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Parte Prima.

1.2 Mondializzazione e differenza.

In entrambi i casi, come ha giustamente osservato un importante studioso della contemporaneità come Slavoj Žižek32, essi verrebbero svuotati del loro profondo significato e della loro universalità; è invece necessario mettere in luce la loro complessità, attraverso la consapevolezza che essi hanno sì un valore universale, ma che non sono mai neutri o “pre-politici”, in quanto definiscono continuamente lo spazio della politicizzazione.

Se si affronta la questione dei diritti umani, come suggerisce Žižek, attraverso un approccio non superficiale o unilaterale ma che sia profondamente critico, risulterà più facile riconoscerne anche gli abusi, che avvengono nel momento in cui, sempre più spesso, ci si serve dei diritti per un gioco di negoziazione di interessi particolari, o come baluardo per nascondere nuove e inquietanti politiche di imperialismo.

1.2 Mondializzazione e differenza.

<< L’uomo si ricostruisce una patria sotto qualsiasi lembo di cielo. >>

(Johann Gottlieb Fichte)

Nella prima parte di Modernity at large, lo studioso A.Appadurai riprende le riflessioni fatte, già nel 1987, da G. Deleuze e F. Guattari, e si serve delle loro intuizioni per descrivere alcune delle caratteristiche più evidenti del mondo attuale, definito << rizomatico e persino schizofrenico>>33, in quanto diviso tra fenomeni di sradicamento, alienazione, solipsismo da un lato, e vicinanza elettronica, virtuale, dall’altro. Ciò a cui ci troviamo oggi di fronte è, sotto alcuni punti di vista, una condizione paradossale: un’ambivalenza sempre più forte tra una dimensione locale e una planetaria dell’esistenza; una tensione crescente tra una spinta verso l’omologazione e una resistenza ad essa. Vi è quindi una struttura ambivalente, che vede la compresenza di due aspetti: l’uniformazione

32

S.Žižek, Against Human Rights, New Left Review, 2005.

33

A.Appadurai, Modernità in polvere, Roma, Meltemi, 2001, p.47. (Ed. or. Modernity at Large: Cultural Dimensions

prevalentemente economica e tecnologica, e di pari passo una differenziazione etico- culturale, che si traduce spesso, come si avrà modo di vedere, in un processo di “localizzazione delle identità e dei valori di appartenenza”.34

Queste due tendenze parallele, antitetiche e convergenti al tempo stesso, rappresentano, al di là di facili generalizzazioni, un fenomeno complesso dal quale nessuna riflessione sulla contemporaneità, sia essa prettamente filosofica, storica, estetica o politica, possa ormai prescindere.

G. Marramao, all’interno di uno studio più ampio dedicato precisamente al rapporto tra filosofia e globalizzazione, riflette a lungo su questa duplice tendenza e si sofferma sul concetto fin troppo banalizzato di mondializzazione, tipica soprattutto del mondo di oggi, proponendone una lettura che ne fa un fenomeno di natura specificamente culturale e non solo principalmente economico.

Il filosofo prende in prestito il termine glocal, (coniato da R. Robertson, nel 1992) per tentare di analizzare le dinamiche principali della mondializzazione: esso, infatti, ha il pregio di sottolineare l’asincronia tra i termini “globale” e “locale” e la complessità della loro interrelazione, oltre che il loro aspetto apparentemente contraddittorio.

La dimensione globale, mondiale, e quella locale, secondo Marramao, non vanno considerate in banale opposizione l’una all’altra, ma al contrario sono interdipendenti, interagiscono reciprocamente e si presuppongono a vicenda. Il fenomeno della globalizzazione, infatti, unisce e comprime dei mondi-vita diversi e distanti tra loro, tenta di omologarli e, così facendo, crea i presupposti stessi per una maggiore produzione di “località”, per una spinta verso una maggiore differenziazione culturale.

L’aspetto più paradossale del fenomeno della “glocalizzazione” consiste proprio in questo, ovvero nel fatto che ogni esperienza del globale, qualunque essa sia, include sempre al suo interno quella che J. Derrida ha definito efficacemente << l’esperienza dello scarto >>35. In altre parole, la percezione di un’omogeneità e di un’unità mondiale, data soprattutto dal collegamento immediato a livello tecnologico e di comunicazione e dall’azzeramento delle distanze, cela in sé un importante rovescio della medaglia, dato dalla consapevolezza che mai come oggi la popolazione mondiale è stata ed è, in realtà, meno compatta e omogenea, soprattutto a livello di coesione sociale e culturale.

34

G. Marramao, Passaggio a Occidente, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 235.

35

La differenza culturale

Il tema della differenza, a questo punto, emerge in tutta la sua importanza: esso viene spesso legato al concetto di cultura, quasi si trattasse di un binomio già implicito e dato per scontato. Effettivamente, come ha osservato Appadurai, ogni volta che parliamo di cultura, o meglio di una pratica, di un’ideologia o di un oggetto dotato di una dimensione culturale, stiamo sempre evidenziando l’idea di una differenza situata, in relazione << a qualcosa di locale, di incarnato e di importante >>36. Risulta quindi difficile slegare i due concetti e non rendere conto delle loro implicazioni reciproche, anche se lo studioso propone di sostituire, in relazione al concetto di differenza, il sostantivo cultura con l’aggettivo

culturale.

Il termine culturale, secondo Appadurai, evita di far pensare e di concepire la cultura come qualcosa di statico, di immanente, come una proprietà fissa e già data, ovvero come una realtà sostanziale e immodificabile; al contrario, esso rimanda a una dimensione

contestuale della cultura, concepita appunto come differenza, o come << strumento

euristico >> 37 utile, piuttosto che come una proprietà immutabile degli individui o di gruppi di individui.

La prospettiva di Appadurai rientra nella cornice più ampia degli studi post-coloniali, che suggeriscono un approccio che sia sempre critico rispetto alla questione della cultura e delle identità culturali, e che non prescinda mai dal contesto storico-politico e sociale delle società contemporanee soprattutto, evidentemente, nei paesi delle ex-colonie. Uno degli obiettivi della critica postcoloniale è, non a caso, quello di de-naturalizzare ogni forma di identità culturale, di allontanarla da una concezione stanziale e di associarla piuttosto all’idea di un processo in atto, mai definitivamente concluso.

Quando si ha a che fare con la questione dell’identità culturale bisognerebbe sempre tenere presente quello che il sociologo Denys Cuche ha definito “contesto relazionale”: essa, in altri termini, andrebbe considerata come una costruzione sociale, un qualcosa che è inizialmente acquisito, ma che si costruisce e ricostruisce costantemente attraverso gli scambi sociali e che, in quanto tale, << avviene all’interno delle cornici sociali che determinano la posizione degli agenti, e proprio per questo orientano le loro rappresentazioni e le loro scelte >>. 38

36

A. Appadurai, Op. cit., p. 28.

37

Ivi, p. 29.

38

L’identificazione ad una cultura da parte di un attore sociale è, come ha messo in evidenza anche Jean-François Bayart 39, sempre contestuale, multipla e relativa, legata ad un preciso momento storico e a circostanze altrettanto specifiche: la cultura, quindi, non esiste che nella relazione, nel confronto o nel conflitto con l’altro. Secondo Bayart persino l’immaginazione, in quanto pratica sociale, gioca oggi un ruolo fondamentale all’interno della formazione dell’identità culturale, soprattutto nel momento della “scelta” dell’identificazione a una data cultura.

Bayart si scaglia sia contro la pretesa dell’universalismo culturale, che si manifesta attraverso la tendenza a uniformare le diverse culture in nome della neutralità e della laicità dello Stato, sia contro il pensiero che reclama il “culturalismo” (ovvero la tendenza verso un relativismo culturale); entrambe le posizioni, secondo lo studioso, considerano implicitamente le identità culturali come delle sostanze o delle categorie atemporali, e ne occultano i processi di formazione, storicamente dati, che ne sono alla base.

Anche Ian Chambers, che non a caso parte da un’ottica postcoloniale di analisi, ha messo in luce l’importanza dell’immaginazione nei complessi procedimenti di costruzione del sé, affermando che << come per narrare una nazione è necessario costruire una “comunità immaginaria”, un senso di appartenenza sostenuto in parti uguali da fantasia e immaginazione e da realtà fisica e geografica, così anche il nostro senso del sé è frutto di un lavoro di immaginazione, è una finzione, una storia particolare che fabbrica senso. >> E’ proprio questa finzione, di cui si dovrebbe tuttavia essere sempre consapevoli, che secondo Chambers ci permette di agire, che fa immaginare di << essere l’autore, piuttosto che l’oggetto, della narrazione che costituisce la nostra vita. >>40

Il punto di vista di Chambers è del resto condiviso dalla maggior parte degli studiosi che hanno abbracciato la prospettiva postcoloniale, tra cui spicca Homi K. Bhabha41, i quali hanno << applicato il concetto performativo all’analisi dell’ideologia della nazione >>, considerandola << né una cosa, né una collocazione geografica, ma l’effetto di precise ripetizioni narrative >>, ovvero una realtà estremamente simbolica che << è messa in atto e acquista un’esistenza attraverso il potere performativo di concetti come “casa”, patriottismo, governo e territorio. >>42

Un altro importante studioso della contemporaneità come Zygmunt Bauman ha riassunto bene queste posizioni osservando che ogni volta che si parla di identità, e in particolare di

39

J. F. Bayart, L’illusion identitaire, Paris, Fayard, 1996.

40

I. Chambers, Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca postcoloniale, Roma, Meltemi, 2003, pp. 38-39.

41

H.K. Bhabha, Nation and narration, London, Routledge, 1990.

42

J. Blocker, “Dov’è Ana Mendieta?”, in F. Timeto (a cura di), Culture della differenza. Femminismo, visualità e studi

identità culturale, si ha a che fare con << qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto, (…) il traguardo di uno sforzo, un “obiettivo”, qualcosa che è ancora necessario costruire da zero, (…) qualcosa per cui è necessario lottare >> 43 e che quindi rappresenta un continuo work in progress che, in quanto tale, non è mai totalmente esaurito.

Del resto, vi è un’intera e feconda linea di studi, in primis quella del border crossing44 e degli studi di frontiera, che parte da un’idea di soggettività intesa prima di tutto come liminalità e ibridità, come dimensione in cui si scontrano componenti storiche e culturali diverse, e che rifiuta esplicitamente la nozione di identità culturale tradizionalmente intesa, la quale sembra non tenere conto dei nuovi e attuali scenari geopolitici mondiali.

La cultura, in linea con questi approcci, va considerata, soprattutto oggi in tempi di de- territorializzazione e ri-locazione di gruppi di individui e di intere popolazioni, come un fenomeno in continuo movimento, come il risultato di una serie di fusioni e di incontri, ma anche di resistenze e di conflitti, in molti casi tra ciò che è locale e ciò che è esterno, tra ciò che è “dentro” e ciò che proviene da “fuori”.

Stuart Hall, uno dei principali animatori degli Studi Culturali e Postcoloniali, ha proposto di sostituire il termine “identità culturale” con quello di posizionamento, che secondo lui ha il pregio di porre l’attenzione proprio sulla questione della mobilità delle popolazioni nel corso della storia (anche quella più recente e attuale), e sui cambiamenti politico-sociali che ne derivano. Il termine posizionamento ha il vantaggio, secondo Hall, da un lato di ribaltare l’idea per la quale l’identità culturale è intesa come un’essenza e non come un processo in fieri, dall’altro di rimandare direttamente ad un soggetto, la cui dimensione non deve mai essere totalmente dimenticata o passare in secondo piano. Se è vero, in altri termini, che l’identità culturale debba sì essere pensata in termini storici, relazionali e dialogici (e non essenzialisti), è anche importante, tuttavia, non concepire i soggetti portatori di tali identità come meramente sradicati o semplicemente evanescenti.

Le identità culturali, quindi, usate da Hall emblematicamente al plurale, sono << i punti instabili di identificazione o sutura, costruiti all’interno dei discorsi della storia e della cultura (…) >>45, attraversati inevitabilmente dal potere e percorsi dall’esperienza della “differenza”.

43

Z. Bauman, Intervista sull’identità, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 13.

44

Per una definizione generale degli Studi di frontiera: P. Zaccaria, Border crossing, in: Cultural Studies.it, Dizionario di Studi Culturali.

45

S. Hall, Il soggetto e la differenza. Per un’archeologia degli studi culturali e postcoloniali, Roma, Meltemi, 2006, p. 27.

Tornando proprio al nodo cruciale della “differenza culturale” da cui si è partiti, è ancora lo studioso indiano Bhabha46 a evidenziare un’efficace distinzione tra diversità e differenza culturale, secondo cui la prima è soprattutto un oggetto epistemologico mentre l’altra, la

differenza culturale, è il processo stesso di enunciazione della cultura come tale e come

conoscibile; in altri termini Bhabha oppone i discorsi sulla cultura a quelli della cultura, insistendo quindi sul carattere performativo e non essenzialista né stereotipato della differenza culturale.

Anche il sociologo francese Michel Wieviorka, che si è a lungo occupato della questione in linea con uno studio analitico sul razzismo e sulla sua evoluzione nelle odierne società occidentali, si è soffermato a lungo sul concetto di differenza culturale, osservandone e analizzandone le componenti essenziali, complesse e molteplici. Gli aspetti principali della

differenza, che ne costituiscono i vertici e gli assi portanti, sono, secondo Wieviorka, tre: la

prima componente è l’identità collettiva, la seconda è quella formata dall’individuo moderno, e la terza è quella relativa al soggetto. Questi vertici del “triangolo” della differenza non sono slegati uno dall’altro, ma anzi si influenzano reciprocamente e vanno quindi concepiti all’interno di una logica di inter-dipendenza.

Ciò che Wieviorka chiama “identità collettiva” è l’insieme dei riferimenti culturali sui quali si fonda il sentimento di appartenenza ad una comunità o ad un gruppo, che sia esso reale o “immaginato” 47; essa disegna un sistema di valori che definisce l’unità del gruppo e che permette in molti casi di mobilizzare gli attori sociali che ne fanno parte e di farli esprimere attraverso una resistenza rispetto ai valori dominanti in una data società.

Come evidenzia il sociologo francese, le identità di gruppo non sono, di per sé, né chiuse né aperte, né votate alla rottura dei codici e dei valori dominanti né alla partecipazione democratica, e la loro evoluzione dipende da fattori spesso esterni ad esse.

La seconda componente che contribuisce alla costruzione della differenza è quella dell’individuo, che si definisce in virtù della sua partecipazione politica e sociale alla vita della propria città e del luogo in cui vive; egli può essere più o meno integrato socialmente, più o meno attivo da un punto di vista della partecipazione politica e la sua condizione cambia notevolmente in base alla propria situazione e al proprio background personale. Un individuo che ha la cittadinanza del proprio paese o di quello in cui si trova partecipa alla vita politica in modo evidentemente diverso da chi, per esempio, è straniero o immigrato ed è privo di determinati diritti.

46

H.K. Bhabha, The location of culture, London, Routledge, 1994.

47

Infine, come terza essenziale componente della differenza, vi è il soggetto. La soggettività ricopre secondo Wieviorka un ruolo fondamentale, in quanto, oggi, il riferimento ad un’identità precisa appare sempre meno nell’ordine dell’iscrizione o della semplice riproduzione e sempre più, invece, nell’ordine della scelta48 : si nasce in una data comunità e in un certo contesto sociale e culturale, ma si decide, successivamente, se continuare a farvi parte o no, se rompere con esso o se restare al suo interno.

Il rapporto tra la soggettività e l’identità collettiva risulta particolarmente complesso, in quanto in molti casi il riferimento e l’attaccamento di un individuo ad un’identità collettiva (e al sistema di valori che ne fa parte) si rivela fondamentale nella formazione e nella maturazione della soggettività.

Qui la questione si apre ad una serie di interrogativi, di cui Wieviorka evidenzia il peso e l’importanza, relativi alla possibilità, da parte di un soggetto che appartiene ad una cultura “minoritaria” rispetto a quella dominante, di avere maggiori o minori chance di costruzione e affermazione del sé attraverso l’integrazione o, al contrario, attraverso una resistenza alla cultura della maggioranza.

La definizione di glocal, da cui si è partiti, risulta a questo punto particolarmente efficace e appropriata, in quanto spinge ad una lettura né semplice né lineare del fenomeno della globalizzazione. Questa, infatti, non risulta guidata solo ed esclusivamente da dinamiche di tipo economico, ma fa emergere in modo evidente un fattore particolarmente problematico, che è proprio il fattore cultura.

La “compressione spazio-temporale”, infatti, vista come une delle conseguenze della comunicazione globale, ha contribuito a muovere, nelle popolazioni, una serie di domande relative innanzi tutto alla propria identità culturale; la domanda collettiva fondamentale è diventata, come ha osservato Marramao, << Chi sono io? >> 49, un quesito posto spesso al plurale, da parte di diverse comunità come di interi popoli.

La realtà odierna del glocal, quindi, appare particolarmente sfaccettata e complessa, e si caratterizza per la compresenza (non sempre necessariamente conflittuale) sia del << trend sinergico del globale >> che della dimensione locale, caratterizzata da una forte << turbolenza delle differenti culture >>50.

48

M. Wieviorka, La Différence, Paris, Balland, 2001.

49

G. Marramao, Op. cit., p. 37.

50

Globalizzazione e nuove gerarchie della mobilità

Zygmunt Bauman51, che ha dedicato numerosi scritti allo studio del fenomeno della globalizzazione, ha insistito proprio sul secondo aspetto del fenomeno del glocal, osservando come la tendenza all’abbattimento degli ostacoli alla libera circolazione dell’informazione, del denaro e delle merci, sia tuttavia inseparabile dalla pressione che si esercita, parallelamente, in maniera più o meno invisibile, per costruire nuovi “muri” tra le popolazioni e tra le culture.

Lo studioso, che ha dedicato un’opera specifica all’analisi delle conseguenze sociali e culturali della globalizzazione e al suo impatto sulla vita quotidiana dell’uomo contemporaneo, ha messo in luce i tratti più ambigui e paradossali delle odierne società occidentali, e ha parlato della nascita di una “nuova gerarchia della mobilità”.

Di fronte all’unificazione dei mercati e alla velocizzazione delle coordinate dello spazio e del tempo, la mobilità delle popolazioni, il loro spostamento da una parte all’altra del mondo risulta formato, oggi, secondo Bauman, da due lati: uno superiore e uno inferiore. Questi due lati, due veri e propri mondi, hanno sempre maggiore difficoltà ad entrare in comunicazione e, anzi, sembrano andare in direzioni diametralmente opposte: il primo è il mondo della mobilità mondiale, per il quale lo spazio può essere attraversato con facilità, sia nella sua forma reale che virtuale. Il secondo è un mondo diverso, che ha difficoltà ad attraversare lo spazio, ed è popolato da persone che sono spesso confinate ai margini delle città e dei luoghi in cui si trovano a vivere.

Si tratta, evidentemente, di due diverse categorie di popolazioni, di cui solo la prima riesce, secondo Bauman, a vivere “nel tempo”, mentre la seconda deve fare i conti prevalentemente con lo spazio, uno spazio che oppone resistenza, che crea problemi. La seconda è una categoria sempre più numerosa, che non viaggia per piacere o per desiderio ma soprattutto per necessità, e che si scontra quotidianamente contro i nuovi “muri” di cui parla Bauman, a volte facilmente identificabili, altre volte più complessi da individuare. I muri a cui si riferisce lo studioso contengono molteplici facce: essi sono legati prevalentemente a dinamiche politiche ed economiche, e hanno a che vedere soprattutto con il fenomeno sempre più urgente dell’immigrazione. Di conseguenza, essi riguardano problematiche legate, per esempio, ai diritti di soggiorno (concessi o negati), ai diritti legati

51

Tra le altre: Z. Bauman, Globalization. The human consequences, London, Polity Press and Blackwell, 1998; e La

alla nazionalità e, in generale, alle politiche più o meno forti di repressione e di controllo delle popolazioni.

Anche Saskia Sassen52 ha parlato di una nuova gerarchia della mobilità, e l’ha applicata in particolare al contesto urbano attuale delle cosiddette world cities, le grandi metropoli postmoderne in cui si concentrano ed emergono le maggiori contraddizioni economiche e sociali dei paesi occidentali. Secondo la studiosa ciò che accomuna queste metropoli è la forte dimensione conflittuale, data dalla formazione di vere e proprie linee di frontiera interne, che vedono schierate da una parte le nuove élites che detengono l’informazione e quindi il potere, e dall’altra i protagonisti del lavoro precario o della disoccupazione, che vivono un tipo di mobilità che si esprime prevalentemente nei flussi e nei percorsi migratori. La grande città, quindi, concentra sia i settori di punta del capitale globale sia