di José Jiménez *
Una delle caratteristiche principali della nostra complessa cultura audiovisiva e massificata è la tendenza al livellamento, a concepire in termini di uguaglianza, ogni tipo di produzione e di esperienza este-tica, annullando le frontiere dell’arte, che è stato ed è l’ambito istitu-zionale al quale appartengono con maggiore intensità le menzionate esperienze nella nostra tradizione culturale. Questa tendenza è quella che porta a qualificare come “creativi”, o anche come “artisti”, i pro-fessionisti del design (nei diversi ambiti dell’industria, della grafica e della moda), la pubblicità, i mass media, e persino, ultimamente a chi lavora nel campo della ristorazione, gli chef de cuisine. Un esempio a sostegno della mia tesi è la presenza dello chef spagnolo Ferrán Adrià all’ultima “Dokumenta” di Kassel, nel 2007, invitato come un artista tra gli altri.
Anche se si accetta ciò che vi è di positivo nel distinguere, sul pia-no sensibile, tra la buona cucina o il buon design e la cattiva cucina o il design senza qualità, questi piani sensibili dell’esperienza non li situ-iamo nella dimensione dell’universalità, che l’arte e la filosofia esigono. In fondo, la tendenza di cui si diceva è direttamente relazionata all’im-patto dell’esperienza sensibile nell’universo dell’immagine mediatica, costruita su schematismi semplici, spesso persino banali, ma di grande efficacia comunicativa. Da qui l’importanza, la necessità culturale, di una disciplina come l’Estetica che, rimandando all’obiettivo che ave-va ispirato il suo sviluppo agli inizi della modernità come critica del
gusto, sia oggi capace di configurarsi e operare come critica generale dell’immagine. In società come le nostre, nelle quali tutto è immagine,
l’Estetica, come teoria filosofica in dialogo aperto e continuo con le diverse arti, deve operare come critica generale dell’immagine. Si tratta anche oggi, in linea con la tradizione della nostra disciplina, di stabilire modelli e criteri di distinzione, di differenziazione.
Così si affronta una delle questioni filosofiche più importanti del nostro tempo. La distinzione tra:
– i significati dell’immagine come apparenza, che caratterizzano l’universo della globalizzazione rappresentativa, della produzione, del consumo e della comunicazione;
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gono in conto la singolarizzazione rappresentativa, l’immagine che ha valore in sé stessa, né ripetitiva né omogenea.
Nella misura in cui quest’ultima dimensione trova il proprio regi-stro specifico nell’ambito delle diverse arti, in essa può essere rintrac-ciata alla radice la ragione della confluenza attuale tra arte e filosofia, come sentieri di ricerca sensibile e concettuale della verità.
La forza espressiva di ciò che oggi definiamo cultura audiovisiva sarebbe radicata dunque nella sua capacità di riunire, attraverso la
tecnologia, ciò che è andato disperso nell’intervallo di tempo nel quale
l’indipendenza della scrittura ha dato forza alla parola astratta, eman-cipatasi dal proprio suono. Un fenomeno che si presenta ancora più profondo e ricco nei supporti multimediali e nelle prospettive sineste-tiche e ampliatrici delle capacità sensibili e mentali che rende possibili, naturalmente non senza problemi o contraddizioni, è la rivoluzione cibernetica oggi in corso. Tutto sembra convergere verso un sempre più vicino orizzonte culturale di restaurazione dell’unità antropologica delle forme e delle modalità espressive.
Esiste, ad ogni modo, un arco espressivo che va dall’inizio alla fine, al telos della modulazione rappresentativa: l’espansione del senso sorge dal corpo, ma acquisisce vita propria, forma. Per caratterizzare tutto ciò che c’è dietro, questa radice antropologica comune delle arti e delle esperienze estetiche che non nega né elimina la propria pluralità, ho utilizzato nei miei libri la categoria dell’immagine, intesa in senso filosofico. Concepisco le immagini come forme simboliche di conoscenza
e identità che si forgiano nelle diverse culture umane per strutturare
spazi di senso, e che circolano attraverso diverse modalità espressive o “linguaggi” (utilizzando in questo caso il termine in senso analogi-co). Dal grado zero, la balbuzie dell’espressione, alla più complessa ricchezza e densità formale, il mondo umano è un mondo di simboli, di immagini.
Per la loro potenza rappresentativa, in non poche occasioni, le im-magini sono state poste al di là di questo mondo, oltre la sfera del sensibile. Ma, dalle radici della corporeità nella quale esse sorgono, le immagini costituiscono un ponte tra la fugacità della nostra vita e la sua aspirazione a perdurare nel tempo. Le immagini, costruite con le risonanze e i riverberi del nostro corpo, uniscono la transitorietà di ogni esperienza umana, fugace e irripetibile, con uno specchio di riconoscimento, di senso, che intensifica l’esperienza stessa e la proietta sulla via della continuità nel tempo.
Le immagini si configurano come un’esperienza di superamento dei
limiti, pur servendosi come materia esattamente di ciò che è limitato:
la carnalità, il corpo, le forme di questo mondo fugace di realtà sen-sibili. È in quell’universo corporeo e materiale, in quel quasi sempre irreprensibile regno dell’immagine, che si trova davvero la trascendenza del tempo, l’unità tra la vita e la morte.
Se vogliamo setacciare genealogicamente l’apparizione di una con-cezione filosofica dell’immagine, dobbiamo inevitabilmente rifarci alla cultura greca antica, al contesto nel quale sorse e si sviluppò ciò che i Greci chiamarono mimesis, da cui nasce l’intera carica dell’accezione positiva dello spazio della rappresentazione sensibile, in generale, e dell’arte, in particolare, nella nostra tradizione culturale. Un processo che ho analizzato con attenzione nel mio libro Teoria dell’arte 1.
Attraverso tutta una serie di passi e di trasformazioni storiche di ampia portata, l’universo della mimesis, della produzione e accettazio-ne culturale delle immagini, della rappresentazioaccettazio-ne sensibile, avrebbe finito per dare luogo, già nel mondo moderno, alla formazione del sistema delle arti, con l’idea di specificità e convergenza che carat-terizza un simile sistema, sul cui sfondo si troverebbe questa radice
comune delle forme. Tutto nelle arti racconta l’essere umano, persino
la natura morta o la macchina: il registro artistico promuove sempre un movimento di immissione dell’individuo in un universo di sensi, una transizione dall’io al noi, al mondo artificiale costruito dall’uomo, e al mondo naturale, vissuta come significazione.
Ciò che accade è che le rappresentazioni artistiche hanno sem-pre carattere frammentario, non racchiudono in sé, ad esempio, la pretesa di comicità né l’articolazione dogmatica delle religioni. Esse sono come un gioco: finzioni, esperimenti. È, perciò, anche necessario considerare che l’utilizzo estetico delle immagini è più vasto dell’uso specificatamente artistico, attraverso il quale si introduce la dimensione di finzione: quel carattere di “menzogna” accettata che è sempre stata conferita nella nostra tradizione culturale, all’arte.
L’universo concettuale della filosofia si costituisce, esattamente, nel tentativo di marcare la propria differenza rispetto alla mimesis e all’im-magine. E il nucleo di quella differenza consiste nel diverso utilizzo del linguaggio, e nel peso specifico della metafora nella poesia.
Aristotele stabilisce, di fatto, tre usi del linguaggio, che corrispon-dono alla logica, alla retorica e alla poetica. Il pensiero logico si con-trappone alla poesia dal momento che in essa la metafora svolge un ruolo fondamentale e racchiude in sé l’enigma: «e in senso complessi-vo, è possibile assumere metafore convenienti dagli enigmi ben forma-ti. In effetti, le metafore si esprimono per enigmi, per cui è evidente che ‹da questi› si è costruita un buona metafora» 2. E quindi, in senso opposto, «[…] se si rendessero tali tutti quanti ‹i nomi›, si avrà o un enigma o un barbarismo: se derivassero da metafore, un enigma» 3.
Sorta dall’enigma, la filosofia cerca la propria identità come rottura e contrapposizione ad esso. Il che implica, anche, una rottura rispetto alla metafora. Nella Metafisica, e in un contesto in cui si discute la re-lazione tra idee e specie, si rifiuta il valore di un argomento come qual-cosa di vuoto o metaforico-poetico: «dire che le Forme sono “modelli” e che le cose sensibili “partecipano” di esse significa parlare a vuoto e
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far uso di mere immagini poetiche» 4. Che sia chiaro: non si tratta di negare la poesia ma di differenziarla dalla filosofia. Mentre quest’ultima deve evitare la metafora, nella poesia «ciò che conta sopra ogni cosa» è il suo dominio, visto che, come indica Aristotele tale dominio è una «capacità che non si può assumere da un altro, ma è segno di buona natura. Infatti, il fare buone metafore è vedere ciò che è simile» 5.
Tuttavia non v’è dubbio alcuno che possiamo rilevare nella conce-zione aristotelica della poesia la mancanza di coscienza del tuffo poeti-co nell’immagine, un’insufficiente penetrazione nella dispoeti-continui-tà del linguaggio poetico. A ciò fa riferimento Josè Lezama Lima: «La poesia, così come sembra situata nel mondo aristotelico, cercava soltanto una zona omogenea, paritaria, nella quale fossero possibili e acquisissero senso le sostituzioni» 6.
La metafora e la poesia vanno molto oltre la capacità di “percepire la somiglianza”. Esse costituiscono il percorso che seguiamo per riu-scire a percepire “lo stesso” nell’incessante diversità, ma anche salto
verso l’immagine: «Proviene da questo discorso poetico che assomiglia
a quello del pesce nella corrente, dal momento che ognuna delle dif-ferenziazioni metaforiche si tuffa proprio mentre raggiunge l’identità nella differenza, verso il desiderio finale dell’immagine» 7.
In quel salto verso l’immagine la poesia fa straripare ciò che ef-fettivamente esiste per visualizzare il possibile, il virtuale. E questo è creare: dare vita a un mondo a partire dai materiali sensibili, andare oltre, più a fondo. Esperienza, allo stesso tempo, del limite e della
metamorfosi. Si tratta quindi di un decentramento che, a partire dalla
limitatezza corporale, materiale di ciò che è vivo, cresce in un
proces-so metamorfico, in una trasmutazione del sensibile che proces-sopravviene al
battito, al flusso incessante della parola.
“Alchimia del verbo”: aprendo la stagione infernale della poesia moderna, Arthur Rimbaud ci offre un’espressione che ben restituisce quella trasmutazione del sensibile. L’alchimia era un percorso di cor-rispondenze, un crocevia di sentieri tra la materialità del mondo e la vita dello spirito. La trasmutazione dei minerali, la ricerca della “pie-tra filosofale”, custodiva un’eco, uno sdoppiamento della metamorfosi: l’anima purificata celebra le proprie nozze con la materialità sublimata.
A noi, orfani di spirito, erranti come Rimbaud nell’inferno della modernità resta l’alchimia della parola: «Con ritmi istintivi, mi lusingai d’inventare un verbo poetico accessibile, un giorno o l’altro, a tutti i sensi» 8. È il linguaggio delle immagini eternamente libere, la strada verso la “semplice allucinazione”, grazie alla quale siamo capaci di vedere l’uno o l’altro in ogni cosa.
Potremmo aprire adeguatamente la riflessione estetica e il lavoro nella teoria delle arti alla problematica dell’immagine? Nel caso spe-cifico della teoria della letteratura a differenza del predominio pas-sato delle metodologie formaliste e strutturaliste, a partire dagli anni
Ottanta, la maggior parte delle correnti e delle proposte presentano una notevole convergenza nello spostamento del proprio centro di interesse. È il testo e non il linguaggio il suo materiale, ciò che va occupando progressivamente il centro di gravità delle analisi del fe-nomeno letterario.
Nel testo, e nelle diverse strategie di analisi o di aggressione del suo/dei suoi sensi, si concentrano i vari orientamenti metodologici del-la critica letteraria che sono degni, a mio avviso, di maggior interesse. A partire dalla crisi e dal fascino/perplessità nei confronti del linguag-gio si sarebbe prodotto così uno stravolgimento di ampio raglinguag-gio, un cambiamento nell’orizzonte teorico, che ora è costituito innanzitutto dai processi di produzione e trasmissione dei significati che ogni linguag-gio veicola, e in particolar modo il linguaglinguag-gio letterario.
Probabilmente fu l’illusione del Realismo di fine Ottocento, la ridu-zione del fenomeno letterario a un mero atto di produridu-zione della realtà esterna, alla base della necessità ossessiva della presa di coscienza del carattere verbale, linguistico, della letteratura e del conseguente im-pulso allo sperimentalismo. E una tale dimensione, la nuova e intensa coscienza linguistica acquisita dalla letteratura del nostro secolo, deve essere considerata come un valore irrinunciabile: la letteratura non riproduce una realtà esterna e già definita.
Nell’utilizzare la materialità del linguaggio, la letteratura produce una realtà propria, che si differenzia da ciò che normalmente chia-miamo realtà e nel farlo genera nuovi significati e esperienze di vita. Come vi riesce? Configurando testi, dotati sì di un’articolazione o di una struttura propria che però richiedono la ricezione del lettore, la sua collaborazione interpretativa.
Da qui il malessere che l’autocoscienza linguistica introduce nella letteratura: lo scrittore, come ha fatto notare W. H. Auden, a differen-za di ciò che accade al pittore o al musicista, sa che il suo strumento (il linguaggio) non è relegato al suo uso esclusivo. Al contrario il lin-guaggio è un prodotto sociale, può essere impiegato per gli usi più diversi: «Gloria e vergogna, a un tempo, della poesia è il fatto che il suo mezzo tecnico non le appartenga in modo esclusivo, che il poeta non possa inventare proprie parole e che le parole non siano frutto della natura ma di un consesso umano che le adopera per mille scopi diversi» 9.
Perciò, come afferma Maurice Blanchot, la letteratura implica un salto: «Del linguaggio comune noi disponiamo; ed esso rende disponi-bile il reale, dice le cose, ce le dà respingendole, si annulla a sua volta nell’uso, sempre nullo e senza parvenza. Ma, divenuto linguaggio della “finzione”, diventa fuori uso, inusitato, e certamente noi crediamo di ricevere quel che designa allo stesso modo che nella vita di tutti i gior-ni, e anche con maggiore facilità» 10.
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pesce, o della metafora, nel desiderio finale dell’immagine. Persino il mondo poeticamente immaginato è costituito con immagini, che isti-tuiscono la referenzialità letteraria e che con la dimensione simbolica del linguaggio, sarebbero in ultima analisi, le chiavi ultime del proces-so estetico della letteratura. Ed esse ci spiegano allo stesproces-so tempo, la loro comunicazione e vicinanza con gli altri universi estetici. Quindi le diverse arti raggiungono, tutte, questo: utilizzando diversi strumenti espressivi, un effetto estetico convergente in virtù della loro capacità di produzione di immagini umane, verosimili e possibili contrapposte
simbolicamente all’apparente chiusura del mondo reale.
Grazie a questa capacità, alla sua potenza creativa, la letteratura e le altre arti prendono parte, sono presenti in essa e modificano la vita umana. Come afferma Roland Barthes, «il libro fa il senso, il senso fa la vita» 11. E proprio in questo modo, attraverso il linguaggio, la letteratura è molto più che linguaggio: domanda e produzione di sensi (delle diverse dimensioni che la vita e la morte pianificano nel corso dell’esistenza umana). In conclusione, uso materiale e trascendenza: limite e metamorfosi, attraverso l’immagine, del linguaggio nel testo letterario, che per essere compreso in tutta la sua ricchezza e vastità, deve essere inteso come una realtà trans-linguistica. Come un’organiz-zazione/articolazione simbolica di sensi che agisce simultaneamente come specchio e condizionamento della realtà effettiva, in atto, nella quale si svolgono le nostre vite. Come diceva Antonio Machado: «Ese tu Narciso/ ya no se ve en el espero/ porque es el espero mismo» 12.
Ai giorni nostri, nonostante l’intero nostro universo culturale dell’espansione avvolgente della tecnologia, nel vivere un’autentica
rivo-luzione digitale, continuiamo a parlare di “arte”. Ma anche ora, come
prima della sua costituzione agli albori della modernità, risulterebbe improprio farlo nel rimettersi a “un sistema” che ormai non esiste, a una riunione accademica di attività e pratiche di rappresentazione au-tonome e differenziate. Il termine “arte”, pieno di una nuova vitalità, rimette oggi a una mescolanza, una sintesi, un meticciato. Lo stesso del mondo in cui viviamo, sempre più intensamente meticcio.
Nelle nostre società, si dà l’individuo per strutturato nel suo modo di sentire, e pertanto di pensare e di conoscere. La vita si stilizza at-traverso i flussi incessanti di rappresentazione, che come una catena senza fine, producono le tre grandi vie contemporanee non artistiche di esperienza estetica: il design, in tutte le sue manifestazioni, la pubblicità e i mezzi di comunicazione di massa. Se l’arte, le distinte arti, conti-nuano ad avere una vigenza nel nostro mondo è proprio perché grazie alla loro potenza formativa, alla loro forza di rappresentazione esse costruiscono universi sensibili di senso, capaci di rompere e mettere in discussione l’omogeneità della catena estetica continua che veicola senza discrepanze tutte le forme contemporanee dell’esperienza.
stilizza-zione, alla configurazione estetizzata dell’esistente, come la verità si oppone all’apparenza. E anche come la differenziazione, la capacità di discernimento, di distinzione, si oppone all’indifferenziazione, a ciò che è globalmente omogeneo.
Ciò che si avverte in maniera sempre più marcata nell’arte di oggi è un’esperienza dal doppio significato. Da un lato, l’arte ha perso in ma-niera irreversibile la posizione predominante, gerarchica, nell’universo della rappresentazione sensibile che aveva occupato dal Rinascimento fino alla fine del diciannovesimo secolo. Dall’altro, il suo posto nell’at-tuale universo osmotico e transitivo della rappresentazione è quello di una intercomunicazione circolare, di appropriazione e distinzione, rispetto all’immediatezza estetica, a un mero utilizzo pratico o comu-nicativo dell’immagine.
Le conseguenze di ciò sono non solo, come si è potuto percepire nello sviluppo dell’avanguardia classica, la trasgressione dei limiti semi-otici dei generi classici. Nelle arti plastiche: disegno, pittura, scultura… Ma qualcosa che va molto oltre: l’inserimento dell’arte, delle diverse pratiche artistiche, attraverso un processo di meticciato, di ibridazione, in un continuo globale della rappresentazione, dell’immagine, del quale in un certo senso fanno parte.
Tuttavia nel far parte di quel continuum della rappresentazione, la maniera di farlo specifica delle diverse arti è quello della
singolariz-zazione: l’opera d’arte ha, ai giorni nostri, principalmente un
caratte-re di rottura, di diffecaratte-renziazione nella catena indistinta dei segni che costituisce l’universo culturale delle società di massa. Nei confronti della globalizzazione comunicativa, l’arte isola, taglia, detiene, rallenta, accelera, inverte e sovverte… In definitiva differenzia l’immagine, stabi-lendo così un modello di autonomia di significati che le permettono di continuare a essere poiesis, produzione di conoscenza e piacere, messa in scena della verità e dell’emozione attraverso la sintesi del sensibile e del concetto. Queste intense, profonde trasformazioni, non devono destare scandalo. Le arti vivono e muoiono, i loro confini sono can-gianti, come lo sono anche le funzioni e il luogo che occupano in un ambito specifico della cultura.
Le cangianti divisioni tra i diversi tipi di arte, o tra arti “minori” e “maggiori”, delle quali potremmo offrire svariati esempi nella storia della nostra cultura, sono, in fondo, arbitrarie e sono soggette a un processo di trasformazione continuo, per altro simile a quello che si sperimenta nella vita e nelle culture umane in generale. Arbitrarie: nel senso di un’arbitrarietà che straripa, nel suo piano più profondo, dal proprio universo di rappresentazione, dall’immagine che forma la sua radice comune.
Questo punto è decisivo. Dal momento che sarebbe proprio
l’ar-bitrarietà dell’immagine, il suo carattere convenzionale, a costituire il
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che permette di concepire l’unità antropologica delle arti, senza farla dipendere da un’unica radice espressiva o dall’idea di sistema, con la forte carica metafisica che queste ultime due possibilità implicano. Si renderebbe così possibile il nostro stesso ingresso in una catena di trasmissione culturale che, con sfumature e varianti, accetta sin dalla Grecia antica la validità universale del procedimento mimetico che as-sicura l’unità istituzionale e culturale delle arti, sulla base dell’unità del