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L’avvento della modernità La nostra situazione

Si faccia, però, attenzione su un punto: qui non si sta agognando una sorta di ritorno nostalgico al mondo antico, al contrario. Le vicissitudini storiche che portarono alla nascita della nozione di soggetto, in primis grazie all’affermazione del cristianesimo, furono il segno della necessità di ripensare il mondo alla luce delle successive rivoluzioni scientifiche che posero fine all’idea di un cosmo teologicamente – e teleologicamente – ordinato, situato al centro dell’universo. Se esisteva, per il mondo classico, un ordine cosmologico e ontologicamente fondato, una Legge di natura, natura razionale, l’epoca medievale, in seguito, avrebbe trasceso tale Legge, avrebbe affidato a una Provvidenza il compito di fondare la Ragion d’Essere stessa del Mondo, dunque, di offrire all’umanità un fine in un Aldilà.

Il punto fondamentale è questo: per il mondo classico, primariamente, era necessario disvelare la Verità del mondo, Verità cosmologica che dunque si poteva trovare nel reale, a prescindere dall’individuo che la poteva o meno esperire. In realtà, era solo il saggio, il filosofo che avrebbe potuto accedere alla contemplazione della Verità trovata, nella sua visione totale. Non è un caso che per Aristotele l’attività che conduce alla felicità massima non sarà la politica, in via definitiva, bensì la contemplazione della Verità, finalmente scoperta, disvelata. Il contemplare del filosofo, del saggio, indica la concezione stessa che il mondo antico aveva del sistema cosmologico concepito: l’uomo non è, per Aristotele soprattutto, al centro del mondo. Egli fa parte di un universo ordinato che conserva una propria teleologia a prescindere dalle necessità dell’uomo stesso. L’umanità è una parte costituente del mondo, essa agisce ma agisce per comprendere e farsi consapevole di quale armonia sia intrinsecamente partecipe: l’uomo è spectator mundi. D’altronde, a questa Verità assoluta potrà pervenire solo il filosofo: colui che sa e vedrà il Tutto che E’. Non a caso è da questo presupposto che si sviluppa la concezione della scienza aristotelica, prima esposta: la scienza deve sempre giustificarsi di fronte al senso dell’Essere, senso anche dell’uomo:

“La differenza essenziale tra scienza moderna e scienza antica è la differenza tra ricerca di un sistema di condizioni (verificabili mediante intervento e quindi in rapporto con l’azione umana) e ricerca dell’incondizionato. Su un altro piano, questo fatto è espresso dalla differenza tra scienza che esclude ogni idea di valore («oggettiva», «wertfrei») – i valori che sollecitano l’uomo di scienza non possono che essere osservati

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empiricamente e a cosa fatte – e scienza come immediata comprensione del valore esistente, dell’Essere.”90

Ricerca dell’incondizionato, della Verità quella Verità che si dovrà realizzare nelle opinioni, nei linguaggi, nei valori dati: da questo punto di vista, la prospettiva del filosofo è prospettiva sul Tutto, per la Verità che non può esaurirsi solo nella prospettiva dell’uomo comune. Da un lato, dunque, l’istanza pratica della filosofia, dall’altro la difficoltà della filosofia a giustificarsi di fronte alla Città: si tratta della difficoltà di realizzare un costante pensiero critico, in vista del senso, sul mondo dei fatti, nel mondo dei fatti:

“[…] la comunità come valore stabilisce i suoi valori e tali valori sono compresi; ma il limite tra ciò che il concetto significa in una situazione data, storica, e la dimensione propriamente filosofica che il concetto configura e investe, e che nega e trascende il dato, quel limite è assai difficile da cogliere e superare. E’ questo il piano di una dialettica che si fa e si vuole filosofia […].”91

Tale condizione si ripete, si ripete in ogni luogo e in ogni epoca in cui vi è filosofia e non solo opinione. E’ per questo che:

“[…] essendo filosofia […] è sempre stata costretta a volgersi verso il discorso – discorso essenzialmente ironico, anche là dove fa di tutto per non apparire tale: non è il discorso che importa, e lui lo sa, e sa anche che ciò che gli importa non può dirlo, e che lo falserebbe e lo tradirebbe se tentasse di dirlo invece di indicarlo parlando del contrario e facendo come se prendesse questo contrario sul serio per fare esplodere l’insufficienza e il non-senso di questo contrario e per spingere l’uomo sulla via che lo conduca alla ragione, alla presenza, al contento.”92

Per Aristotele, in ultima analisi, “l’uomo in quanto individuo concreto non è per sé. L’individualità esiste, ma essa è solo per il saggio, non per se stessa.”93

Le filosofie medievali, in seguito, ricompresero tali dottrine concependo un universo ordinato, da contemplare nella sua Verità trovata e garantita da un Dio trascendente. In tal senso, la modernità si configurerà come perdita di questa certezza universale di un Dio ordinatore e provvidenziale, perdita del concetto di un Cosmo teologicamente ordinato secondo un fine supremo, perdita della concezione ontologica, che potesse fondare la Verità

90 Eric Weil, La logica nel pensiero aristotelico in Filosofia e politica, cit.,p.72.

91 Livio Sichirollo, Aristotele – Antropologia Logica Metafisica in Filosofia e violenza. Introduzione a Eric Weil, cit.,p.107.

92 Eric Weil, Logica della Filosofia, cit. p.21.

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dell’esistente. L’uomo rimarrà privo di questa certezza: non avrà null’altro da comprendere se non il suo stesso modo di essere e di conoscere la realtà; dovrà a sua volta ricomprendere l’idea di Dio, di anima, di Mondo, accettare il fatto che sarà solo grazie alla sua attività che lui, lui per se stesso, potrà fondare la possibilità di un senso, in virtù delle sue facoltà razionali di cui si farà cosciente entro la sua Storia.

Una volta che il vero valore dell’esistenza è andato dissolvendosi, poiché la stessa scienza disvelò l’impossibilità di pervenire all’incondizionato, l’impossibilità di concepire un fine del Tutto esistente, crollò l’idea che fosse possibile disvelare una Verità sussistente a prescindere dall’attività dell’individuo stesso. Il fatto esperito inevitabilmente si slegò dal valore, poiché il vero valore non esisteva più in alcun luogo. Si trattava, così, di reagire: reagire alle insufficienze di una teologia che presupponeva l’esistenza dell’incondizionato fuori dal mondo, reagire alla mancanza di un senso oggettivo dell’Universo. Non essendovi più alcuna possibilità di credere legittimamente – cioè razionalmente – in un Cosmo gerarchicamente e finalisticamente concepito, si trattava di porre un principio attivo che potesse fondare la possibilità della ragione e del senso nel mondo. Non vi era più nulla da contemplare e, di conseguenza, da classificare e riordinare semplicemente. La realtà che stava innanzi ad un contesto perse il suo valore di verità. Essa si ridusse a fatto, fatto privo di valore: ora la realtà stava di fronte a un individuo che non avrebbe avuto più la sua Città, né in Terra né in Cielo; individuo che, però, poteva ancora conoscere i fatti, attribuirgli dei significati, ripartire, non a caso, dall’analisi formale del fatto, dall’analisi del suo stesso modo di conoscere, che solo egli avrebbe potuto fondare e rendere significante in un mondo. Era necessario, pertanto, ripartire da ciò che rimaneva: dal discorso senza l’Essere, dall’uomo senza più condizioni di senso universali e riconoscibili per il suo agire, da una realtà che non offriva più una meta oggettiva da raggiungere,94 perché non più garantita da un principio

che si situasse oltre la condizione.

E’ necessario, in ultima analisi, capire come si sia pervenuti alla nozione stessa di soggetto, come si possa continuare a ricercare un senso del proprio esistere, del proprio agire, del

94 Pertanto, sorge la domanda – dunque l’interesse a una risposta – al quesito: “«Come orientarsi nel mondo?»”. Questa domanda infatti “sembra chiedere quale sia il criterio secondo il quale orientarsi nella prassi, cioè nell’agire morale. La domanda è pertinente, ed attuale, dopo che quasi un secolo di epistemologia weberiana e logico-analitica hanno escluso la possibilità di un sapere capace di orientare nella prassi, di indicare dei valori, di fornire delle prescrizioni, affermando l’«avalutatività» (Wertfreiheit) del sapere propriamente detto (scienza) e l’illiceità logica del passaggio dal piano della conoscenza, o descrizione, a quello della normatività, o prescrizione.” Si risveglia così la necessità di una “autentica «filosofia pratica», cioè di un sapere capace non solo di descrivere e di spiegare, ma anche di valutare e di prescrivere, cioè di orientare la prassi.” Enrico Berti, Il concetto aristotelico di «ragione pratica» in Prassi. Come orientarsi nel mondo, cit., p.77.

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proprio conoscere, del proprio parlare: è solo a partire da tale nozione che si potranno comprendere due opere fondamentali della modernità e del pensiero occidentale, opere che Weil tenne ben presente nel corso dello sviluppo del suo pensiero e che fece, intelligentemente e indirettamente, dialogare tra loro: “La Critica della capacità di giudizio” e la “Fenomenologia dello Spirito”.95 Solo dal loro confronto si potrà comprendere come pervenire

a nuove e legittime filosofie del senso.

95 Traduciamo qui l’opera di Kant Kritik der Urteilskraft con il titolo italiano Critica della capacità di giudizio, come traduce per primo Leonardo Amoroso. Cfr. Immanuel Kant, Kritik der Urteilskraft, Königsberg 1790, tr.it. di Leonardo Amoroso, Critica della capacità di giudizio, Rizzoli, Bari 1995. Il termine tedesco kraft viene tradotto, invece, con la parola italiana “facoltà” da Emilio Garroni. Cfr. la tr. it. Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 2011. Ricordiamo anche la posizione di Massimo Marassi, che parlerà di “forza” di giudizio. Cfr la tr.it. Critica del Giudizio, Bompiani, Milano 2004. La tradizione traduce il titolo dell’opera in questione con

Critica del giudizio. Noi preferiamo indicare anche la traduzione del termine kraft con il termine italiano

“capacità”; si vedrà, nel corso del secondo capitolo, perché la traduzione di Leonardo Amoroso ci sembra la più corretta e la più calzante.

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Capitolo secondo

Il dialogo fra la

Critica della capacità di giudizio e la

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