di Arthur C. Danto *
Detesto quando mi accorgo che qualcosa mi piace, quando sono capace di fare qualcosa, e così lo rifaccio, e potrebbe diventare un’abitudine.
Allora smetto subito. Anche se minaccia di diventare bello.
Dieter Roth 1
La kallifobia di Dieter Roth – per richiamare con un indispensabile termine clinico ciò che è stato una vera e propria epidemia nei circoli delle avanguardie dai primi anni Venti – utilizza l’idioma della minaccia per qualcosa che in qualsiasi contesto, tranne in quello dell’arte, sareb-be un motivo di gioia. Chi direbsareb-be che “minaccia” di essere una sareb-bella giornata – a parte un venditore di ombrelli – o che la figlia di qualcuno “minaccia” di diventare una bella ragazza – se non per paura della gelosia degli déi? Nella maggior parte dei contesti della vita umana, noi parleremmo piuttosto della promessa e non della minaccia della bellezza: quindi la kallifobia richiama la diagnosi, mentre la kallifilia – per usare il suo antonimo – è ciò a cui si potrebbe pensare come a una condizione estetica deficitaria per gli umani, connessa con fortuna e felicità, con la vita al suo meglio, e con un mondo in cui vale la pena di vivere. Ma come è possibile che la bellezza, considerata dai tempi del Rinascimento come il punto di partenza e l’obiettivo delle arti visive, nella nostra era sia diventata artisticamente controindicata al punto da assomigliare a una fobia?
La kallifobia appartiene alla sindrome esemplificata da ciò che nel mio libro L’abuso della bellezza 2 ho chiamato “L’intrattabile Avanguar-dia”. Si trattava innanzitutto dei membri del movimento Dada di Zurigo ai tempi della Prima Guerra Mondiale, che decisero di sopprimere la bellezza come gesto di disprezzo nei confronti di una società respon-sabile di una guerra in cui milioni di giovani uomini si massacravano a vicenda. Era una specie di sciopero in cui gli artisti, anziché creare la bellezza, si impegnavano in varie forme buffonesche di cabaret. La
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bellezza veniva politicizzata attraverso una flagrante banalizzazione. Non era di per sé una questione banale che la bellezza dovesse diventare la vittima sacrificale in una guerra simbolica contro la guerra: infatti solo in un ambiente in cui l’arte e la bellezza avevano una importanza che oggi difficilmente riusciremmo a comprendere, l’anti-esteticismo del Dada poteva essere ritenuto un provvedimento efficace dagli artisti che deci-sero di farlo proprio. Lo spettacolo di artisti che si comportavano come buffoni – come facevano i Dadaisti al caffé Voltaire di Zurigo – poteva essere interpretato come un gesto importante di critica solo se l’artista, l’Artista, era visto innanzitutto come un esaltato. Solo se la bellezza veniva considerata un elemento di venerazione il suo rifiuto poteva essere visto come una privazione significativa. Per il titolo del mio libro ho preso spunto da un verso di un poema che Arthur Rimabud ha scritto nel 1873, Une saison en enfer. Rimbaud scrive: «Una sera, ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia, e l’ho trovata amara, e l’ho insultata». Mi è sembrato che questo esprimesse alla perfezione l’atteggiamento dei tardi artisti Dada, secondo i quali la bellezza era amara perché loro stessi erano amareggiati da una società che venerava la bellezza. Men-tre si scatenava una terribile guerra, veniva insultata la giustizia. Come punizione simbolica, gli artisti insultarono la bellezza.
Ecco un passo non insolito di un’opera pubblicata per la prima volta nel 1836, intitolato Du vrai, du beau et du bien, del filosofo fran-cese Victor Cousin:
L’artista è innanzitutto un artista, ciò che lo anima è il sentimento del bello e vorrebbe trasmettere all’anima dello spettatore quel medesimo sentimento che riempie la sua. Egli si è aperto alla virtù della bellezza e la fortifica con tutto il potere e tutta la grazia dell’ideale; poi deve lasciare che la bellezza faccia il suo dovere, mentre l’artista ha fatto il suo se è stato capace di procurare il raffinato sentimento della bellezza ad alcune nobili anime. Questo sentimento puro e disinteressato è un prezioso alleato dei sentimenti morali e religiosi, poiché li risveglia, li preserva e li sviluppa. Tuttavia l’arte – che è fondata su questo sen-timento, è ispirata da esso e lo espande – è a sua volta un potere indipendente: pur essendo naturalmente associata a tutto ciò che nobilita lo spirito insieme alla morale e alla religione, l’arte non sorge che da se medesima 3.
Max Ernst aveva prestato servizio nell’artiglieria e aveva raggiunto i Dadaisti dopo la guerra:
Per noi il movimento Dada era innanzitutto una reazione morale. La nostra rabbia puntava a una totale sovversione. Una guerra orribile e inutile ci aveva rubato cinque anni della nostra esistenza. Abbiamo fatto esperienza del ridicolo e abbiamo provato vergogna per tutto ciò che era presentato come giusto, vero e buono. I miei lavori di quel periodo non volevano essere attraenti, volevano fare urlare le persone 4.
Il movimento Dada ha dato agli artisti tedeschi – che sapevano per esperienza personale che cos’era davvero la guerra – una missione mol-to diversa da quella che i filosofi, nello spirimol-to dell’idealismo, avevano
descritto. Anziché essere una visione nobilitante, l’arte era diventata un mezzo per mostrare le bassezze morali della società che li aveva gettati in un simile inferno. Il Dadaista George Grosz, che tentò il suicidio pur di non ritornare al fronte, disse, secondo quanto riporta la Grove Encyclopaedia of Art, «Ho disegnato e dipinto lo spirito di contraddizione, cercando con i miei lavori di convincere il mondo che era qualcosa di brutto, malato e bugiardo». Non c’è niente di bello nei dipinti di Grosz di quei tempi, né in quelli di Otto Dix, che era stato un mitragliere, o in quelli di Max Beckmann che aveva avuto un crollo nervoso nelle Fiandre dove prestava servizio come medico attendente.
Era l’arte, considerata quasi il simbolo della bellezza, a essere dichia-rata morta dal Movimento Dada di Berlino nel 1922. Da questo punto di vista è difficile non vedere la famosa impresa di Adolf Hitler nel 1937 di mostrare l’arte d’avanguardia come degenerata semplicemente come uno sforzo per riportare l’arte allo stato precedente. Fu proprio perché si voleva conferire bellezza alle classi lavoratrici nei dipinti del realismo socialista che, in Unione Sovietica, l’arte delle avanguardie fu crimina-lizzata; così come fu nello spirito dell’americanismo patriottico che i regionalisti [Regionalists] hanno rappresentato l’America come bella e l’arte d’avanguardia come sovversiva ed estranea. La storia dell’arte nel xx secolo è stata di gran lunga più convulsa di quanto lo sia stato il realizzarsi lineare di movimenti che, uno dopo l’altro, hanno portato nell’arte analisi di tipo storico, come il Modernismo 101. In seguito a queste agitazioni la bellezza fu politicizzata in modi che filosofi come Cousin avrebbero difficilmente potuto immaginare, e le avanguardie si sono assunte tanto seriamente quel ruolo di critica sociale cominciato dal Dada da ritenere sufficiente, per considerare commerciale un’opera, che questa fosse vagamente bella. «Le avventure dell’estetica» ha scritto Hal Foster nella prefazione al suo libro Anti-Estetica uscito nel 1983, «fanno parte di una delle maggiori narrazioni della modernità» 5.
Foster vuole che il suo titolo «metta in evidenza che la stessa nozione di estetica, la sua rete di idee, sia messa in discussione», e sebbene pochi dei saggi che egli raccoglie sotto questo titolo parlino direttamente del tema dell’estetica, egli ha voluto intendere il libro come se domandasse, penso retoricamente, «le categorie dell’estetica sono ancora valide?». Per come la vedo io, Foster voleva esplicitare una opposizione tra Moderni-smo e Post-ModerniModerni-smo, da lui cautamente identificata come anti-este-tica, ecco perché lo considero uno che ha preso nei confronti dei valori estetici la posizione che l’Intrattabile Avanguardia ha preso nei confronti della storia dell’arte moderna: ha interpretato il Post-Modernismo come una critica politica della società borghese nella forma di una critica di quei valori estetici con i quali la società borghese era associata da coloro che avevano elaborato quella critica. L’Anti-estetica apparteneva a quel medesimo complesso di idee sulla Morte della Pittura o sulla Morte del Museo. Come il movimento Dada sei decadi prima, l’Anti-estetica
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(si legga: il Post-Modernismo) era alimentata da una fede commovente nel potere dell’arte per porre in atto trasformazioni politiche tramite la modulazione estetica.
Quale che fosse la rivoluzione nella quale Foster e i suoi pari cre-devano, non si realizzò. La pittura non morì e il museo non passò a miglior vita. Invece successe quello che ho chiamato «La fine dell’ar-te» 6. Nelle due decadi successive alla pubblicazione di Anti-estetica è diventato sempre più evidente che la nostra è un’era di radicale aper-tura in cui ogni cosa è possibile come arte. Quello che forse è meno evidente è che questo pluralismo si estende anche all’estetica: se ogni cosa è possibile come arte, allora è anche possibile che ogni cosa abbia una dimensione estetica. Ritengo che questa sia in larga parte l’eredità dell’Intrattabile Avanguardia che si è aperta a forme di arte che sareb-bero state inimmaginabili quando il perseguimento della bellezza era visto come un obiettivo fondamentale dell’arte.
Nei primi tempi del Modernismo, per ragioni che rimangono an-cora storicamente poco chiare, i paradigmi accademici dell’esattezza mimetica cessarono di essere vincolanti per i pittori e per i loro più informati spettatori. Forse gli artisti stessi non sapevano come dovesse-ro essere interpretate le lodovesse-ro opere. Etichette come “fauve” o “cubista” non chiarivano quale fosse la spiegazione da dare per le radicali devia-zioni tanto rispetto alla conformità mimetica quanto a quella estetica. Di solito la spiegazione che si dava era che gli artisti erano matti, che stavano scherzando e che non sapevano come dipingere. In effetti, che cosa faceva Matisse in Nu Bleu o ne La Femme au chapeau? E perché lui e tanti altri abbandonarono i risultati pittorici considerati la gloria della civiltà occidentale e la prova della sua superiorità?
Sono rimasto particolarmente colpito da una osservazione fatta da Roger Fry in risposta alla sfilza di attacchi ricevuti per le mostre che ha organizzato nel 1910 e poi nel 1912, e che avevano come tema la pittura Post-Impressionista. «Molto è stato detto di questi artisti che cercano ciò che è brutto anziché consolarci con la bellezza» ha scritto Fry «ma si dimentica che ogni nuova opera di disegno creativo è brut-ta fino a che non è bella» 7. Fry dava per scontato, mi sembra, che se i dipinti sono artisticamente eccellenti, allora essi devono essere belli, a patto che abbiamo imparato a guardarli come dovrebbero essere guar-dati. In L’abuso della bellezza sostengo una posizione diametralmente opposta, cioè che i dipinti contestati di Matisse mostrino precisamente come sia possibile per i dipinti essere artisticamente eccellenti e, al tempo stesso, brutti, e per quanto io ammiri Fry per le cose eccitanti che ha fatto e per la sua preveggenza critica, ritengo che il suo obiet-tivo sarebbe dovuto essere quello di mostrare questo punto, vale a dire che non è necessario che l’arte sia bella perché sia buona. Ma a cominciare da Platone, l’identità di bontà e bellezza è stata considerata uno dei grandi apriori metafisici del pensiero occidentale.
Vale la pena di sottolineare nell’argomento di Fry l’aggiunta sponta-nea di bellezza e consolazione, dato che getta una certa luce sul rifiuto Dada della bellezza: perché dovrebbero consolare quelli che fanno la guerra? È anche più importante comunque riconoscere che se Fry avesse ragione, il progetto Dada sarebbe compromesso fin dall’inizio, perché non sarebbe possibile fare un’arte che sia in qualche modo buona senza farla al tempo stesso bella. L’immenso contributo del Dada alla filosofia dell’arte è stato quello di creare uno scarto concettuale tra l’arte e la bellezza, scarto in cui confluiscono altre qualità estetiche – anche la bruttezza – che fanno sì che per gli artisti della guerra tedesca sia pos-sibile mostrare gli orrori della guerra e usare l’arte come specchio mo-rale. Kant ha osservato che non c’è niente – con eccezione del disgusto (Ekel) – di così brutto che non possa essere rappresentato come bello, e la guerra è uno dei suoi esempi 8. Ma perché gli artisti dovrebbero abbellire le cose? Perché non dovrebbero mostrare ciò che è brutto come brutto? E quale utilità avrebbe una operazione del genere se alla fine l’arte fosse vista come bella?
La bellezza è sempre facile da vedere, non richiede allenamento per essere percepita più di quanto ne richieda la percezione del rosso e del verde. I filosofi sono stati disinvolti nel respingere quei giudizi che con-siderano bello qualcosa come meramente soggettivi e slegati dalla realtà. I positivisti logici in via del tutto generica sottoscrivevano una teoria emotivista [emotivist theory] del significato che comprendeva anche i termini estetici e quelli morali e che spiegava come tali termini fossero privi di un significato descrittivo e avessero l’unica funzione di espri-mere sentimenti di piacere. Per loro dire che qualcosa è bello quindi sarebbe un po’ come fischiare in segno di approvazione in presenza di qualcosa. Questo approccio non cattura l’effetto di consolazione del quale i critici di Fry lamentavano la mancanza nelle sue mostre. «Ora molte enunciazioni linguistiche sono analoghe al riso» ha scritto il fi-losofo positivista Rudolf Carnap nel suo Filosofia e sintassi logica del 1935, «nel fatto di avere soltanto una funzione espressiva e non una funzione rappresentativa. Sono esempi di ciò grida come “Oh, Oh”, o, ad un livello più alto le composizioni liriche» 9. Parole come “giusto” e “buono”, “brutto” e “cattivo” non hanno un riferimento oggettivo.
Dieter Roth tuttavia sapeva perfettamente che cosa voleva fare nella sua arte e, sulla base delle caratteristiche principali delle sue opere, è difficile credere che sia potuto accadere così spesso che la presenza invadente della bellezza lo abbia costretto a fermarsi. Si consideri il suo Tibidabo del 1978, che consiste di 24 ore ininterrotte dell’abbaiare di un cane. Mi è capitato di ascoltarlo al MACBA di Barcellona, in una galleria che presentava le sue opere, e la mia opinione è che la nostra risposta all’opera sia esattamente uguale a quella che daremmo nella vita reale a un abbaiare ininterrotto: dà sui nervi, dà fastidio. Quello che invece pensiamo non sia possibile è che qualcuno dica: ho
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imparato a trovare la bellezza nell’abbaiare costante dei cani. Proprio per questa ragione non posso immaginare che Roth si sia fermato per-ché di fatto egli trovava bello l’abbaiare; siamo tutti simili quando si tratta dell’abbaiare dei cani, e Roth non può essere stato tanto diverso da tutti noi. L’argomento è semplice: nel momento stesso in cui egli lo avesse trovato bello, dati i suoi principi, sarebbe stato obbligato a smettere di farlo. E questo vale in generale per tutte le opere che Roth ha realizzato, con le quali ha dimostrato di considerare belle le stesse cose che chiunque altro considera belle, però senza volere che queste facciano parte della sua arte.
Roth era un membro del movimento Fluxus, che a volte si definiva anche Neo-Dada. Un importante obiettivo del manifesto del Fluxus era quello di «superare lo scarto tra arte e vita». Roth ha preso questo imperativo più seriamente di chiunque altro mettendo letteralmente la sua vita nell’arte, che infatti consiste di cose che facevano parte della sua vita quotidiana: sostanze prese dal Lebenswelt – che non avevano mai avuto un posto nella storia dell’arte come il cioccolato, il formaggio o gli escrementi – diventano materiali artistici. Queste sostanze non subiscono alcuna trasformazione quando diventano arte: esse conservano, nella loro nuova veste di oggetti artistici, esattamente le stesse qualità estetiche che hanno nella vita. La mostra che ho visto delle opere di Roth a Barcello-na si chiamava The Skin of the World [La pelle del mondo] e includeva delle diapositive di tutte le case a Reykjavik, in Islanda, in cui l’artista aveva vissuto – 36 000 diapositive stipate in 400 giostre rotanti. Non ci troviamo di fronte a un tentativo di abbellimento di ciò che è mostrato: le case di Reykjavik sono proprio così. Roth ha tolto il pavimento dalla sua postazione di lavoro e l’ha trasformata in una installazione. La sua opera incorpora l’estetica della vita di tutti i giorni in quanto vissuta, non bella, non brutta, ma semplicemente così com’è. Kant aveva uno schema tripartito: il bello, il brutto e l’ordinario. L’ordinario è ciò che Duchamp aveva in mente quando parlava di “anestetico”. Non abbiamo uno specifico vocabolario estetico per la maggior parte delle opere di Roth, ma questo non significa che non siano estetiche. Il vocabolario degli adolescenti americani ci ha offerto il termine “grunge”. Grunge veniva usato perlopiù in stile Dada, per creare uno scarto tra quelli che lo usavano e le figure dell’autorità – i genitori, gli insegnanti, tutto il mondo degli adulti. Grunge si avvicina all’estetica di Dieter Roth.
In Una giustificazione per le scuse – l’articolo in cui il filosofo di Oxford J. L. Austin articola il suo programma relativo a ciò che egli considera la “ricerca sul campo” in filosofia del linguaggio – si legge: «Quanto sarebbe auspicabile che un lavoro sul campo di questo genere fosse intrapreso presto anche, per esempio, in estetica: se solo potessi-mo dimenticare per un potessi-momento il bello e scendere invece al delicato e al malinconico»10. Nel mettere tra parentesi il bello sostituendolo con il delicato [dainty] e il malinconico [dumpy], Austin stava
chiara-mente cercando di mettere fuori gioco la Bellezza, insieme al Vero e al Buono, il triumvirato classico dei valori fondamentali. In quell’epoca della filosofia analitica si usava rifuggire l’edificazione e usare gli esempi meno edificanti che si riuscivano a trovare. Quando Austin discusse per esempio l’akrasia, ovvero “la debolezza della volontà” – un’idea impor-tante in psicologia morale, molto discussa dagli antichi – portò come esempio – anziché quello euripideo nella tragedia di Medea, ovvero l’uccisione degli amati figli – la richiesta di un pezzo extra di dessert, in un contesto nel quale sappiamo che è disponibile solo un pezzo per ospite, e che è sbagliato avanzare una simile richiesta. Al tempo stesso, proprio mettendo tra parentesi il bello e sostituendolo con il delicato e il malinconico, in una atmosfera filosofica in cui “bello” era considerato avere esclusivamente un significato emotivo, Austin introduceva anche l’idea che che si trattasse di una parola che doveva svolgere un onesto lavoro descrittivo.
L’idea di Austin era la seguente:
Il nostro comune assortimento di parole incorpora tutte le distinzioni che gli uomini hanno considerato meritasse tracciare, e le connessioni che hanno con-siderato meritasse mettere in evidenza, nella vita di molte generazioni: dato che hanno superato il lungo esame della sopravvivenza del più adatto, queste sicu-ramente sono probabilmente più numerose e più valide, e più sottili, almeno in tutte le questioni pratiche ordinarie, di qualsiasi altra che voi o io si abbia la possibilità di pensare stando il pomeriggio in poltrona – che è il metodo alter-nativo di gran lunga preferito 11.
Questo tipo di approccio non è sopravvissuto a lungo dopo la prematura scomparsa di Austin, nel 1958, ma voglio comunque richia-marmi a esso per sottolineare come il nostro vocabolario estetico sia decisamente più ampio di quanto il discorso tradizionale dell’estetica filosofica ci abbia fatto credere. I testi classici, da Burke a Kant, avreb-bero aggiunto “sublime” a “bello” come parte di ciò con cui hanno a che fare gli estetici, e Kant prestò particolare attenzione al “brutto” – sebbene per lo più in connessione con il modo in cui «le furie, le