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1.6. ENRICO CHELI: COME RAGGIUNGERE LA PROPRIA

1.6.1. L’ASCOLTO E L’EMPATIA COME STRUMENTI DI AIUTO SECONDO

“L’incapacità dell’uomo di comunicare è il risultato della sua incapacità di ascoltare davvero ciò che viene detto”

(Carl Ransom Rogers)

“Dobbiamo imparare a considerare le persone meno alla luce di ciò che fanno o dimenticano di fare, e più alla luce di ciò che soffrono”

(Dietrich Bonhoeffer)

“Non passione ci vuole, ma compassione, capacità cioè di estrarre dall’altro la radice prima del suo dolore e di farla propria senza esitazione”

(Fëdor Dostoevskij)

C’è un grande potenziale di consapevolezza e crescita personale nelle relazioni interpersonali: in primo luogo perché forniscono occasioni di confronto e di scambio; in secondo luogo perché ci permettono di scoprire tramite l’altro aspetti di luce e di ombra che ci appartengono ma di cui non siamo consapevoli, o perché li abbiamo rinnegati e rimossi, o perché non abbiamo ancora avuto la possibilità di scoprirli; in terzo luogo perché ci permettono di prendere coscienza della nostra responsabilità e del nostro potere, di capire cioè che ciò che di positivo o di negativo ci accade nei rapporti con gli altri dipende in larga misura da noi stessi, dalla nostra visuale ampia o ristretta, dal nostro approccio amichevole o ostile, dal nostro atteggiamento ottimista o pessimista. Questi aspetti racchiudono grande importanza nelle relazioni che si istaurano in un contesto di malattia come il cancro, o in quelle che ne subiscono l’influenza, e proprio per favorire la maturazione di quel gran potenziale utile al paziente si tende a far leva su alcuni delicati elementi relazionali che possono costituire una premessa di rilievo per una comunicazione efficace, la quale faccia da tramite al paziente stesso per ottenere quella maggior

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consapevolezza e coscienza di malattia che gli permettano di mantenere il controllo sui suoi pensieri e sulle sue auto-considerazioni.

Ciò a cui stiamo indirettamente alludendo riguarda sia la capacità di ascolto e di osservazione che l’empatia:

 ASCOLTO: non è solo un mezzo per aumentare l’efficacia comunicativa ma è anche un fine, o meglio, il fine per eccellenza della comunicazione. Ascoltare l’altro significa sia cercare di capire cosa sta dicendo (ascolto del messaggio che l’interlocutore cerca di inviarci), sia come sta reagendo ai nostri messaggi mentre ci ascolta (ascolto del feedback che viene rimandato all’interlocutore). Nel primo caso, si tratta di un’attività più semplice in quanto più familiare e richiedente minor complessità; nel secondo caso, invece, la difficoltà aumenta poiché necessita di un’abilità che non siamo abituati ad attuare spesso e soprattutto deve essere eseguita mentre siamo impegnati a parlare, perciò dobbiamo distribuire la nostra attenzione su più fronti. Tale feedback, più in generale, esprime la reazione di ciascun soggetto ai messaggi provenienti dall’esterno, a prescindere dalla loro intenzionalità e consapevolezza, e può interessare sia quanto viene espresso verbalmente a seguito di un determinato messaggio, sia ciò che viene esternato attraverso un comportamento, un atto che risulta collegabile “causalmente” alle diverse componenti del sistema comunicativo (ad esempio: rispondere con certi argomenti piuttosto che con altri ad una data domanda e, nonostante ciò, ricevere comunque una risposta). Perciò il significato del feedback, come del resto di ogni altro messaggio, non dipende solo dalle parole usate ma anche dalla comunicazione non verbale, come l’espressione del volto, la gestualità, il tono della voce e via dicendo. Un altro aspetto importante del feedback è che esso non si manifesta sempre in modo chiaro ed univoco, così come può darsi il caso che, per vari motivi, esso esprima una reazione che non è quella reale bensì una simulazione intenzionale; oppure può accadere che a livello razionale la persona reagisca in un modo ma a livello inconscio reagisca in un altro, così che conseguiranno due significati compresenti e contraddittori, rispettivamente veicolati dalle parole e dal linguaggio non verbale.

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Ai fini di una effettiva comprensione di quanto sta davvero avvenendo durante la comunicazione, diviene, quindi, indispensabile saper osservare ed interpretare correttamente i messaggi non verbali, soprattutto quando ci troviamo faccia a faccia con persone fragili e spossate a causa della malattia che stanno affrontando e per cui hanno perso stabilità, certezze, stima e valori di sé, e spesso anche la forza di desiderare ancora di poter tornare alla loro normalità. Così, rientrerebbero in questo ambito tutte quelle strategie attive (ascolto attivo) attraverso le quali è possibile migliorare il contatto e la sintonia con l’altro, con il paziente, e ottenere da questo ulteriori utili informazioni per comprenderlo meglio – facendogli domande su aspetti specifici che riteniamo importanti, riassumendo con parole nostre quanto abbiamo capito del suo punto di vista e sottoponendoglielo affinché ci dica se abbiamo capito bene o meno, facendolo sentire ascoltato con la richiesta di informazioni per poter fare maggior chiarezza, manifestando il proprio interesse per quanto dice ed esprimendo segnali di comprensione appropriati.

 EMPATIA: concetto neutro, libero da connotazioni di senso comune (come la simpatia, o meglio simpateticità, che significa propriamente stesso- sentire4) o religiose (come la compassione5). Il termine deriva dal greco empatheia (sentire dentro) e fu inizialmente utilizzato dai teorici dell’estetica6 per indicare la capacità di percepire l’esperienza soggettiva altrui, mentre il primo psicologo ad utilizzarlo fu Titchener negli anni ’20, il quale cercava proprio un’espressione diversa rispetto a “simpateticità” (sympathy). Egli riteneva che l’empatia scaturisse dall’imitazione fisica della sofferenza altrui, che poi evocava a sua volta gli stessi sentimenti anche nell’imitatore; pertanto, comportava una vera e propria immedesimazione nello stato dell’altro. Successivamente, però, il termine

4 Ci permette di entrare in contatto diretto con l’altra persona, fino in alcuni casi a fondersi in

un’unica esperienza.

5 Capacità di entrare in contatto col sentire dell’altro, a prescindere dalla somiglianza e dall’affinità. 6 Robert Vischer, studioso di arti figurative nell’ambito della riflessione estetica, alla fine

dell’Ottocento introdusse il termine di Einfühlung per definire la capacità della fantasia umana di cogliere il valore simbolico della natura. Solo successivamente (1909) venne tradotto in lingua inglese come empathy (Benelli & La Spina).

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ha assunto una seconda accezione, soprattutto in ambito psicoterapeutico, secondo la quale l’empatia sarebbe un sentire l’altro senza confonderlo con il sé: un processo volontario e consapevole in cui, dopo aver sospeso ogni giudizio morale, ci si immedesima nell’altro, ci si mette nei suoi panni, si avvertono eventuali risonanze con le proprie emozioni e situazioni, mantenendo però la necessaria lucidità e la consapevolezza dei confini tra la propria identità personale e quella dell’altro. La simpateticità, la compassione e l’empatia hanno tutte il loro precursore in quella esperienza simbiotica di fusione sensoriale ed emozionale che caratterizza in genere la relazione madre-bambino nella prima infanzia e che vari autori definiscono del contagio empatico (Hoffmann, 1987; Draghi & Lorenz, 1995). Quest’ultimo comporterebbe un “pieno immedesimarsi” nella realtà emotiva dell’altro e presuppone sia un automatismo emotivo non differenziato (chiamato “empatia globale” da Hoffmann), sia funzionamenti di tipo imitativo-reattivo.

L’empatia viene ritenuta da molti autori una delle capacità più importati per migliorare la relazione con gli altri e poterli all’occorrenza aiutare a superare difficoltà comunicative, incomprensioni, sofferenze affettivo-emozionali. Le esperienze di condivisione emotiva, se liberamente vissute, possono rappresentare non solo uno strumento per aiutare l’altro, ma anche un’opportunità di arricchimento reciproco. Accogliere su di sé il dolore dell’altro richiede però una sufficiente integrità psichica, tale cioè da non sentirsi minacciati dalla risonanza interna di emozioni negative (Underwood & Moore, 1977; Barnett, 1979). Per aiutare gli altri è fondamentale sentire come stanno, sapersi porre in contatto con loro attraverso l’ascolto e, se possibile, l’empatia e far sentire loro che sono accolti, che ci siamo e che il contatto è reale. Questo, tuttavia, può comportare anche dei problemi poiché attivare un contatto empatico con una qualsiasi persona che sta molto male con se stessa a causa di una malattia, significa provare dolore, almeno per un po’ di tempo, anche per chi se ne prende cura. E’ il caso di molti operatori sanitari che tendono, di fatto, a mantenere le distanze sul piano emotivo – soprattutto in contesti di malattie a lento decorso, con scarsa tendenza a

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risolversi oppure irreversibili – divenendo a volte fin troppo asettici e distaccati: tale condotta starebbe a simboleggiare un modo per esorcizzare la malattia, per proteggersi da un eccesso di emozioni e sofferenze che non si è in grado di gestire, un po’ come accade al paziente stesso che vive ancora più intimamente la condizione in cui si trova. Un’alternativa al chiudere definitivamente il canale empatico però esiste e viene definita empatia matura, ovvero una dimensione dell’esperienza spontanea di immedesimazione con l’altro più evoluta e consapevole che rimanda ad una padronanza del proprio sentire al punto da dirigerlo dove, come e quando si desidera, sentendo la sofferenza dell’altro quel tanto che basta a capire come poterlo aiutare e a farlo sentire compreso, ma sempre rimanendo centrati su di sé.

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