• Non ci sono risultati.

L’applicazione del Diritto Umanitario Internazionale

Il mondo non è più diviso dalle tradizionali barriere ideologiche e tutta-via le minacce contro la pace non si sono estinte. Esse si sono fatte più capil-lari e diffuse richiedendo forme nuove di concentrazione e di esercizio del potere internazionale. Si dovrà considerare superato il vecchio principio westfaliano della non ingerenza nella giurisdizione interna degli Stati nazio-nali. Bisognerà esercitare e legittimare un diritto-dovere di ‘ingerenza uma-nitaria’ nei casi in cui si renderà necessario intervenire per risolvere crisi interne a singoli Stati, in modo particolare per prevenire o reprimere gravi violazioni dei diritti dell’uomo.

Fin dagli anni Sessanta del passato secolo varie associazioni internazio-nali avevano sostenuto il principio dell’’ingerenza umanitaria’ come diritto di intervento della comunità internazionale entro i confini di uno Stato per accertare un’eventuale violazione dei diritti dell’uomo e per portare soccor-so alle popolazioni colpite.

Nel corso degli anni Novanta del Novecento l’idea dell’’ingerenza uma-nitaria’ si è progressivamente affermata nella prassi internazionale. In paral-lelo, ha preso corpo in Occidente la tendenza a sostituire, anche terminologi-camente, il ‘Diritto Internazionale Umanitario’ al ‘Diritto Internazionale di Guerra’. Quest’ultimo considerato il risultato del lungo processo di adatta-mento e di secolarizzazione dei principi etico-religiosi della dottrina del bel -lum justum elaborata dalla teologia cattolica. Si è sostenuto in particolare che

il nuovo Diritto Internazionale Umanitario legittimava in varie forme (misu-re di caratte(misu-re economico - embargo -, interventi di peace-enforcing,

giurisdi-zioni penali internazionali) l’ingerenza tale che la sovranità degli Stati subis-se deroghe resubis-se necessarie dal dovere di protezione internazionale dei diritti dell’uomo.

L’assunto di base è che la tutela internazionale dei diritti dell’uomo deve considerarsi un princìpio di carattere prioritario rispetto alla sovranità degli Stati. La sovranità di uno Stato non può essere considerata una prerogativa assoluta e illimitata, tanto più nel contesto di una società planetaria che i pro-cessi di integrazione rendono sempre più coesa e carica di interdipendenze funzionali. Quando un governo calpesta i diritti fondamentali dei suoi citta-dini o commette crimini contro l’umanità, la comunità internazionale ha l’ob-bligo e il diritto di intervenire. Il mantenimento dell’ordine internazionale esige che a tutti gli Stati venga imposto un livello minimo di rispetto dei dirit-ti dell’uomo. Le sanzioni devono essere previste a carico degli Stadirit-ti che si

ren-dano responsabili di persecuzioni delle minoranze religiose, razziali o etni-che, di crimini di guerra, di assassinii o stupri di massa, di veri e propri geno-cidi.

La prassi dell’intervento umanitario si è ampiamente affermata nell’ulti-mo decennio del secolo scorso ad opera delle potenze occidentali e per impulso soprattutto degli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Questi due paesi hanno imposto, a conclusione della guerra del Golfo (1991) ed attraverso le Nazioni Unite, la limitazione della sovranità dell’Iraq, definendo entro il suo territorio, e progressivamente allargandole con decisioni unilaterali, no flying zones a protezione della minoranza kurda a nord e sciita a sud. Sono seguiti

gli interventi in Somalia e in Ruanda e, poi, l’imponente attività militare della N.A.T.O. nei territori dell’ex Jugoslavia nel corso della guerra bosniaca (1993-95) e soprattutto della guerra per il Kosovo (1999). Quest’ultimo evento bel-lico ha definitivamente consacrato la prassi dell’interventismo umanitario, assumendo nel modo più esplicito la motivazione umanitaria come justa causa belli. In questo caso si è ritenuto che l’uso della forza internazionale per

motivazioni umanitarie fosse legittima non soltanto in opposizione al princi-pio di non ingerenza nella giurisdizione interna di uno Stato sovrano, ma anche in contrasto con la Carta delle Nazioni Unite e del Diritto Inter-nazionale generale. Nel frattempo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva creato ad hoc un Tribunale penale internazionale per l’ex

Yu-goslavia. Le massime istituzioni internazionali, a cominciare dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e dal suo Segretariato generale, hanno asse-condato la svolta umanitaria senza sollevare obiezioni di principio. È stato lo stesso Segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan a dichiarare ufficialmente che l’intervento umanitario può prescindere, in caso di abusi sistematici e massicci dei diritti umani, dal principio del rispetto della sovranità degli Stati e della non ingerenza nelle loro questioni interne. Comunque, la tesi sedo la quale la finalità della protezione dei diritti dell’uomo è ormai una con-suetudine internazionale che giustifica l’uso internazionale della forza non è condivisa da tutti. Non lo è sia nel caso che l’uso della forza sia stato rizzato dalle istituzioni internazionali, sia, e tanto più, se non sia stato auto-rizzato, ciò che è avvenuto nella guerra che nel 1999 la N.A.T.O. ha condotto contro la Repubblica Federale Jugoslava. In questo caso la motivazione uma-nitaria è stata invocata come ragione sufficiente di legittimazione etica e giu-ridica dell’uso della forza anche al di fuori delle ipotesi tassativamente pre-viste dalla Carta delle Nazioni Unite e consentite dal Diritto internazionale generale.

Sull’inquadramento storiografico delle recenti guerre contro Afghanistan e Iraq, sulle loro cause, sulla unilateralità dell’attacco e sulla gestione della pace, il giudizio va sospeso in attesa che la cronaca politica trovi le condizio-ni, ed il tempo, per divenire storia. Frattanto può essere espresso solo un

giu-dizio, fortemente negativo, nel caso fosse documentato o dichiarato l’uso bel-lico di scorie radioattive, comunemente note come uranio impoverito o DU. La Carta delle Nazioni Unite impone ai suoi membri di astenersi dalla minaccia e dall’uso della forza contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di qualsiasi Stato (art. 2.4). È prevista una sola eccezione generale: la forza può essere usata se il Consiglio di Sicurezza, accertata l’esistenza di una minaccia contro la pace o di un atto di aggressione, decide che sia necessario, sotto la sua direzione e il suo controllo, fare ricorso alla forza per ristabilire la sicurezza internazionale. A questa eccezione generale si aggiunge un’altra ipotesi specifica: quella del diritto di ‘legittima difesa’ da parte di uno Stato che venga aggredito da un altro Stato o da un gruppo di Stati.

Alcuni autori escludono l’esistenza di una norma consuetudinaria che in deroga alla Carta della Nazioni Unite e al Diritto Internazionale conferisca al Consiglio di Sicurezza il potere di autorizzare l’uso della forza in situazioni di emergenza umanitaria. Una norma consuetudinaria di questo tipo dovreb-be emergere dalla prassi uniforme degli Stati e dal generale convincimento che si tratti di una prassi legale. La prassi, però, non è uniforme se, ad esem-pio, si considera che in Somalia si è fatto ricorso all’intervento armato, men-tre in Cecenia si è ritenuto sufficiente lo strumento diplomatico; in altri casi ancora, come per le azioni violente contro la minoranza kurda da parte della Turchia, non vi è stata alcuna reazione della comunità internazionale. Il con-senso dello Stato che ne beneficia è richiesto, come noto, anche per le opera-zioni di peace-keeping, alle quali gli ‘interventi umanitari’ sono stati talora

ambiguamente assimilati come in Bosnia-Erzegovina. Si può aggiungere che secondo la Corte Internazionale di Giustizia il divieto dell’uso della forza fa parte del Diritto Internazionale consuetudinario e le violazioni dei diritti umani non giustificano l’intervento armato di Stati stranieri per porvi fine.

Per quanto riguarda l’ipotesi della legittimità dell’uso della forza per ragioni umanitarie anche senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, la tesi favorevole è stata autorevolmente sostenuta in relazione alla guerra per il Kosovo. La vicenda della guerra per il Kosovo è stata la prova che si sta creando una nuova legittimazione nel Diritto Internazionale dell’uso della forza. Entro la comunità internazionale sarebbe in atto una tendenza norma-tiva a considerare legittimo l’uso della forza, anche senza un preventivo mandato del Consiglio di Sicurezza, quando si tratti di porre fine a gravi vio-lazioni dei diritti umani. Adottando questo punto di vista si può ritenere che l’intervento militare della N.A.T.O. sia stato perfettamente legittimo sul piano giuridico oltre che su quello etico-umanitario. In questo contesto il compito del giurista non è di opporsi in via di principio alla tendenza uma-nitaria in atto, ma quello di sforzarsi di precisare le condizioni perché essa dia luogo ad un regime giuridico internazionale che preveda una nuova

ipo-tesi di uso legittimo della forza e la sottoponga a regole generali. La vicenda del Kosovo e la sua razionalizzazione nell’ambito della giustificazione del-l’intervento mettono in risalto la situazione di novità dell’elaborazione dot-trinale provando che, prima dell’intervento della N.A.T.O., non era in corso nella comunità internazionale alcuna tendenza consuetudinaria a legittimare l’uso della forza per ragioni umanitarie senza il mandato del Consiglio di Sicurezza. Sembra, anche, che non siano emersi successivamente elementi di fatto che consentano di affermare che l’intervento umanitario della N.A.T.O. abbia avuto come indiretto effetto normativo di dare avvio ad una consuetu-dine internazionale. Se si può parlare di una tendenza oggi in atto, essa sem-bra andare verso l’abbandono definitivo del monopolio dell’uso legittimo della forza da parte delle Nazioni Unite e verso l’uso diretto della forza mili-tare da parte di gruppi di Stati o di singoli Stati a tutela di interessi collettivi, ovviamente secondo l’interpretazione data da ciascuno Stato a questi inte-ressi. Si tratta di un tendenziale ritorno alla situazione precedente alla fon-dazione delle istituzioni internazionali del secolo scorso, ossia la Società delle Nazioni e le Nazioni Unite, con il connesso pericolo di una diffusa pretesa di ricorso legittimo all’uso della forza militare da parte dei soggetti internazio-nali più forti.

L’assunzione che è alla base della dottrina dell’interventismo umanitario è che la tutela dei diritti dell’uomo deve essere considerata un principio del-l’ordinamento internazionale di carattere prioritario rispetto alla sovranità degli Stati. Sia sul terreno istituzionale, sia su quello propriamente giuridico si tratta di sostituire il fine del mantenimento della pace, che è al centro della Carta delle Nazioni Unite, con l’obbiettivo umanitario della difesa dei diritti dell’uomo. Questa trasformazione presenta implicazioni di grande rilievo poiché dovrebbe permettere la creazione di un criterio in linea di principio universalistico come la difesa dei diritti di tutti gli appartenenti alla specie umana, prescindendo dalla loro appartenenza politica, culturale, religiosa, ecc., modificando il principio nazionalistico della sovranità degli Stati e della inviolabilità delle loro frontiere. Questo principio, risalente all’Europa del Seicento (pace di Westfalia del 1648, al termine della ‘guerra dei trent’anni’) è stato al centro del processo di formazione del Diritto Internazionale moder-no e dello stesso sviluppo dello Stato modermoder-no europeo. Esso è stato ribadi-to nel secolo scorso da una lunga serie di convenzioni e di trattati. In linea generale, anche la Carta delle Nazioni Unite lo ha confermato, enunciando all’art. 2 la “sovrana eguaglianza di tutti i suoi membri”. Bisogna, però, osservare che il mantenimento della pace e dell’ordine internazionale risulta essere compatibile con il principio particolaristico della sovranità degli Stati nazionali, mentre la finalità umanitaria tende a negare alla radice la sovranità degli Stati in nome di una concezione universalistica del diritto e delle istitu-zioni internazionali. L’ideologia umanitaria, se presa minimamente sul serio,

esige che l’ordinamento internazionale vigente, oggi imperniato sul partico-larismo delle relazioni intergovernative, si trasformi in un global humanitarian regime. Si auspica una sorta di civitas maxima politicamente unificata con

l’at-tribuzione della soggettività di diritto internazionale a tutti gli individui umani e non più soltanto agli Stati. Non si tratta di giustificare un certo anar-chismo umanitario a detrimento dell’utilità e della realtà delle forme statali esistenti, ma di un’esigenza che naturalmente si è manifestata nel lungo per-corso storico di sensibilizzazione alle peculiarità della persona.

Dal contrasto fra queste due visioni emergono alcuni problemi. a) La funzione del diritto e delle istituzioni internazionali

La mutazione in senso universalistico non sembra compatibile con gli attuali assetti del diritto e delle istituzioni internazionali. Le Nazioni Unite mancano di una dimensione universale per la semplice ragione che esse sono state volute dalle potenze vincitrici della IIa Guerra Mondiale per garantire l’ordine mondiale, non per promuovere o proteggere valori universali. È la volontà dei governi politici degli Stati membri, non un’opinione pubblica mondiale ispirata da un’etica universale, che rende legittime le decisioni delle Nazioni Unite. Di più, le Nazioni Unite non solo si fondano sul pre-supposto particolaristico della rappresentanza di governi (democratici, dispotici o totalitari) e non di ‘cittadini del mondo’, ma sono caratterizzate dal particolarismo estremo della discriminazione nel Consiglio di Sicurezza fra membri permanenti, con diritto di veto, e membri non permanenti. La tutela internazionale dei diritti dell’uomo non è solo incompatibile con la sovranità degli Stati nazionali e con il principio di autodeterminazione dei popoli, lo è ancor di più con le procedure decisionali delle attuali istituzioni internazionali. Sulla prima di queste incompatibilità non appare saggio pro-muovere uno scontro dottrinario manicheo: sarebbe sufficiente la riafferma-zione prioritaria del diritto soggettivo dei singoli e delle popolazioni alla tito-larità ed alla esigibilità dei ‘diritti dell’uomo’, cui deve provvedere lo Stato Sovrano prevedendo una funzione vicariante della Comunità internazionale in caso di gravi ed accertate violazioni da parte dello Stato nazionale.

b) La giustizia penale internazionale

Nel quadro dell’interventismo umanitario un ruolo di grande rilievo sim-bolico, oltre che politico e giuridico, è stato svolto dalle nuove corti penali internazionali. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, a sessant’anni dalla controversa esperienza dei Tribunali di Norimberga e di Tokyo, ha deci-so l’istituzione di due nuovi Tribunali penali internazionali per la repressio-ne di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario: il Tribunale per l’ex Yugoslavia e quello per il Ruanda. A volere queste nuove istituzioni sono stati i paesi occidentali, in particolare quelli anglosassoni. In questo modo,

accanto alle forme di limitazione militare della sovranità degli Stati, si è dato vita a forme di limitazione giudiziaria di tale sovranità, sovrapponendo coer-citivamente alla giurisdizione penale interna degli Stati coinvolti la giurisdi-zione del Tribunale internazionale. Alcuni indicano questo evento come ‘giu-stizia dei vincitori’. Questa antinomia potrà essere risolta solo da Con-venzioni in tempo di pace fra Stati ponderalmente rappresentati e condizio-nati ad accettare le decisioni della comunità internazionale: in tale accordo dovrebbe convenirsi che la Corte penale internazionale è competente a giu-dicare le violazioni delle due parti in conflitto, non solo dei vinti, ma anche dei vincitori. Una convenzione di questo tipo avrebbe quanto meno una fun-zione di profilassi sociale.

Emergono delicati problemi di carattere generale, al di là della controver-sia giuridica relativa alla legalità internazionale dei due Tribunali speciali creati dal Consiglio di Sicurezza. Si tratta anzitutto del problema della fun-zione e dell’autonomia di istituzioni giudiziarie internazionali non solo crea-te ad hoc, ma operanti al di fuori di un contesto istituzionale che in qualche

modo richiamino la struttura costituzionale di uno stato di diritto. Al di fuori di questo contesto la giurisdizione di questi Tribunali appare eccessivamen-te discrezionale e, nello seccessivamen-tesso eccessivamen-tempo, incline ad assecondare le aspettative politiche delle potenze che li hanno voluti, li assistono militarmente eserci-tando a loro favore funzioni di polizia giudiziaria e li finanziano. Anche qui l’universalismo, ossia la neutralità e l’imparzialità della funzione giudiziaria, collide con la genesi particolaristica di queste istituzioni e la loro dipenden-za politica.

Un tentativo di rendere responsabili le persone con un tribunale con giu-risdizione mondiale si ha con la Corte Criminale Internazionale istituita con lo Statuto di Roma del 1998 ed entrata in vigore nel luglio 2002. In essa sono stati definiti in dettaglio le caratteristiche di crimini come genocidio nelle sue diverse forme; di crimine verso l’umanità con le sue forme di assassinio, ster-minio, schiavismo, deportazione, concentramento, persecuzione, sparizione; di tortura; di crimini sessuali come stupro, sterilizzazione, prostituzione for-zata; di crimini di guerra. Comunque, si deve notare che sono state adottate delle norme per l’immunità dei cittadini di alcuni Stati.

c) La guerra come strumento di tutela dei diritti dell’uomo: l’intervento umanitario

È doveroso chiedersi se la guerra moderna, con i suoi strumenti di distru-zione di massa, può essere coerentemente usata da parte di istituzioni inter-nazionali o di alleanze militari come la N.A.T.O. che si attribuiscano il com-pito di proteggere valori universali come i diritti dell’uomo.

Ci troviamo di fronte ad una evidente aporia: sostenere che tutti gli indi-vidui sono soggetti dell’ordinamento internazionale e sono pertanto titolari

di diritti inviolabili e inalienabili significa attribuire loro anzitutto il diritto alla vita, riconosciuto dall’articolo 3 della DICHIARAZIONE UNIVERSALE. In secondo luogo significa riconoscere loro, come vuole ancora la DICHIARA

-ZIONEUNIVERSALE, i diritti fondamentali in base ai quali nessuno può essere sottoposto a trattamenti ostili che comportino una lesione della sua integrità fisica, della sua libertà, dei suoi rapporti affettivi e dei suoi beni, se non in seguito all’accertamento di suoi comportamenti contrari alla legge penale. Questo accertamento richiede che siano adottate le procedure giudiziarie pubbliche ed eque in maniera imparziale. Infine, la DICHIARAZIONEUNIVER

-SALEriconosce il diritto di tutti gli uomini ad un eguale trattamento giuridi-co. La legittimazione della ‘guerra umanitaria’ equivale ad una contradditto-ria negazione di tutti questi principi.

L’ e s p ressione ‘intervento umanitario’ è stata impiegata per indicare numerose e disparate circostanze. Quasi tutte le definizioni che si sono sus-seguite a partire dai primi anni del XX secolo sono però accomunate da un elemento: l’uso della forza. Si definisce l’intervento umanitario come l’uso della forza da parte di uno Stato o un gruppo di Stati nel territorio di un altro Stato, esercitato senza il consenso del governo di quest’ultimo o l’autorizza-zione delle Nazioni Unite, per le sole ragioni di tutelare i diritti fondamenta-li dell’uomo e reprimere tutti quegfondamenta-li atti perpetrati sistematicamente dal governo dello Stato oggetto dell’intervento. Con tale definizione è possibile evidenziare gli aspetti centrali di questa categoria di intervento.

Anzitutto si coglie quali siano i princìpi da essa tutelati: i diritti fonda-mentali dell’uomo sulla cui universalità e validità esiste un diffusissimo con-senso nella comunità internazionale. L’intervento umanitario è, in primo luogo, una risposta alle cosiddette gross human rights violations.

Un altro aspetto importante che emerge riguarda i soggetti coinvolti nel-l’intervento umanitario. Da una parte vi sono i belligeranti e dall’altra coloro i cui diritti violati sono motivo di intervento.

I primi si distinguono nel soggetto titolato ad agire quale interveniente, ossia uno Stato o una coalizione di Stati, ad hoc o permanente, e nel soggetto

che subisce l’intervento, cioè uno Stato reo di violare efferatamente i diritti fondamentali dell’uomo.

Tutelati dall’intervento umanitario sono invece gli individui che patisco-no materialmente le gross violations dello Stato all’interno del cui territorio, e

contro il quale, si interviene. Essi sono principalmente i cittadini di tale Stato, ma anche gli altri individui presenti sul territorio e vittime allo stesso modo di queste violazioni.

Infine, si nota che le modalità attraverso le quali si realizza l’intervento umanitario prevedono l’assenza di ogni forma di autorizzazione o consenso da parte dell’O.N.U. o dello Stato che subisce l’intervento, nonché l’uso della forza.

In base a questa definizione è inoltre possibile escludere dal concetto di intervento umanitario alcune fattispecie: l’intervento umanitario realizzato dietro autorizzazione O.N.U. o con il consenso dello Stato sul cui territorio si