Fino ad ora abbiamo ragionato sulla fattispecie delineata dalla Corte costituzionale, ritenendo che il sostegno a mezzo di trattamenti vitali sia un requisito di ammissibilità essenziale del suicidio assistito. Inoltre, ci siamo confrontati esclusivamente con l’art. 580 c.p., il reato contestato a Marco Cappato: è stato infatti Fabiano Antoniani a darsi la morte attivando il meccanismo dell’iniezione letale con l’unica parte del corpo che riusciva ancora a muovere, la bocca. Ci siamo insomma strettamente attenuti al dettato dell’ordinanza n. 207. Dobbiamo ora riprendere l’interrogativo postoci all’inizio, e cioè se il legislatore possa intraprendere passi ulteriori.
Un primo problema potrebbe porsi quando il paziente presenta tutti i requisiti menzionati dall’ordinanza n. 207, ma non può darsi la morte da solo perché totalmente paralizzato. In questo caso, quella morte rapida «corrispondente alla propria visione della dignità nel morire» di cui parla la Corte dovrebbe essere cagionata da un terzo e di conseguenza non sarebbe più configurabile l’art. 580 c.p., ma l’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.). Anche in questo caso andrebbe esclusa la punibilità? Si potrebbe rispondere di no osservando che l’art. 579 c.p. stigmatizza una condotta più grave dell’art. 580 c.p., quella di chi assume su di sé la responsabilità di cagionare la morte di un terzo, e quindi non merita il trattamento di favore previsto per il suicidio assistito. D’altro canto, ciò porrebbe problemi di compatibilità con l’art. 3 Cost., perché la differenza tra l’impunità del fatto e la reclusione da 6 a 15 anni sarebbe esclusivamente incentrata sulla condizione personale del malato. Infatti, il malato che è in grado di attivare il meccanismo di iniezione letale potrebbe esercitare il suo diritto alla sospensione dei trattamenti vitali anche quando il processo di morte non fosse rapido, grazie alla via strumentale del suicidio assistito; invece, sarebbe preclusa la via strumentale dell’omicidio del consenziente e quindi il malato totalmente paralizzato non godrebbe pienamente dello stesso diritto per la sola ragione di trovarsi in una condizione particolarmente sfortunata.
Un secondo problema, che investe un numero di casi di gran lunga più frequente, riguarda il paziente affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che trova assolutamente intollerabili, capace di prendere decisioni libere e consapevoli ma non tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale: è il caso, già citato, di Davide Trentini, al momento sub iudice presso il Tribunale di Massa.
68 Torniamo così alla questione del fondamento del suicidio assistito. Se quest’ultimo va considerato uno strumento per garantire nella sua pienezza il diritto all’autodeterminazione terapeutica, il requisito della dipendenza dai trattamenti salvavita sarebbe un elemento essenziale dello spazio di liceità che la Corte sottrae all’altrimenti pervasivo divieto di assistenza al suicidio, a sua volta espressione del dovere dello Stato di tutelare la vita ai sensi dell’art. 2 Cost. In questa prospettiva, i presupposti della malattia irreversibile e delle sofferenze, che di solito non incidono sul diritto all’autodeterminazione terapeutica – si pensi alla donna che rifiuta di farsi tagliare la gamba in cancrena –, si potrebbero spiegare nell’ottica di circoscrivere il più possibile una forma di rinuncia alle cure che, diversamente dal solito, necessita di un terzo che agevoli la morte, e non la lasci semplicemente accadere. La Corte avrebbe così stabilito non solo un contenuto minimo, ma anche un limite massimo alla discrezionalità del Parlamento, al quale sarebbe precluso introdurre forme lecite di suicidio assistito per chi si trova nelle condizioni di Davide Trentini.
Esiste però un’altra possibilità, e cioè che il suicidio assistito sia espressione del diritto o della libertà di morire per evitare sofferenze, al momento solo abbozzati, e che l’ordinanza n. 207 non abbia inteso individuare una volta per tutte il novero delle eccezioni al dovere di tutelare la vita, ma solo circoscrivere il più possibile la fattispecie in vista di un’eventuale inerzia del legislatore.
Nel Gruppo sono emerse posizioni differenti, ma a mio avviso la Corte potrebbe risolvere il caso Cappato dichiarando incostituzionale l’art. 580 c.p. laddove incrimina l’aiuto al suicidio a favore di chi si trova nelle condizioni di Fabiano Antoniani; un precedente in tal senso potrebbe ritrovarsi nella celebre sentenza n. 27/1975, che ritagliò dal divieto generalizzato di aborto di donna consenziente l’ipotesi della gravidanza dannosa o gravemente pericolosa per la salute della madre (per inciso senza previamente concedere al legislatore la possibilità di regolare la materia).
Va detto che i progetti di riforma presentati in Parlamento vanno al di là di quanto espressamente chiesto dall’ordinanza n. 207 perché prescindono dal requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale.
Il DDL Marcucci interviene sul solo art. 580 c.p. e richiede quali presupposti di liceità la maggiore età, la capacità di intendere e di volere, «una patologia inguaribile o degenerativa, fisicamente totalmente invalidante, anche non terminale», oppure una disabilità irreversibile, anche non terminale, connotate da sofferenze fisiche o psichiche costanti, refrattarie ai trattamenti sanitari. Per un errore di coordinamento, che sicuramente non corrisponde all’intentio legislatoris ma non mi pare sanabile in via interpretativa, diverrebbe lecito anche l’aiuto al suicidio di una persona affetta da una «patologia dolorosa cronica da moderata a severa». Si tratta di una disciplina insoddisfacente perché si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio senza preoccuparsi di istituire una procedura di verifica delle condizioni richieste, tra l’altro non particolarmente stringenti (la capacità di intendere e di volere non comporta anche che la scelta
69 sia libera e ponderata). Tra l’altro, la causa di non punibilità (così la rubrica dell’art. 4) sarebbe destinata a chiunque, e non solo ai medici.
Il DDL Mantero, il DDL Cecconi e il DDL Senato n. 900, Cerno e Pittella, dispongono invece che gli articoli 575, 579, 580 e 593 c.p. non si applicano ai medici e al personale sanitario che abbiano preso parte a un trattamento eutanasico, consistente nella somministrazione da parte del personale medico di farmaci aventi lo scopo di provocare, con il consenso del paziente, la sua morte immediata e indolore. Nel DDL Mantero si deve trattare di paziente maggiorenne, che abbia espresso una valida richiesta, che non si trovi in stato neppure temporaneo di incapacità di intendere e di volere, che sia affetto da una patologia caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta o affetto da sofferenze fisiche o psichiche insostenibili e irreversibili (si noti che i due requisiti sembrano alternativi, diversamente da quanto previsto nell’ordinanza n. 207), che sia stato adeguatamente informato sulle alternative terapeutiche e sulle cure palliative. I requisiti posti dal DDL Cecconi e dal DDL Cerno e Pittella sono simili, ma si precisa che dev’essere una malattia inguaribile o con prognosi infausta inferiore a diciotto mesi a provocare gravi sofferenze e si inserisce nella procedura un momento di dialogo con i parenti del paziente, se egli lo desidera.
Ci troviamo pertanto di fronte a proposte di riforma che renderebbero lecito non solo il suicidio assistito, ma anche l’omicidio pietatis causa; si potrebbe perfino prescindere dall’attualità del consenso del paziente, il quale potrebbe esprimere una richiesta anticipata di trattamento eutanasico, accompagnata dalla nomina di un fiduciario, per i casi di successiva incapacità di manifestare la propria volontà.
Si aprono scenari da valutare con grande cautela. Qualcuno avrà motivo di vedere una conferma dello slippery slope, del pendio scivoloso che inevitabilmente si imbocca nel momento in cui si rinuncia al principio dell’inviolabilità della vita: il principio di autodeterminazione terapeutica ha portato alla rinuncia di cure salvavita, e attraverso il caso Antoniani al suicidio assistito in casi particolari; il suicidio assistito fa balenare un diritto o una libertà a morire per evitare sofferenze, il quale potrebbe sfociare nell’omicidio pietatis causa del paziente non attualmente consenziente.
Altri insisteranno sulla differenza tra suicidio assistito e trattamento eutanasico, ritenendo accettabile il primo e non il secondo perché il paziente mantiene fino all’ultimo il dominio sulla propria vita e non addossa su un terzo la responsabilità di ucciderlo. A ciò si potrebbe ribattere che ciò andrebbe a discriminare chi non è in grado di darsi la morte perché totalmente paralizzato. Ma se bisogna considerare le condizioni fisiche del malato dovremmo negare il suicidio assistito a chi può farla finita da solo, ad esempio buttandosi dal balcone come diceva Davide Trentini? In definitiva, si deve riconoscere maggior peso alla prospettiva del paziente sofferente, e quindi a un diritto o a una libertà di coinvolgere terze persone nella scelta più personale possibile, quella di porre fine alla propria vita? Oppure alla prospettiva di non intaccare
70 ulteriormente il principio secondo cui, al di fuori degli art. 52 ss. c.p., le relazioni interpersonali non devono sfociare in comportamenti che agevolano o addirittura cagionano la morte altrui?
La complessità e la delicatezza di questi interrogativi richiedono probabilmente un tempo di riflessione maggiore dei pochi mesi che si separano dal 24 settembre 2019, la data fissata nell’ordinanza n.
207. Ciò potrebbe suggerire di escludere, almeno per il momento, l’omicidio pietatis causa dalle prospettive di riforma e di concentrarsi sul suicidio assistito, che costituisce il fulcro dell’ordinanza n. 207.