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Morale, Politica, Storia Morale pura e diritto Azione e educazione

Morale, politica, filosofia

3.2 Morale, Politica, Storia Morale pura e diritto Azione e educazione

Il problema del passaggio all’azione politica non può essere risolto se non entro il quadro di una riflessione filosofica sul problema morale, che chiede quale sia il fondamento di ogni morale. Abbiamo imparato che da questo problema non possiamo prescindere. Noi, che poniamo il problema della riflessione morale, abbiamo già riconosciuto la questione di fondo che caratterizza il nostro mondo attuale: il problema della violenza che può instaurarsi costantemente tra l’individuo e la sua comunità, tra individuo e individuo, tra individuo e società. Il problema essenziale che una riflessione sulla morale pone inevitabilmente resta il seguente: qual è la natura dell’uomo? Il mondo antico rispose con la concezione della morale cosmica. Il cristianesimo, al contrario, ha portato alle estreme conseguenze la scissione che poteva sussistere tra individuo e mondo, individuo e propria comunità. L’uomo è caduto sulla terra, successivamente al suo peccato originale. Da un lato, dunque, egli ha scelto la ragione, ha trasgredito al comando imposto da un’autorità esterna, ma nello stesso tempo ha compreso che egli – ora potenzialmente libero da qualsiasi determinazione estranea alla propria ragione – può scegliere il bene come anche il male. Abbiamo poi appreso che le nozioni di “bene” e “male” sono nozioni che solo nella storia e attraverso il loro mutamento di significato hanno potuto assumere un senso per noi. Abbiamo appreso che noi possiamo farci esseri ragionevoli, attraverso una decisione, che può essere presa soltanto entro i limiti di un mondo condizionato e condizionato storicamente. La morale pura, allora, ci avvisa su un fatto: dopo l’avvento del mondo

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moderno la nozione di “bene” e la nozione di “male” si devono determinare solo in base al principio dell’universalità; ogni dottrina, ogni morale, ogni legge, ogni sistema di diritto positivo può e deve essere criticato in base al principio di universalità che pone la libera volontà e la volontà di libertà, l’eguaglianza tra singoli individui, la loro assoluta dignità – che significa semplicemente considerare l’altro come fine in se stesso e non come mezzo, non come mero oggetto utilizzabile per soddisfare scopi arbitrari. Tuttavia l’uomo che vive nella violenza, quell’uomo caduto sulla terra, non può essere immediatamente morale. Egli può farsi morale, scoprire in sé una propria volontà ragionevole, ma solo in seguito all’aver combattuto le proprie passioni, il proprio istinto alla violenza, il proprio esser immorale.52

L’uomo, per farsi essere morale, per scoprire il principio dell’universalità, deve attraversare la propria violenza, deve attraversare la violenza esterna – quella che anche determinate morali possono infliggerli – e solo per mezzo della contraddizione con se stesso e con il mondo può farsi consapevole di cosa, per lui, possano significare i valori di libertà e di uguaglianza. Appare più chiaramente come questo individuo possa svolgere tale processo esclusivamente agendo entro la storia ed entro contesti sociali più o meno definiti: il progresso morale di ogni individuo e di ogni società può svolgersi solo all’interno di un processo storico che dovrà essere direzionato e governato dall’istanza di universabilità, istanza che l’uomo che ha scelto la ragionevolezza può porre: questo l’ulteriore insegnamento della modernità e in particolare dell’Illuminismo. Torniamo così a capire come la natura dell’uomo sia essenzialmente storica.53

Solo l’uomo immorale, allora, può farsi autentico essere morale: se egli non avesse più passioni da combattere “la sua morale non potrebbe esercitarsi”. In una parola, solo il male può esser fondamento del bene. E’ chiara la ripresa della dottrina kantiana del male radicale. L’uomo è – di per sé – soggetto che non può conoscere in modo immediato, entro la dimensione del suo sé empirico, l’universale e il dovere dell’universalità. Egli, attraversando il mondo della violenza e opponendovisi, vorrà e dovrà auto-determinarsi: ha riconosciuto, attraverso la lotta, la necessità – soggettiva – di far prevalere in lui la ragione dal momento che

“l’autodeterminazione dell’individuo […] non si comprende se non come determinazione della ragione alla ragione, contrapposta alla determinazione passiva

52 O a-morale. Possiamo considerare noi “immorale” un tale individuo, solo dal punto di vista della morale pura. In realtà l’individuo che qui si sta descrivendo non conosce ancora cosa significhi “moralità”. Il problema morale non si pone per lui. Il pensiero morale e politico di Thomas Hobbes prenderà le mosse proprio da tale premessa.

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(passione) dell’individuo empirico ad opera dei suoi caratteri empirici. Le volontà empiriche non si determinano, ma sono determinate: mi trovo a desiderare questo, ad abborrire quello; queste volontà appartengono all’ordine dei fatti, non all’ordine della morale, della libertà, della ragione. Su di esse deve agire la ragione che è volontà libera e volontà di libertà.”54

Il peccato dell’uomo, la sua colpa più vera, pertanto, non è affatto quella di essere radicalmente immorale – o a-morale –, al contrario: questa sembra essere condizione indispensabile e preliminare a qualsiasi discorso possibile sulla morale e sul bisogno della morale. La vera colpa dell’uomo – nella prospettiva kantiana – è quella di scegliere il male, la passione irragionevole, la violenza, una volta divenuto consapevole di cosa la ragione prescrive. La morale pura si pone essenzialmente e in primo luogo come morale che deve agire sull’individuo, che deve agire su quell’individuo che si è reso recettivo al “sentimento morale”. Si fa chiaro perché “solo per la ragione, dunque, sorge il problema della liberazione dell’individuo alla libertà-ragione; e solo in rapporto ad essa le volontà empiriche si manifestano come atti non liberi e determinati.”55 L’Io deve trasformare il me,

deve universalizzarlo; ma questa istanza di universalità deve sorgere – e può sorgere soltanto – nell’ambito di quell’essere empirico che vive una realtà: in esso deve sorgere un interesse per l’universabilità dei propri modi di agire, concepire e pensare il mondo, l’uomo. L’istanza di universalità non può non rivolgersi, così, ad ogni me empiricamente esistente. Resta il fatto che la ragione che prescrive l’universalità si contrappone a ogni dato storico, di per sé impuro, poiché considerato dal punto di vista della ragione pura e della pura morale. Una tale contrapposizione tra la legge interiore dell’Io e proprio mondo storico appare allora l’ulteriore problema di fondo. La morale pura non può prescrivere un sistema di leggi positivamente date, abbiamo visto come questa sia una contraddizione in termini. Essa è presa di coscienza del principio di universalità: ma fintanto che tale principio non informerà costantemente il mondo, esso resterà principio relegato alla coscienza individuale di uomini che di fronte al proprio mondo negheranno la possibilità di misurarsi con la violenza, di agire in essa e per mezzo di essa; tutto questo – afferma il soggetto morale – sarebbe in contraddizione con ogni principio che una morale pura prescrive. Si tratta di capire, insomma, se tale morale pura, tale universale vero, possa essere accettato e riconosciuto da una qualsiasi morale storicamente determinata. Tenendo fermo il fatto che per l’uomo che ha colto tale problematicità

54 Eric Weil, Filosofia politica, cit., p.31. 55 Ibidem.

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“la morale pura non può essere confutata ed ogni argomento che venisse impiegato per convincere i suoi seguaci sarebbe per essi inconsistente, poiché ogni obiezione sembrerebbe negare il principio della morale, la pura ragione della pura morale nella pura universalità, poggiando necessariamente su condizioni dedotte, sia da una riflessione sulle conseguenze delle azioni, sia da una riflessione sui dati empirici dell’io che agisce, non sulla pura ragione dell’Io che giudica.”56

Tuttavia, quest’uomo è nel mondo e solo nel mondo storico che egli vive ha potuto scoprire il bisogno di moralità. Il mondo è già presente, violentemente, entro la solitudine di questi uomini che si sono distaccati dalla propria comunità, che l’hanno negata, che hanno scorto le ragioni del loro dire no, che si sono contrapposti al dato impuro, e non universale. L’azione ragionevole, tuttavia, è già prescritta dalla Morale: l’uomo che combatte contro le proprie passioni, che assume il punto di vista della ragione, ha già agito su se stesso. Solo attraverso la riflessione su questo suo agire egli comprende che il fondamento di ogni morale è la possibilità di fondare una società di uomini, secondo l’ideale di una legislazione universale. L’azione che questo individuo compie su di sé, che combatte contro la sua immoralità, ha già informato il mondo. Egli, attraverso questo suo formarsi all’essere morale, riflette su questo suo agire e sugli effetti universali che nel mondo questo suo agire può procurare. Potrà rifiutare di informare la realtà, poiché realtà impura e contraddittoria non già determinata dalle sue massime, potrà scegliere il silenzio e l’abbandono di ogni modalità d’azione sul mondo. Ma nel momento in cui l’obiettivo – per la morale stessa che così viene compresa nel suo significato più intimo – è quello di fondare una società di uomini ragionevoli, di fondare un regno dei fini nel mondo, la speranza della realizzazione della morale non sarà più così lontana e irrealizzabile qui ed ora, in via definitiva. L’uomo si fa consapevole, agendo dapprima su se stesso, che

“anche se la sua preoccupazione esclusiva verte sulla moralità delle massime, tali massime prendono forma solo quando si tratta di agire nel mondo degli uomini; egli può trascurare le conseguenze dei suoi atti, ma non può dimenticare che esistono e che non ha il diritto di volere certe conseguenze, ad esempio quelle che ridurrebbero a

cose gli altri uomini. I risultati reali delle sue decisioni, moralmente trascurabili perché

indipendenti dalla sua volontà, non devono determinarlo nella sua scelta; ma non possono, egualmente, non preoccuparlo poiché la massima stessa è valutata dal punto

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di vista della sue conseguenze, conseguenze per un mondo possibile, è vero, non per il mondo reale, ma pur sempre tali.”57

L’uomo che ha scelto la morale pura, che ha riflettuto sul senso della morale, è uomo storico, uomo che vive nella propria comunità. Ha negato l’universale concreto del proprio contesto sociale. Ha fatto propria una legge interiore che pone il valore universale dell’individuo e in base a questa legge ha criticato il discorso concreto a lui presente. Ma nello stesso momento in cui la stessa morale pura prescrive il dovere dell’agire ragionevole – non soltanto rispetto alle proprie massime, ma anche rispetto alle conseguenze che un’azione non ragionevole potrebbe provocare nel mondo – il soggetto che così agisce si fa soggetto autenticamente politico. Si badi: non è l’attività politica in se stessa a pervenire a tali conclusioni. E’ solo una riflessione sulla politica e sul suo senso, solo una filosofia politica in una parola, che può comprendere cosa la politica sia e cosa essa debba essere, una volta posto il legame non scindibile con la morale pura.

Bisogna sottolineare ancora una volta un ulteriore aspetto, ora posto in questo quadro: i soggetti storici che possono negare l’esser dato delle leggi positive, delle morali delle loro comunità non più riconosciute come vere, buone e giuste pervengono a tale negazione per via violenta, in primis: esprimono delle nuove attitudini, esprimono l’insoddisfazione per una realtà presente che risulta, per la coscienza, essere non più adeguata a un nuovo modo di concepire il mondo e l’uomo. Questi soggetti potranno pervenire all’atto disperato e irruento o al silenzio e alla negazione di ogni ulteriore discorso comune possibile. Si capisce come tale realtà che viene negata non è più in grado di soddisfare bisogni materiali e spirituali di chi la mette in discussione. Ma solo una successiva comprensione della propria situazione presente può condurre a trasformare l’espressione disperata, della propria condizione manchevole, in discorso che vuole farsi coerente e informare il proprio mondo. Comprendere la propria insoddisfazione, comprendere la propria situazione presente, significa, in ultima analisi, scoprire quale nuovo universale – vero – si voglia realizzare. Di tutto ciò ha informato la riflessione sul problema morale, e l’individuo che ora

“vuol vivere moralmente, non soltanto comprendersi e giudicarsi secondo la morale, agirà avendo come obiettivo la realizzazione del fine della morale.” E allora “ogni azione sarà valutata alla luce delle sue massime, le quali, lungi dall’essere soltanto

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conciliabili tra loro, dovranno essere conciliabili con l’idea della progressiva realizzazione del regno dei fini nel mondo.”58

Questi soggetti storici, che ora vogliono realizzare la morale, comprendono anche che la loro comunità, la loro morale particolare e storica conferisce un significato alla loro realtà presente. Vi è un discorso concreto: in caso contrario non avrebbero potuto neppure iniziare a riflettere sulla situazione data. Si tratta di capire, allora, che un sistema di leggi positive è preesistente alla morale pura, come il fatto che assieme alla morale pura coesistono sistemi morali e valoriali differenti. La morale pura non può porsi sullo stesso piano delle morali storiche: essa entrerebbe in lotta con sistemi di massime empiriche, sorte solo arbitrariamente La morale pura, al contempo, però, non può neppure rifiutare di misurarsi con tali morali, dal momento che solo sul loro terreno essa potrà scoprire le condizioni di possibilità della propria realizzazione. Una pura morale non è un sistema di regole positive, essa trascende – una volta che essa sia stata posta come fatto della ragione – ogni sistema empiricamente dato: come allora attuare un reale passaggio all’azione? Una volta che si sia chiarito il fine della Morale, il soggetto morale deve misurarsi con la realtà che gli si pone di fronte. Come? Dobbiamo escludere la scelta del silenzio e del puro allontanamento dal mondo degli uomini: un mondo di uomini davvero tali deve essere, al contrario, fondato. Al contempo, un soggetto che rifiuti la morale esistente in virtù dell’universale vero non può agire in modo puramente violento; esso si contraddirebbe e porrebbe la Morale sullo stesso piano di ogni sistema di regole e di valori particolari e dati che non sanno comprendersi, che conoscono solo la violenza reciproca per la loro univoca affermazione e supremazia. Chi commettesse un tale errore né potrebbe pervenire al superamento reale del discorso presente né potrebbe comprendere quale sia il vero fine dell’azione ragionevole: non comprenderebbe il significato stesso della Morale. Scegliere il silenzio, da un ulteriore punto di vista, significherebbe rinunciare all’azione reale. Chi lo facesse sarà considerato folle dalla propria comunità59; chi sceglie la mera azione violenta, al

contrario, che non può comprendere il vero scopo del suo agire – agire che in realtà rivela un fine di dominio irragionevole e non umano sulla realtà umana – verrà riconosciuto come un puro criminale.

Tuttavia ciò non significa che un soggetto storico non possa opporsi ad un diritto positivo, ispirato da morali positive, che per le ragioni ampiamente analizzate, potrà essere considerato ingiusto: per la Morale, di conseguenza, esiste la possibilità di un diritto alla

58 Op.cit., p.37.

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rivolta, qualora il sentimento della giustizia intesa in senso universale abbia segnato e caratterizzato le coscienze che vivono un mondo, che potranno pervenire alla consapevolezza del problema di cosa sia giusto e di cosa sia ingiusto. Ma tale rivolta contro l’universale concreto della propria comunità dovrà comprendere le ragioni del proprio dire no: in una parola un agire siffatto dovrà essere pervenuto alla comprensione del fine che intende realizzare, quello di una morale pura, per mezzo di un’azione consapevole, che pervenga alla realizzazione di una maggiore giustizia terrena. L’universale vero deve informare il mondo, ma per informarlo l’azione che si intende realizzare deve farsi autentica azione di soggetti politici organizzati, che conoscano cosa la loro comunità presupponga come oggettivo e necessario – che cosa per essa significhi diritto naturale – che sappiano interpretare il senso del diritto positivo esistente, che, in ultima analisi, riescano ad avere successo sul piano della storia e della realtà violenta, a loro presente. Insomma, l’universale vero che si intende affermare deve dimostrare la sua verità, ossia essere riconosciuto significativamente e in modo consapevole dalla comunità e – successivamente – dalla società già esistente. Siamo pervenuti, di fatto, al problema di come poter agire politicamente entro la realtà.60

Prima di affrontare tale problematica, però, dobbiamo considerare e premettere il punto di vista dell’uomo che ha compreso la necessità dell’azione ragionevole e ha colto la possibilità della realizzazione di una morale filosofica. Sarà dunque il filosofo – e non già un qualsiasi governo o una qualsiasi amministrazione esistente e particolare – a capire che

“il diritto positivo può dunque essere ingiusto, e l’uomo morale può conoscere questa ingiustizia e indicare in che cosa consista. Ma la sua azione, nel suo aspetto positivo sarà discorso, e la sua rivolta sarà rifiuto passivo e sacrificio della vita sull’altare della ragione irrisa dalla storia.”61

La Morale, inevitabilmente però “dà origine alla concezione di un diritto universale, di un DIRITTO NATURALE”. E per diritto naturale si intende

“quel diritto a cui il filosofo si sottomette spontaneamente, senza esservi obbligato dal diritto positivo: la sua azione è intesa a contribuire alla realizzazione dell’universale

60 Abbiamo già accennato alla categoria a cui, in tal senso, facciamo riferimento: quella de “L’Azione”, per come essa è esposta nella Logique. Dovremo tornare più avanti su questo punto.

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ragionevole, della ragione universale. Tratterà pertanto da esseri ragionevoli, e quindi da eguali, tutti coloro con cui è in rapporto.”62

Ogni diritto positivo, d’ora in poi, si potrà trovare sottoposto ad una critica sistematica del suo essere: ogni legge e dottrina dovranno esprimere chiaramente e in modo non ambiguo cosa esse intendano per giusto e ingiusto, in primis. Dovranno conformarsi a ciò che la Morale ha sancito e, pertanto, conformarsi al diritto naturale. In altri termini, “l’uomo morale scopre che la legge morale deve informare una legge positiva” dal momento che “la liberazione dell’uomo, di ogni uomo, deve attuarsi nel mondo, se non si vuole che la vita morale resti un sogno.”63 Il piano dell’operare filosofico, pertanto, si attua e si sviluppa solo

entro la violenza e l’immoralità: la filosofia si pone lo scopo di far sì che la violenza di leggi, principi, dottrine, modi di essere venga superata in funzione di quella Morale che può rendere discorso coerente un qualsiasi discorso esistente. Ricerca del senso del proprio agire, del proprio dialogare, del proprio pensare sembra l’istanza che resta sottesa a ciò che ha posto la pura morale. Il filosofo che così ricerca la ragionevolezza sta già ricercando la saggezza, essendo pienamente consapevole che saggio non è e che probabilmente mai lo potrà essere, in via definitiva. La saggezza, la possibilità di comprendere la propria realtà e comprendersi in essa per purificarla dal dato empirico e renderla criticabile secondo leggi di una ragione pura – di una morale pura – resta possibilità da ricercare costantemente: da ricercare entro un mondo violento che conserva pur sempre la tragica eventualità della sua completa insensatezza, rispetto alle esigenze e ai bisogni dell’uomo che vuole farsi ragionevole, che vuole vivere entro un mondo di uomini.64 E’ necessario, allora, superare la

violenza, ma per farlo bisogna dapprima comprenderla in tutte le sue forme possibili. Abbiamo scoperto anche che comprendere la violenza, nella sua forma pura, è possibile soltanto grazie alla strutturazione del discorso coerente, legittimabile e possibile solo a partire da realtà concrete che un discorso vanno pur sempre fondando. Abbiamo appreso,

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