra realtà e rappresentazione; egli si serve del travestimento, della dissimulazione e della finzione diventando impenetrabile, impossibile da decifrare tanto nel suo aspetto quanto nella sua condotta privata.

Le caratteristiche principali del passer si addicono quindi perfettamente al ruolo e al comportamento di Camille, nonostante le sue pratiche per essere accettato non riguardino il colore della pelle ma piuttosto il genere: il suo trasformarsi ogni sera in una femme fatale, infatti, permette al personaggio di ricoprire un ruolo sociale diverso da quello normalmente occupato. Ciò che egli cerca non è tanto l’invisibilità, che lo caratterizza soprattutto di giorno, quanto una visibilità nuova, che lo faccia essere protagonista di uno spettacolo cangiante e multiforme, in cui possa rimanere insieme oggetto e protagonista dello sguardo degli altri. Anche nella sua vita al di fuori degli spettacoli, Camille ricopre ogni volta un ruolo diverso e mutevole a seconda del contesto: con sua madre è un figlio attento e premuroso, con suo fratello si mostra invece schivo e ostile, con il suo amante è passionale, mentre per gli altri, per il mondo esterno, indossa la maschera dell’eterosessualità e della “normalità”.

Il suo comportamento è, in questo senso, attraversato dalle logiche del passing, che rendono plausibile ogni interpretazione e mettono in crisi le concezioni statiche e fisse dell’identità, spingendo a chiedersi cosa siano l’essenza e l’apparenza, nel momento in cui si può sembrare perfettamente ciò che non si è. Come ha osservato Anna Camaiti Hostert, non a caso, << passing è una risposta alla teoria dell’identità nella società postmoderna, una politica del posizionamento che infrange la solidità della collocazione del soggetto.

239

Il termine “passing” è stato attribuito storicamente alla capacità di essere accettato come membro di un gruppo etnico differente, di un genere differente, di una sessualità o di una classe differenti, spesso allo scopo di sfuggire alla discriminazione, alla subordinazione e all’oppressione. Esso indica, più precisamente, il passaggio dal colore nero della pelle al bianco, allo scopo di rendere il proprio corpo anonimo e resistente all’identificazione.

Si tratta, infatti, più specificamente, di una pratica usata ai primi del 1900 nata per non sottostare alla discriminazione razziale.

Anche di quello in crisi. L’elemento “transizionale” diviene pertanto essenziale in quanto non è un mezzo per un fine diverso, ma un fine esso stesso. >>240

Il passing, nel caso di Camille, ha a che vedere sia con lo sconfinamento da un’identità all’altra e da un genere all’altro, sia con il misconoscimento, con il tradimento e con l’ambiguità dei ruoli oltre che della superficie stessa del visibile: nel film, come si è potuto analizzare, nulla è come appare, e la visione è un atto che inganna e rivela una profondità costruita, fabbricata, prodotta artificialmente e perciò illusoria.

Nella sequenza che chiude il film quest’ultimo aspetto è rappresentato dalla regista in maniera efficace, in linea con lo stile freddo e distaccato adottato sin dall’inizio: nel finale la polizia risale a Camille come responsabile degli omicidi commessi nei mesi precedenti, e fa irruzione a casa sua prelevandolo e portandolo al commissariato. Durante l’interrogatorio, il protagonista conferma senza alcuna esitazione di essere colpevole. Sua madre, distrutta e scioccata dalla notizia, lo sta aspettando fuori con l’altro figlio e con un’amica di famiglia. La donna stenta a credere che suo figlio possa essere il responsabile di quegli omicidi, e quando lo vede uscire ammanettato e scortato da due poliziotti, si dirige verso di lui e lo guarda con incredulità e disperazione, avendolo amato, da piccolo, come un bambino gentile e affettuoso. Ora invece, guardandolo negli occhi, gli urla che non avrebbe mai dovuto metterlo al mondo.

La macchina da presa riprende Camille di spalle, con i due poliziotti ai suoi lati, mentre resta indifferente a ciò che la madre, ripresa frontalmente, gli sta dicendo; l’unica cosa che il ragazzo chiede alla madre è di prendergli le sue cose e portargliele. Lungo il corridoio del commissariato Camille incrocia anche lo sguardo duro e inflessibile del fratello Théo, al quale rivolge solo un sorriso sarcastico e quasi di sfida.

Fino all’ultimo, quindi, l’ambiguità e la profondità di Camille non vengono mai svelate o spiegate interamente, ma restano oscure e indecifrabili, poiché proiettano davanti a loro l’immagine esteriore del personaggio che sono chiamate ad interpretare, e si confondono con esso. Le motivazioni profonde alla base delle azioni di Camille non vengono rivelate né spiegate, poiché sfuggono alla piena comprensione; in questo senso, non c’è giudizio morale sul personaggio né mai una spiegazione esaustiva del suo agire, in quanto è difficile giudicare qualcuno il cui comportamento non permette una comprensione totale.

Claire Denis congeda lo spettatore con le stesse domande e sensazioni di disorientamento, estraneità e ambiguità che hanno caratterizzato il film dall’inizio, e lo fa mettendo in scena dei personaggi e dei corpi ripresi nei loro momenti sospesi di indifferenziazione, come ha

240

saputo ben descrivere Martine Beugnet, quando ha affermato che nei film di Denis una figura è sempre più della semplice somma delle sue parti, e un corpo è sempre più che una cosa sola: è ciò che incorpora e ingloba in sé il principio stesso di indeterminazione. 241

241

M. Beugnet, Cinema and Sensation. French Film and the Art of Transgression, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2007, pp. 96-97.

Considerazioni conclusive:

quale politica delle immagini, quale rappresentazione della diversità?

<<Rendre le réel problématique, c’est à dire en exposer les points critiques, les failles, les apories, les désordres. >>

(G. Didi-Huberman, Quand les images prennent position)

Si è potuto fin qui mostrare come, nell’analisi critica del cinema di un paese o di una determinata area geografica, relativa a un definito periodo storico, siano soprattutto le rappresentazioni della marginalità a diventare indicatori fondamentali del modo in cui l’identità nazionale si definisce; nello stesso tempo, parallelamente, i risultati di tale analisi possono ben risultare rivelatori delle tensioni, delle incertezze e delle angosce che abitano una società e una cultura in un dato momento storico.

Analizzare, in particolare, le modalità con cui il cinema affronta e rappresenta la questione della diversità culturale, assume pertanto una certa rilevanza soprattutto se si tiene conto del fatto che le immagini filmiche, in modo spesso più dirompente rispetto ad altre immagini, possono essere in grado di << far apparire come “naturali” disuguaglianze che sono invece politicamente e culturalmente determinate >>242, e avere quindi una ricaduta diretta sul sociale. E’ perciò attraverso l’analisi delle rappresentazioni della differenza (riconducibile a chiunque sia posto al di fuori delle strutture e della cultura egemoniche), che si può iniziare a riscoprire la funzione politica delle immagini e a rimettere in discussione il suo significato, soprattutto in relazione all’attività critica dello spettatore e alla sua fruizione del medium cinematografico.

Nel suo recente lavoro dal titolo Le Spectateur emancipé Jacques Rancière arriva a teorizzare che l’emancipazione dello spettatore (cinematografico e non) inizia quando si rimette in questione l’opposizione tra guardare, agire e conoscere, e quando si comprende che le evidenze che strutturano i rapporti del dire, del vedere e del fare appartengono esse stesse, almeno parzialmente, a una struttura della dominazione. Guardare, quindi, è un’azione che può confermare o trasformare la distribuzione di quei rapporti, in quanto lo

spettatore agisce sempre anch’esso, osservando, selezionando, paragonando e interpretando le immagini che ha davanti a sé.

Lo studioso francese critica le posizioni di chi pensa che la moltiplicazione e l’eccesso di immagini, oggi, provochino necessariamente una banalizzazione della realtà rappresentata, con una conseguente perdita di sensibilità e criticità da parte di chi le guarda, e cerca di interrogarsi sulla possibilità di una funzione realmente politica delle immagini.

Seguendo degli esempi teorici e cinematografici importanti, come quelli lasciati da cineasti quali J.L.Godard (il quale ha sempre insistito sull’urgenza di fare dei film politici a partire dalla forma), Rancière sostiene che un’immagine è politica non per il fatto o la capacità di mostrare una data realtà particolarmente scioccante o attuale, ma quando riesce ad avere una funzione da lui definita “metonimica”: la metonimia, mostrando l’effetto per la causa o la parte per il tutto, riesce secondo Rancière, a ridistribuire i rapporti tra l’individuale e il collettivo. La metafora, invece, va nella direzione opposta, e rappresenta per il filosofo il contrario del fare politica attraverso le immagini, in quanto collega in maniera diretta un’immagine a un’idea.

Il lavoro di una fiction politica, allora, consisterebbe non nel raccontare o mostrare delle storie più o meno convincenti, ma nello stabilire delle relazioni nuove tra la parola e le forme visibili; in particolare, la funzione politica è data, per Rancière, da una “resistenza del visibile”, ovvero da una resistenza all’anticipazione, e dall’indicibilità dell’effetto finale: le immagini, in altri termini, possono cambiare il modo di guardare dello spettatore solo se non sono anticipate dal loro senso. Per fare politica attraverso l’arte e il cinema, in particolare, bisognerebbe << séparer les mots et les images >>243, interrompere lo

scorrimento delle immagini e trasformare il continuum dell’immagine-senso in una serie di frammenti.

In Malaise dans l’esthétique l’autore aveva già trattato tali questioni, approfondendo il legame tra la funzione politica e i modi di rappresentazione artistici, ed evidenziando il fatto che l’arte non è politica per i messaggi che riesce a trasmettere, né per il modo in cui configura le strutture della società, i conflitti o le identità dei gruppi sociali, ma lo è per lo scarto che assume in rapporto a tali funzioni. Focalizzandosi sul modo in cui le pratiche dell’arte intervengono nella condivisione del sensibile e nella sua riconfigurazione, la