Il consenso informato in ambito medico costituisce da tempo il perno centrale della relazione medico-paziente, capace di assolvere ad una «funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative” (Corte cost.
438/2008). Questa centralità presenta precisi referenti costituzionali (artt. 2, 13, 32 Cost.) ed è stata valorizzata in primis dalla giurisprudenza, che considera il consenso come condizione di liceità dell’intervento medico (giurisprudenza costante: v. Cass., sez. VI, 14 febbraio 2006, n. 11640, Caneschi), e, più recentemente, è stata recepita dal legislatore nella L. 22 dicembre 2017, n. 219, intitolata appunto “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” il cui art. 1 stabilisce che «la presente legge, nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all'autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi
33 Stefano Canestrari, Luciano Eusebi, Antonio Vallini e Sergio Bonini aderiscono espressamente ai contenuti di questa relazione
108 espressamente previsti dalla legge». Il consenso diventa elemento imprescindibile all’interno della relazione di cura e fiducia tra medico e paziente (v. art.1, comma 2 della stessa legge).
Il legislatore, pur valorizzando il consenso informato, la cui assenza impedisce al medico di iniziare o proseguire un trattamento sanitario, non ha disciplinato i casi, che pur si sono presentati nella prassi applicativa, dell’intervento medico arbitrario, ossia praticato in assenza o contro la volontà del paziente.
Dottrina e giurisprudenza hanno proposto una pluralità di soluzioni, dalla più severa (omicidio preterintenzionale) alla meno severa (irrilevanza penale del fatto), per passare a soluzioni che potrebbero essere considerate “mediane” quanto ad effetti sul piano sanzionatorio (art. 610 c.p. ed eventuale applicazione dell’art. 586 c.p.). I diversi inquadramenti giuridici riflettono anche la diversità delle questioni concrete che si possono porre nella prassi.
La questione centrale e dirimente ai fini di qualsiasi opzione di riforma legislativa, è chiedersi se l’intervento arbitrario del medico sia meritevole di assumere rilevanza penale già in quanto violazione della sfera di libertà della persona rispetto a qualsiasi ingerenza non autorizzata o se debba rilevare solo qualora produca un’offesa all’incolumità fisica. Questo profilo è dirimente rispetto alle scelte di inquadramento giuridico ed è, quindi, di fondamentale importanza in prospettiva di riforma.
Alla luce delle soluzioni emerse in dottrina e giurisprudenza, è possibile tracciare alcune coordinate di fondo, distinguendo:
a) intervento medico senza la volontà del paziente;
b) intervento medico in caso di dissenso del paziente;
c) intervento medico in caso di consenso ritenuto valido;
d) intervento medico a fine non terapeutico.
a) Trattamento medico in assenza di consenso.
Si tratta delle situazioni che trovano prevalente riscontro nella prassi applicativa e che spesso nascono da una valutazione del medico in corso di intervento con un trattamento diverso da quello inizialmente prospettato e autorizzato dal paziente.
Escluso l’inquadramento giuridico originariamente avanzato (caso Massimo: Cass., sez. V, 21 aprile 1992, n. 5639) delle lesioni dolose e, in caso di morte del paziente, dell’omicidio preterintenzionale, le soluzioni prospettabili si muovono su due possibili fronti.
Il primo, espresso da ultimo dalle Sezioni Unite (Cass., sez. un., 18 dicembre 2008, 21 gennaio 2009, n.
2437), esclude la rilevanza penale della condotta del medico intervenuto in assenza di consenso, laddove non vi sia stato l’esito infausto dell’intervento, ossia quanto l’intervento non abbia cagionato una malattia (quest’ultima, tra l’altro, considerata dalle Sezioni unite sulla base di criteri oggettivi e tenendo conto di una nozione di malattia quale alterazione funzionale dell’organismo, più ristretta, dunque, rispetto a quella di
109 alterazione anatomica proposta in passato dalla giurisprudenza). Questo inquadramento giuridico della condotta del medico è l’effetto della prevalenza del bene “incolumità fisica” rispetto alla “libertà di autodeterminazione” del paziente. Eventuali profili di responsabilità penale potranno essere semmai apprezzati in presenza di una colpa professionale per violazione delle leges artis, tra le quali la giurisprudenza e la prevalente dottrina non includono mai l’acquisizione del consenso, a meno che la mancata sollecitazione dello stesso «abbia impedito di acquisire la necessaria conoscenza delle condizioni del paziente medesimo»
(Cass., sez. un., 18 dicembre 2008-21 gennaio 2009, n. 2437).
Se, invece, si facesse prevalere nell’intervento medico arbitrario l’offesa alla libertà di autodeterminazione del paziente, il fatto andrebbe inquadrato nel delitto di violenza privata (art. 610 c.p.), con applicazione, in casi di morte o lesioni personali, dell’art. 586 c.p., sempre che si accertino elementi di colpa.
b) Intervento medico in caso di dissenso del paziente
In quest’ipotesi, la giurisprudenza è giunta alla conclusione che «l’agire del chirurgo sulla persona del paziente contro la volontà di costui, salvo l’imminente pericolo di morte o di danno sicuramente irreparabile ad esso vicino, non altrimenti superabile, esita in una condotta illecita capace di configurare più fattispecie di reato, quali violenza privata (art. 610 c.p., la violenza essendo insita nella violazione della contraria volontà), lesione personale dolosa (art. 582 c.p.) e, nel caso di morte, omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.)»; dunque «il medico chirurgo non può manomettere l'integrità fisica del paziente, salvo pericolo di vita o di altro danno irreparabile altrimenti non ovviabile, quando questi abbia espresso dissenso» (Cass., sez. IV, 27 marzo 2001, n. 36519, Cicarelli, e nello stesso senso le Sezioni unite del 2008).
c) Intervento medico con consenso ritenuto valido
Possono sussistere elementi di colpa in capo la medico proprio in relazione alla corretta acquisizione del consenso: la Cassazione afferma che «il criterio di imputazione dovrà essere …. di carattere colposo … qualora il sanitario, in assenza di valido consenso dell’ammalato, abbia effettuato l'intervento terapeutico nella convinzione, per negligenza o imprudenza a lui imputabile, della esistenza del consenso» (Cass., sez. IV, 11 luglio 2001, n. 35822, Firenzani).
d) Intervento medico a fini non terapeutici
Si può, infine prospettare un ultimo caso, quello dell’intervento medico privo di finalità terapeutiche (es.
carattere puramente sperimentale; finalità esclusivamente economiche): la liceità dell’atto medico è, infatti, condizionata al carattere terapeutico dell’atto. In tal caso, l’intervento sul paziente integra il delitto di violenza privata (art. 610 c.p.), se non seguono eventi infausti, o i delitti di lesioni personali o, in caso di morte
110 del paziente, di omicidio preterintenzionale o doloso, a seconda della specifica componente soggettiva in concreto presente.