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Il mondo della vita e i simboli del moderno Una prospettiva per l’estetica

Nel documento Dopo l’Estetica (pagine 121-135)

di Elio Franzini

1. L’estetica è una disciplina che viene notoriamente battezzata nel-la nostra modernità. Da questo deriva le sue difficoltà di definizione: avere una storia antica e un nome nuovo crea problemi di identità, che gli ultimi duecento e passa anni non hanno per nulla risolto. Tale “modernità”, con l’insieme delle sue aporie, con i suoi “pre-” e i suoi “post-”, rende sempre più difficile, di fronte a un nome e a una storia, fare “teoria”: l’estetica sempre più appare in un quadro dove sono implicate ibridazioni, contaminazioni di saperi e di luoghi, esperienze di intensificazione sensoriale, o di suo mutamento e annullamento. Ciò induce a una riflessione sul “dopo”: il battesimo baumgarteniano ha dato un nome a una tradizione antica e questo ossimoro vivente, che sposa l’antico e il moderno, come vive, e in quali prospettive, la propria esistenza adulta?

In questa riflessione può aiutare il libretto di Lyotard sulla condi-zione postmoderna, che ritenendo il post-moderno una “parcellariz-zazione” linguistica delle pratiche, definisce il moderno – là ove nasce l’estetica – come “epoca delle grandi narrazioni”, ormai frantumate, che aprono la strada a un “discorso incompiuto”. Nel suo Discorso

filosofico della modernità, Habermas scrive infatti che il tema della modernità come progetto incompiuto è per lui un orizzonte tormentoso

proprio a partire dall’opera lyotardiana. Pur in un linguaggio fortemen-te influenzato dai retaggi della Scuola di Francoforfortemen-te, delinea la nascita della modernità sull’orizzonte concettuale del razionalismo, ribadendo l’affermazione gehleniana che se sono morte le premesse dell’Illumini-smo continuano a vivere le sue conseguenze, costruendo un asse sto-rico continuistico che piace, appunto, chiamare “modernità”. Per cui, scrive Habermas, «da questa visuale, una modernizzazione sociale che prosegue in modo autosufficiente il suo cammino si è separata dalle spinte di una modernità culturale che in apparenza è divenuta obsoleta; essa attua soltanto le leggi funzionali dell’economia e dello Stato, della tecnica e della scienza, che, secondo quanto si dice, si sarebbero unite in sistema sul quale non si può esercitare alcun influsso» 1.

Se ciò comporta una “cristallizzazione” dell’idea di modernità, e dell’estetica in essa, bisogna cercarne la genesi culturale perché anche questa realtà, oltre a quella sociale, non si cristallizzi,

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si in una formula vuota; oppure, al suo opposto, si riduca a essere un confuso elogio delle tracce, in esibizione di autoreferenziali giochi linguistici, persi in uno sterile anarchismo che, dichiarata conclusa la storia delle idee, trasformi paradossalmente solo in essa il pensiero, dimenticando proprio le idee. La modernità non deve trasformarsi in un concetto “sociale”, appunto in una sua cristallizzazione urbaniz-zata, come accade nello stesso Habermas, comportando una lettura sociologica anche delle categorie filosofiche, che giunge a “estremiz-zare” la lucida visione hegeliana dell’età moderna o, meglio, della sua autocoscienza. Di conseguenza, se è vero, come vuole Habermas, che «la modernità non può né vuole più mutuare i propri criteri d’orien-tamento da modelli di un’altra epoca; essa deve attingere la sua propria

normatività da se stessa» 2, vero è anche che deve farlo accettando la contraddittorietà della sua genesi e del suo movimento costruttivo, che si pone nella definizione epistemologica dei canoni dell’arte e del-la scienza, uscendo, di conseguenza, da schemi dialettici e daldel-la loro interpretazione in chiave di critica sociologica.

L’orizzonte in cui bisogna muoversi, senza cristallizzarlo, è allora, in primo luogo, quello che cerca di comprendere i movimenti che si sono verificati dalla Querelle a Baudelaire, mettendo in rilievo la modernità come il contingente transitorio, evanescente, accidentale, che tenta di connettersi all’altra metà, in primo luogo dell’arte, che sottolinea la sua eternità, avviando riflessioni che saranno riprese da Benjamin. Questo paradigma, senza dubbio di grande fascino, e del tutto geniale per spiegare gran parte dello sviluppo dell’arte dall’Ottocento ai giorni nostri, non è però né esclusivo né fondativo, dato che a sua volta si costruisce su un altro canone, quello vede nascere nella definizione secentesca della scienza, e nella paideia che da essa consegue, il senso stesso della modernità.

Questo paradigma ha in Cartesio, come direbbe Valéry, il suo “te-stimone” o il suo mito intellettuale e in Leonardo o in Bacone il suo contraltare, che è tuttavia anche il suo antecedente, a segnalare appun-to l’ossimorica unità spezzata che caratterizza il pensiero estetico della modernità. Un’unità che, all’interno del paradigma stesso, è attraver-sata da contraddizioni non latenti. I miti del tramonto, della guerra, della terra, del sangue – di un nulla mefistofelico che non sa ritrovare il proprio Faust, e il tutto che egli porta in sé – non sempre possie-dono, hanno posseduto, quella consapevolezza della “crisi”, e della “critica”, che la nascita della modernità ha insegnato. Peraltro, seguire tali istanze, sia che derivino dai confusi epigoni delle filosofie della sto-ria ottocentesche e novecentesche sia che prendano spunto da settori arretrati della teologia di impostazione cristiana, è poco interessante: e lo è proprio perché non si tratta di “difendere” una filosofia, bensì di descrivere alcuni presupposti di uno “spirito” che ha sue leggi, pur partendo da impostazioni teoriche diverse e, spesso, non conciliabili o,

meglio, tra loro in stretta relazione dialogica priva di possibile sintesi. Si torna così al punto centrale, mettendo tra parentesi queste interne contraddizioni: la disputa tra Antichi e Moderni, cioè tra la raziona-lità del classico e la razionaraziona-lità del metodo, che ha eccezionale valore simbolico nel delineare il passaggio tra Seicento e Settecento, e che vede quale suo simbolo tormentato la nascita dell’estetica, è il segno di una resistenza a far dialogare tradizione classico-retorico-umanistica-sentimentale con le forze della ragione. La questione in gioco è nodale: a partire dalla seconda metà del Seicento, almeno dal Dictionnaire di Bayle o dalla Querelle tra Antichi e Moderni, oltre che dalle grandi pro-spettive del Razionalismo, si evidenzia il disegno di una nuova traccia metodica, e organizzazione disciplinare, dell’intero edificio del sapere. La rinnovata relazione tra logica e retorica, la nascita della “critica” e dell’estetica, le straordinarie scoperte scientifiche, il rinnovarsi degli stu-di biologici, la riforma del teatro e non ultimo le nuove configurazioni delle città, si fondono in un orizzonte attraverso il quale il Settecento determina il suo quadro culturale, sociale e antropologico, che può essere analizzato in vari sotto-insiemi di storia delle idee, che delineano a loro volta quel che viene chiamato “modernità”. In questa varietà, in queste dispute, è tuttavia presente un’eredità comune, che non è soltanto l’istituzionalizzazione di un apparato di ricerca scientifica che per la prima volta può dirsi “moderno”, né soltanto la contemporanea critica di questo apparato nella consapevolezza baconiana che le leggi riflettono l’accordo tra la natura delle cose e lo sguardo che le descri-ve, e quindi non hanno un valore dogmatico: è soprattutto il senso di una lotta che l’umanità conduce per la propria autocoscienza, cioè per cogliere il nesso tra l’io e il mondo della vita, tra il soggetto e le sue rappresentazioni – appunto tra lo sguardo soggettivo e le cose “esteti-che”, l’ambiente circostante, che gli si presentano nella loro specificità naturale.

È da questa consapevolezza che l’estetica può forse “ricominciare”. L’epoca del provvisorio, come Lowith chiama la nostra modernità, quella rappresentata dalle città di Baudelaire e di Benjamin, dalle no-stre città popolate di differenze, multicentriche e multietniche, nasce dunque con la città ideale, con Leon Battista Alberti, con Leonardo, con Bacone, con la scoperta della relazione sapere-fare, con l’oscillare dell’uomo fra ordine e caos in una stabilità sempre minacciata, ma all’interno della quale si rinnova, con spirito faustiano, figlio di un’idea forte di “ragione”, il fare della natura e quello dell’uomo. Un Faust, vero eroe della modernità, che, pur prendendo a modello il principio goetheano della metamorfosi e proprio perché lo prende a modello, si è trasformato nel Faust di Valéry, che è appunto la metamorfosi di quello di Goethe: un Faust che rifiuta di compiere i riti del passato, che ha scoperto il senso genetico della storia e che, dunque, non può più trovare il rinascimentale “gusto dell’Universo”, avendo reperito in

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sé il demone della negazione, la convivenza baudelairiana tra eterno e contingente. «Non c’è in me – scrive – alcuna ansia di nessun’altra avventura, /in me che ho saputo vincere l’angelo e tradire il demone./ Ne so troppo per amare, troppo ne so per odiare/ e non ne posso più di essere una creatura» 3.

Faust, eroe estetico, è ora polivalenza e pluralità: è un essere in-finitamente moltiplicato il cui destino, e il cui tormento, è quello di ricominciare senza mai esaurire né la durata né il possibile. In questo modo sintetizza in sé il percorso dell’estetica, in tutta la sua pluralità semantica, nella nostra modernità, che ne raccoglie le aporie alla ri-cerca di una loro misura, di uno “spirito delle leggi” che le interpreti. Scopre il filo rosso di una modernità come possibilità di dialogo, dialo-go tra il sapere e il potere, tra il medesimo e l’altro: il suo tempo non assorbe in sé, nella staticità metafisica o in un circolo che ritorna su se stesso in un sogno paganeggiante, gli elementi in dialogo, bensì pone in movimento l’istante, mostra la possibilità costruttiva del molteplice, il desiderio di unità che è in esso, la stabilità e l’arbitrio di un’unità posta in essere da un movimento aporetico. Ha in sé quel che Hegel chiamava “lo spirito di passaggio” che segna la morte del classico, sen-za che, tuttavia, questo “spirito” ammetta davvero di dimenticare, con “ostilità e inconciliabilità”, quei principî che il classico ha instaurato.

Se esiste dunque una dialettica dell’estetica oggi, è una dialettica qualitativa, cioè senza sintesi, una dialettica polifonica, per dirla con Bachtin, dove nessun principio prevarica sugli altri. Tuttavia, perché la dialogicità non si trasformi in confusione e in negazione decostruttiva della genesi di un senso, ed essa in postmoderno, e la disciplina in incubo citazionistico, vanno recuperati, come già indicava Habermas, punti fermi nella propria stessa tradizione, nella propria storia dal Ri-nascimento a oggi, dal momento che la bruciante crisi di identità sem-bra presentarsi come la perdita di una coscienza acquisita attraverso secoli e secoli: paradossalmente Lyotard insegna che la modernità è in crisi proprio perché sta perdendo la sua memoria e la sua tradizione, e la sta perdendo perché l’epoca moderna è caratterizzata dalla «libera coesistenza in tutti gli spiriti colti delle idee più dissimili, dei principî di vita e di conoscenza più opposti» 4 . La crisi è, come lucidamente scrive Valéry, una crisi della modernità, in cui le differenze si sono così parcellizzate e miniaturizzate da non essere più in grado di trovare un minimo comun denominatore, e da non reperire più, al tempo stesso, le matrici in cui riposano e sono produttive tutte quante le differenze. L’attività illimitata del moderno è semplicemente ripetizione, che con-duce l’uomo lontano da se stesso, verso una città animale, “un perfetto e definitivo formicaio”.

La terapia proposta da Valéry per il moderno può dunque essere applicata all’estetica: si tratta di recuperare quella idea di classicità che la nutre, quel principio di Qualità, che certa modernità ha troppo

spes-so voluto spes-sostituire con l’idea di quantità, quando la mera grandezza materiale, gli elementi di statistica, i numeri, il sociologismo astratto, il fisiologismo riduttivista, l’ingenua inconsapevole dialettica della storia delle idee, tendono a eliminare le differenze, che sono essenzialmente differenze qualitative, quelle differenze su cui invece si fonda lo Spirito, che poi altro non è se non la capacità di organizzare, e interpretare in direzione costruttiva, nel senso della tradizione, le differenze stesse, i diversi modi di comprendere e costruire i nostri spazi circostanti. In sintesi, se l’estetica è uno dei parti che rivela lo spessore aporetico della nostra modernità, è suo compito, nella varietà dei metodi e delle prospettive, aiutare a recuperare quell’azione “sottile e potente” cui dobbiamo, a parere di Valéry, la parte migliore della nostra intelligenza, la sottigliezza, la solidità del nostro sapere. Cui dobbiamo una serie di numerose virtù, come la nettezza, la purezza, la distinzione delle nostre arti e della nostra letteratura. Quel metodo che ha reso l’uomo moderno non una realtà cristallizzata, bensì un sistema di riferimenti capace di costruire un’armonia fra le differenze, in primo luogo fra le differenti facoltà che vivono all’interno dello spirito stesso, cioè fra sensibilità e intelletto, tra ragione e retorica.

Questo “recupero” non è uno sforzo bellico, né un destino epo-cale, né una sfida sociologica, traducendosi soltanto in una capacità di guardare, in uno sguardo ironico, consapevole di essere, come in un dipinto di Klee, un equilibrista su un filo, che potrebbe facilmente cadere, senza tuttavia perdere la forza – e la distanza – del sorriso.

L’estetica moderna insegna allora a guardare gli spazi e i tempi del-la “tradizione” come a un “sistema di riferimenti”, che possa tuttavia essere guardato “a distanza”, quasi oggettivato dagli sforzi spirituali di chi guarda.

Topologizzare l’estetica potrebbe apparire un paradosso: ma è evi-dente che, nella sua tormentata attualità, vanno trovati nella tradizione i punti di ricominciamento, di cui Kant costituisce l’asse centrale di ri-configurazione, pur nella consapevolezza che tra le molte anse storiche che è possibile in essa individuare non esiste una “via” che possegga la verità, che spieghi le definizioni e le riconduca in un reticolo ordinato. Vi sono invece punti di vista che ne interpretano in chiave di esperien-za le potenzialità, nella consapevolezesperien-za che anche l’estetica, in quanto teoria della conoscenza sensibile, come tutte le altre scienze e disci-pline, ha subito, per usare un’espressione di Gaston Bachelard, le sue “rotture epistemologiche”, ha dovuto combattere con vari “ostacoli”, che sempre subentrano quando l’istinto “formativo” che è alla base di un edificio scientifico cede a un istinto conservatore 5. Si comprende allora che l’estetica non emerge in modo “continuistico”, ma attraverso improvvise esplosioni, momenti di rottura che sanno “riformare” il passato e superare l’ostacolo con un nuovo impulso formativo. Queste idee bachelardiane sono state riprese da Foucault, che ha elaborato

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l’idea di una “archeologia del sapere”, che parte dal presupposto che anche in alcune “scienze umane” il ritmo delle trasformazioni – degli impulsi formativi – non obbedisce agli schemi, pur duttili, di uno svi-luppo “continuista”. Solo che, possiamo aggiungere, in queste rotture, nell’estetica, non si verifica una improvvisa modificazione nelle regole di formazione di enunciati che erano stati accettati come scientifica-mente veri, bensì una costante (pur discontinua) risemantizzazione di linguaggi e problemi che hanno la loro comune radice nell’antichità classica.

Questa premessa contro il continuismo nella storia di una disciplina come l’estetica ha, più che uno scopo polemico contro le storie fina-lizzate a un univoco modello teorico, il fine di mostrare la centralità rivestita dalla tradizione che trova un punto di unità e di ricomincia-mento con l’estetica trascendentale di Kant: ruolo che è ambivalente poiché il suo pensiero si pone al tempo stesso come ostacolo e come rottura, segno di continuità e discontinuità, che certo non può essere ricondotto, come pure nella storia più volte si è fatto, a banali schemi euclidei e newtoniani, a paradigmi fissati e storicizzati.

Vi sono semplicemente, in questo legame originario e costitutivo tra l’estetica, l’esperienza e il giudizio, continuità e discontinuità, momenti esemplari e casi contingenti che sfuggono alla catalogazione, e che nella storia dell’estetica vengono in luce: è metafisica (metafisica nel senso che non rispetta la “fisica” dei sistemi ontologici su cui si fon-da il sapere, che sempre prescinde fon-da finalismi e sogni millenaristici) sostenere che il vero senso storico riconosce «che viviamo senza punti di riferimento né coordinate originarie, in miriadi di avvenimenti per-duti», esattamente come è metafisica (ed è sempre Foucault a parlare) ritenere che «il nostro presente poggi su intenzioni profonde, necessità stabili» 6 . Al di qua di questi “sistemi”, si pone invece la necessità esperienziale di uno “sguardo”: descrizione che afferri il continuo nel discontinuo, la differenza nel darsi ripetitivo degli eventi. È questo il motivo per cui una teoria della sensibilità, che lavora all’interno di un territorio originario, pre-riflessivo e precategoriale, non può sottrarsi alla descrizione e alla sua esemplarità: di fronte a un ostacolo, e alle rotture epistemologiche della modernità, offrire risposte generiche, che non si confrontino con il senso qualitativo del nostro mondo circo-stante, significherebbe cadere in ipotesi che non rispettano ciò che le cose sono per noi, continue o discontinue a seconda del punto di vista da cui le si guarda.

Risposte che, come si accennava, possono seguire strade diverse. Se si propone, per andare “oltre”, senza tuttavia spezzare una tradi-zione, per cercare di descrivere la complessità del senso senza farne un’ordinata e continuistica storia ideale, la prospettiva fenomenologica è soltanto perché, come scrive Jean Michel Salanskis, è una via a par-tire dalla quale la filosofia, «trovando un’identità non alienante e non

mutilante, possa far agire la propria seduzione in direzione del mondo, illuminandone le mutazioni e i labirinti» 7.

Husserl è colui che, forse unico negli ultimi cent’anni, ha compreso il progetto epistemologico della filosofia occidentale, riannodando tra loro problematiche antiche, per far comprendere non destini torbidi e finalità fumose, ma il senso di un percorso conoscitivo che è quello stesso in cui si è posto il problema della “ragione” nel suo rapporto con il mondo.

2. La descrizione fenomenologica è infatti, in primo luogo, il ten-tativo di non ridurre l’estetico a definizioni, bensì di delineare, al di là delle mode, la fondazione di un complesso orizzonte estetico per la conoscenza. Porre l’estetica oggi su questo piano non significa meditare né sul senso ontologico o intenzionale dell’oggetto estetico né sul signi-ficato degli strati di senso che compongono l’opera d’arte: in Husserl si indica piuttosto una strada che conduce proprio “oltre” l’estetica, cioè verso il tentativo di afferrare il logos del mondo estetico, aprendo ai problemi generali e fondativi della conoscenza e delle sue tradizioni. L’estetica è il centro del pensiero husserliano là dove questo si definisce come tentativo di riproblematizzare l’orizzonte del rapporto moderno tra doxa ed episteme. Il “modello estetico” è un progetto epistemologico al centro del quale si pone la lunga ricerca husserliana per comprende-re funzione e ruolo della soggettività, dal momento che costruicomprende-re una scienza significa sempre costruire una scienza della soggettività e della sua vita operante estetica, all’interno della quale, come in Kant, si tratta di uscire dalla contrapposizione leibniziana tra simbolico e intuitivo comprendendo invece la genesi intuitiva del simbolico. La simboliz-zazione necessaria alla scienza deve cioè essere colta nella sua genesi estetico-intuitiva: il senso d’essere del mondo della vita viene afferrato in quanto formazione soggettiva, operazione della vita esperiente. L’este-tica, in questo quadro genetico, non è né una premessa alla conoscenza oggettiva né la descrizione di specifici oggetti o di processi degustativi o teoretici, bensì l’origine della conoscenza stessa, che nell’attività sog-gettiva esibisce le sue manifestazioni simboliche, radicate nella verità intuitiva della vita ingenua e della natura umana.

Estetica è allora, in primo luogo, interrogazione della vita che espe-risce il mondo, del fungere originario del soggetto, sempre presente, anche in modo anonimo, nella relazione di senso che instaura con il nostro circostante mondo della vita. In questa direzione l’estetica per-mette la tematizzazione della scienza universale della soggettività nelle sue molteplici esperienze di senso, che fungono in qualsiasi processo logico-conoscitivo, in qualsiasi atto della natura umana, che è sempre

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