Fenomenologia dello Spirito
2.3 Kant, Hegel, Weil
Come non poter considerare, a tal punto, la “Critica della capacità di giudizio” e la “Fenomenologia dello spirito” due opere che esprimono la necessità di voler fondare nuove filosofie del senso? Abbiamo appreso, attraverso il dialogo che abbiamo tentato di portare avanti, come in realtà il pensiero di Kant e quello di Hegel possano essere considerati due pensieri fra loro complementari. Le premesse, che nella terza critica kantiana emergono con forza, caratterizzeranno le istanze stesse della Fenomenologia. Il problema trascendentale che sta alla base sia della terza critica sia della Fenomenologia, d’altronde, si ripresenterà in tutti e due i sistemi di pensiero, nella loro totalità. Abbiamo così scoperto che le nozioni di “soggetto”, di “mondo” e di “senso” si presentano come termini costitutivi di un discorso rinnovato e ricompreso entro il procedere del pensiero filosofico stesso: ne diedero conto sia Kant sia Hegel mostrando come al centro del rapporto soggetto-mondo vi sia l’attività esperienziale, quella Erfharung di cui parlarono entrambi gli autori. Abbiamo poi appreso che senza de-formalizzare la nozione stessa di “mondo” – e dunque le due nozioni centrali di spazio e di tempo che Kant ci ha insegnato per primo a riconoscere alla luce del problema della modernità – non saremmo potuti pervenire neppure alla ri-comprensione della nozione di soggetto, un soggetto che si era già scoperto dotato di una “coscienza”. Esperienza del e nel mondo, pertanto, diventa esperienza che interroga su come un soggetto, divenuto cosciente della propria ragione, possa essere e di come esso possa vivere, diventa esperienza che interroga l’uomo su cosa significhi per lui essere. Il Comprendere diventa, definitivamente, un comprendersi entro l’esperienza della vita. Al contempo, abbiamo scoperto che quell’essere in movimento privato di una sua giustificazione ontologica, oggettiva e necessaria – privato di un senso oggettivo e pre- garantito – possa essere oggi definito con il nome di “Storia”, una storia che può sorgere solo concependo il mondo non solo nella sua idealità, ma anche nella sua realtà nella quale già si insinua il “linguaggio”. E ancora, attraverso la nozione di “Storia” abbiamo imparato che il soggetto, dotato di una coscienza, si scoprirà soggetto storico, già immerso entro dei linguaggi per loro stessa natura non formali. L’esperienza della terza critica e quella della Fenomenologia hanno mostrato come poter pervenire al senso di questo mondo, la prima esponendo progressivamente le condizioni metodologiche e formali per riuscire a pervenire ad un discorso ragionevole dell’uomo nel mondo, la seconda esplicitando le condizioni reali entro le quali un soggetto può divenir consapevole di un senso umano, interamente mondando, ma già storico.
131
Resta il fatto che entrambe queste filosofie devono necessariamente tornare a porre una questione di metodo entro la loro epoca, ed ecco perché ritorna in entrambe il problema “trascendentale”: è solo in virtù del soggetto – che esso sia inteso nella sua astrazione o nella sua reale forma storica – a poter pervenire al senso suo e della sua realtà. E’ solo il soggetto che può porre il problema del senso e scoprirlo come un che di oggettivo. E’ solo il soggetto che può porre delle finalità sensate del suo agire, che può pervenire ad un linguaggio essenzialmente ragionevole. E’ solo questo soggetto che può pervenire alla riflessività di se stesso, che può farsi autocosciente e cosciente del suo mondo, che può esprimere un giudizio sensato su se stesso e sulla sua realtà. Abbiamo poi riconosciuto che il mezzo essenziale per pervenire a tutto ciò, mezzo di cui solo il soggetto umano può disporre, è il linguaggio, è un linguaggio che nella sua realtà deve farsi ragionevole, che deve farsi discorso sensato, che deve permettere un’intellegibilità universale della realtà umana e dei rapporti che la regolano nella sua totalità, entro il vissuto. La realtà – della condizione, che si radicalizza attraverso la scoperta di mondi storici – può essere appresa nel pensiero, può trasformarsi in discorso concettuale che ne permetterebbe la comprensibilità totale. E’ solo così, allora, che lo “spirito” potrà essere compreso. Spirito che, nella sua esistenza e nella sua realtà, si scopre essere non altro che “linguaggio”, di cui le categorie essenziali e sottese dovranno essere rischiarate. E’ così che si possono mostrare quali categorie, nel corso di questa storia umana, hanno formato il nostro pensiero, i nostri modi di pensare, di conoscere, di giudicare e di agire: comprendere il discorso, che deve farsi discorso coerente, permette di comprendere, di conseguenza, quali attitudini collettive, nella nostra situazione, stiano venendo alla luce – benchè tali attitudini, inizialmente, non vengano così riconosciute da chi le esprime. Solo comprendendo le nuove attitudini espresse dalla realtà sociale, economica, politica e culturale che si sta vivendo possiamo comprendere il senso e il significato della nostra epoca. Comprendere queste nuove attitudini significa, dunque, guardare in faccia la violenza, riconoscerla come momento della nostra storia che sta transitando. Comprendere questa violenza significa riconoscerla, significa tentare di trasformare il grido disperato, tragico, di chi vede la propria esistenza svuotarsi di ogni valore, senso e significato, in discorso che vuole mostrare le ragioni del proprio dire “No”, discorso che deve essere elaborato comunemente per poter indicare delle nuove possibili direzioni e destinazioni dell’esistenza.191 In questo contesto, non sarà difficile riconoscere
191 Si vedrà in che termini la siffatta questione verrà affrontata nella Logique. Individueremo quelle così definite categorie della rivolta, della violenza o dell’incoerenza, mostrando il loro possibile superamento entro il discorso.
132
delle attitudini pure. Attitudini che non cessano di presentarsi entro il discorso storico, appreso nel pensiero.
Una prima caratteristica dei nostri tempi attuali, alla luce di queste prime considerazioni, sembra la seguente: si tratta di capire che la nozione di “soggetto” di cui abbiamo dato conto rischia di non avere più alcun significato. E il significato che abbiamo imparato ad attribuirgli è quello che si mostra nella sua storicità: soggetto, pertanto, diventa soggetto storico. E ciò non significa che l’individuo sia un puro prodotto dello sviluppo degli eventi e delle condizioni culturalmente date. Sia Kant sia Hegel hanno mostrato come il soggetto che qui è questione sia un soggetto che può farsi essere morale. Un soggetto che è in grado di pervenire ad un discorso ragionevole, a delle finalità sensate del proprio agire a partire da qualsiasi contenuto storico in cui egli è immerso: questa è stata la lezione della modernità, che solo entro la modernità abbiamo potuto riconoscere. Abbiamo anche mostrato come, però, le attitudini che hanno caratterizzato l’epoca moderna si siano scoperte come attitudini collettive – di una coscienza che si scopre collettiva – attitudini di un mondo storico: esse si trasformarono progressivamente in quel discorso coerente attraverso cui una società, una cultura ha scoperto la nozione di soggetto, inteso in primis come soggetto in grado di trasformare il dato, in grado di organizzarsi, di pervenire a nuove forme del vivere associato solo perché entro un contesto sociale già stava vivendo e già stava parlando. Un soggetto in grado di trasformare il mondo secondo delle finalità comuni e riconosciute, pertanto, secondo delle direzionalità che si scoprirono nella loro universalità. Vedremo come il principio della soggettività che si vuole ora libera, autonoma, non più da considerare alla stregua di un puro oggetto, si sia potuto affermare, entro il mondo occidentale, in virtù di eventi e processi storici ben riconoscibili sul piano della storia delle idee. Ma, ancora una volta, quel che qui conta è il concetto. L’uomo che si scopre autonomo, in grado di agire secondo la propria volontà ragionevole per trasformare il dato esistente, che si scopre indispensabile alla stessa organizzazione sociale è già uomo che lavora. E lavora entro un mondo di produzione che si affermò progressivamente, nel corso della storia.
Dunque, la nozione di “soggetto” implica concettualmente la possibilità umana di farsi forza storica protagonista, attraverso il proprio agire consapevole, sensato e ragionevole, attraverso l’organizzazione politica della società dei soggetti e attraverso il proprio lavoro. Se la nozione di “soggetto” così intesa rischia di non significare più chiaramente tali concetti risultati, allora neppure la nozione di lavoro – nozione che rimanda al significato stesso di soggettività moderna: essa è principio agente e inter-agente con la realtà – non
133
indicherebbe più alcun valore condiviso e riconoscibile dal soggetto stesso, il quale si troverebbe ad esser ridotto a puro ingranaggio di un sistema sociale sul quale non potrebbe più esercitare alcun agire sensato.192 Questa irriconoscibilità del valore del lavoro
porterebbe tale nozione a transitare nel suo significato negativo: lavoro non diviene più ciò che permette all’uomo di farsi libero, ma diventa ciò che ora testimonia la sostanziale schiavitù dell’uomo – che ritornerebbe ad esser mero oggetto fra gli altri – entro il regno della pura necessità immodificabile: il lavoro diventa puro e insensato sacrificio, diventa ciò che sacrifica l’uomo sull’altare della violenza e della necessità, che non eleva più alla realizzazione ragionevole del soddisfacimento umano.193 L’effetto di tale mutamento del
significato di “lavoro” è inevitabile che si riversi entro le coscienze di ogni individuo, o meglio, esso si scopre estrinsecazione di un modo differente di concepire la propria esistenza e la propria realtà esterna. Un modo di concepire la propria esistenza che rivela, in verità, un esser sempre meno consapevoli del fatto che il lavoro, l’agire secondo fini condivisi e ragionevoli, deve affermarsi come valore umano che conferisce valore umano alla realtà.194 In via definitiva, siamo in presenza di una progressiva incapacità di tornare a
giudicare i fatti secondo principi umani che possano conferire valori altrettanto umani alla vita e alla storia nella sua totalità. L’immagine della nostra realtà mostra una radicale incapacità – dovuta in primis ad una strutturale e progressiva impossibilità materiale – di riuscire a considerarsi e a comprendersi come esseri morali: un’immagine che mostra l’incapacità stessa di riuscire a comprendere cosa significhi per l’uomo essere. Non deve
192 Questo il contesto nel quale può emergere un linguaggio puramente “tecnico”, “specialistico”, che nullifica ogni utilità che non sia quella che la stessa tecnica impone. Un linguaggio siffatto, pertanto, finisce con il fare astrazione di quel “discorso in generale” da cui esso è pur sempre risultato. Esso appare, così, linguaggio che può fare a meno di esprimere “valori”, senza sapere, tuttavia, che valori sottesi ad un modo di conoscere, pensare ed agire, sta costantemente disvelando. Si tratta di riuscire a riconoscerli.
193 Il lavoro inteso come mero strumento per sopravvivere alla necessità materiale, come mero mezzo in vista di altro, è la logica che oggi predomina. Non ci illudiamo che una tale logica sia apparsa e si sia imposta solo oggi, tuttavia. E’ sempre e solo la necessità a costituire la base reale della condizione umana, quella stessa condizione in virtù della quale la filosofia stessa può sorgere (a partire da coloro che materialmente possono dedicare il loro tempo alla filosofia). Una logica del lavoro siffatta, tuttavia, è anch’essa sorta storicamente e si è radicalizzata entro un determinato sistema economico di produzione (quello del capitalismo industriale in
primis, per esser chiari). Tuttavia, l’elemento che oggi sembra mancare in toto è proprio la prospettiva regolativa
– kantianamente parlando – di cosa debba essere il lavoro e di cosa esso debba andare a significare per l’uomo e per il suo senso. Pertanto, abbiamo potuto affermare che il lavoro è ciò che deve permettere la realizzazione della libertà materiale e culturale di un soggetto storico: lavoro non deve essere puro strumento accidentale, ma deve configurarsi come un diritto. Questa una delle lezioni che abbiamo appreso in virtù della modernità. E’ evidente come tutto questo stia, progressivamente, scomparendo. Si tratta allora di decidersi, con buona pace di chi continua ad affermare la necessità di un’analisi acritica delle realtà sociali, credendo così di aver raggiunto l’«oggettività» (abbiamo visto come questo metodo “analitico”, di fatto, non sia consapevole di esprimere costantemente dei valori, semplicemente perché esso presuppone pur sempre la discussione e un discorso “in generale”). In ultima analisi, si tratta di decidere che cosa, oggi, debba essere il lavoro; si tratta di capire cosa, oggi, possa andare a significare la parola “dignità”: abbiamo imparato, d’altronde, che da questi principi non possiamo prescindere, se non vogliamo incorrere nella violenza più sfrenata.
194 Che dunque presuppone la possibilità di poterlo pensare in funzione di una progettualità sensata della propria esistenza.
134
stupire, allora, se si arrivò a concepire la fine della storia di un soggetto – che ora scopriamo essere il soggetto umano e storico in quanto tale – che può agire secondo direzionalità comuni e universali, significanti e sensate.195 Una fine apparente, tuttavia. La
storia, questo stesso procedere mediato e mediante continua, pur sempre, a sussistere. Occorre allora capire, piuttosto, quali siano le vere forze motrici di tale processo attuale. Come è possibile poter comprendere la nostra epoca, se dapprima non torniamo a farci consapevoli di essere gli unici possibili rivelatori di un senso del nostro stesso stare e agire nel mondo? Come poter ancora concepire una storia sensata, senza premettere questo necessario principio, sorto pur sempre entro la modernità? Solo premettendo tali argomentazioni possiamo affermare che, attualmente, occorre necessariamente tornare a comprendere per comprendersi, entro la propria situazione.
E’ importante capire che un “soggetto” può esser rappresentato già da gruppi sociali ben definiti, che condividono attitudini comuni. Si tratta, dunque, di tornare al discorso coerente, di fronte ad una violenza che oggi vorrebbe cancellare l’ultimo principio di senso rimasto entro il nostro mondo. Ma come riconoscere questa violenza? Come riconoscere, in modo concettuale, le figure dalla violenza? Come poter riconoscere costantemente, nella storia, questa incapacità di giudizio, che costringe, in un modo o in un altro, al silenzio, alla violenza, alla sospensione di ogni giudizio? Ebbene, abbiamo visto come sia Kant sia Hegel abbiano offerto, in primis, un metodo filosofico volto a rispondere a tali quesiti. Lo hanno fatto ripartendo proprio dalla nozione di soggetto. Tuttavia, è stato Eric Weil a disvelare tali istanze e tali domande di fondo sottese a entrambi i pensieri che abbiamo fatto dialogare: ce lo ha mostrato, in via definitiva, per poter ricomprendere per ricomprenderci, a partire dalla violenza da riconoscere e da superare costantemente.
La “Logica della filosofia” non ha bisogno di chiarire il suo metodo, in tal senso.196 L’opera di
Weil è essa stessa, nel suo complesso, l’esposizione coerente di come il pensiero kantiano ponga le premesse per lo sviluppo del pensiero hegeliano. Un pensiero hegeliano che, pertanto, è ritornato inevitabilmente a ripresentare prospettive essenzialmente kantiane.197
195 Se, pertanto, l’agire non è più caratterizzato da condizioni di senso riconoscibili e da una sua istanza progettuale sensata, ragionevole, comune si capisce come la storia stessa non solo appaia terminata, ma torni ad esser concepita come un cieco destino, priva di qualsiasi destinazione possibile, che preclude all’uomo che vive nella necessità ogni possibile passaggio all’atto autenticamente politico.
196 Infatti “non è il caso di aspettarsi riflessioni sul «metodo»: non ci può essere differenza tra la logica e il suo metodo, poiché ogni riflessione metodologica non può ricevere il suo senso che dalla logica – e può riceverlo soltanto in un senso strettamente limitato, quello di un discorso determinato all’interno del discorso totale.” Eric Weil, Logica della filosofia, cit., p.122.
197 Non si intende dire che la Logica della filosofia si limiti a questo, al contrario. Ma l’opera mostra, da un ulteriore punto di vista, come un metodo dialettico del pensare – che si caratterizza come metodo proprio di
135
Si mostra così un’essenziale complementarietà fra i due sistemi. Ma questo è solo un punto di partenza: il pensiero del filosofo, dell’uomo Eric Weil ci mostra come qualsiasi prospettiva filosofica che oggi si configura necessariamente come post-hegeliana, alla luce di un modo di pensare hegeliano che ha segnato il mondo occidentale e da cui esso non può prescindere, possa trovare un suo possibile sbocco nella ricomprensione del pensiero kantiano. Un ricomprensione, d’altronde, che lo stesso Hegel non ha potuto fare a meno di ammettere come necessaria.
Per queste ragioni preliminari, si tratta ora di capire come lo stesso Weil abbia mostrato, indirettamente, che solo attraverso un dialogo tra due filosofie del senso come quelle di Kant e di Hegel – così ricomprese dallo stesso Weil – sia possibile pervenire ad una ricomprensione legittima del discorso concettuale di cui la filosofia si deve far garante, entro la nostra situazione. E’ ancora possibile, pertanto, pervenire a una nuova ontologia? Abbiamo mostrato come questo sia possibile, oggi e per Weil, solo facendoci coscienti che l’unico principio per poterla fondare risiede proprio in un soggetto che intende farsi soggetto morale. Soggetto che intende pervenire ad un discorso coerente, che intende pervenire alla comprensione di una logica del discorso. Per tali ragioni, lo stesso Weil ha mostrato come il pensiero hegeliano possa aver operato una de-formalizzazione dei termini costitutivi del discorso kantiano: in primis, de-formalizzando le nozioni di “categoria”, di “linguaggio”, di “discorso”. D’altronde la “Logica della filosofia” si svilupperà proprio a partire da un tale risultato.198
Alla luce di tutto ciò, si capisce come sia necessario ripartire da Il problema trascendentale.199 A
partire da tale questione, Weil sembra ripercorrere i vari momenti che hanno portato, di fatto, al dialogo tra una filosofia kantiana e una filosofia hegeliana. A partire da qui, l’autore della Logique perverrà al rapporto tra categorie del discorso filosofico e storia nella sua concretezza. Abbiamo dimostrato come sia possibile pervenire a ciò che Weil mette in evidenza nelle seguenti pagine:
“Basti ricordare che questa vita è, come inevitabile dopo ciò che precede, una vita che agisce; che l’azione cosciente di se stessa è la lotta contro la contraddizione e la violenza; che lo scopo dell’uomo non può essere quello di sottrarsi al finito e al dato,
una ragione che vuole comprendere il reale nella sua fenomenicità – sia essenzialmente metodo critico e, per questo, metodo che pensa la storia in una prospettiva che interroga e mostra la legalità del metodo attraverso cui viene pensata. Il pensiero di Kant e quello di Hegel costituiscono premesse essenziali, in tal senso. 198 Non è un caso che la Logica di Weil presenti, già di per sé, della categorie che si mostrano de-formalizzate e ostensive. E non è un caso che la loro legittimità si mostri solo nel corso del loro sviluppo, solo entro la totalità del discorso. Cfr. Eric Weil, Logica della filosofia, cit. pp.127-602.
136
ma solo di essere in accordo con se stesso, con ciò che lui stesso è più di quanto lo sia ogni dato, d’accordo con la sua ragione; che egli è, quanto al fondo, essere morale, essere che si orienta secondo un discorso il cui contenuto (le condizioni della sua azione) non dipende da lui, ma la cui forma (la regola che egli si prescrive) è sua in quanto ammette come criterio il solo accordo dell’uomo con se stesso nella ragione, escludendo così dalle sue decisioni la natura e la sua violenza, benchè non possa mai essere sciuro di averla esclusa dai suoi atti […]: deve agire in modo tale che il principio di ciascuno dei suoi atti possa fondare un sistema di regole di condotta coerente, ossia non violento. Non è importante sapere se, di fatto, egli è sempre in grado di conformarsi a questo imperativo, poiché vi si doveva sempre conformare, come non ha importanza sapere se l’atto conforme alla regola raggiungerà lo scopo prefisso, poiché ciò dipende dal dato e non dalla decisione. Prima di ogni riflessione sui fatti è chiaro