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Studio pilota per la valutazione del benessere psicologico nella cura intensiva dei pazienti oncologici: il CORE-OM in Ematologia.

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Patologia chirurgica, medica, molecolare dell’area critica

Corso di Laurea Magistrale in Psicologia Clinica e della Salute

Tesi di Laurea

Studio pilota per la valutazione

del benessere psicologico nella

cura intensiva dei pazienti oncologici:

il CORE-OM in Ematologia

Relatore

Dott. Ciro Conversano

Candidato

Giulia Del Dotto

ANNO ACCADEMICO

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2 INDICE RIASSUNTO ... 3 PAROLE CHIAVE ... 4 1. INTRODUZIONE ... 5 1.1. COS’E’ IL CANCRO? ... 6

1.2. L’INFLUENZA DEL CANCRO SUGLI ASPETTI PSICOLOGICI... 8

1.3. ADATTAMENTO ALLA MALATTIA E COPING ... 10

1.4. RESILIENZA ... 17

1.5. GLI EFFETTI SULL’IDENTITA’ ... 20

1.5.1. IL CONCETTO DI SE’ E L’IMMAGINE CORPOREA ... 22

1.5.2. I DISTURBI DEL SE’ (O DISTURBI DELL’IO) ... 24

1.6. ENRICO CHELI: COME RAGGIUNGERE LA PROPRIA AUTOCONSAPEVOLEZZA, LA CONOSCENZA DI SE’, ATTRAVERSO LA COMUNICAZIONE INTRAPERSONALE DELLE MOLTEPLICI SUB-PERSONALITA’ ... 30

1.6.1. L’ASCOLTO E L’EMPATIA COME STRUMENTI DI AIUTO SECONDO CHELI ... 33

1.7. APPROCCIO PSICOSOCIOLOGICO E CONCETTO DI QoL ... 38

1.7.1. STRUMENTI UTILI PER LA VALUTAZIONE DELLA QoL ... 46

2. LO STUDIO... 50

2.1. METODI ... 51

2.1.1. PARTECIPANTI E PROCEDURE DI RECLUTAMENTO ... 52

2.1.2. LO STRUMENTO: CLINICAL OUTCOMES IN ROUTINE EVALUATION – OUTCOME MEASURE (CORE-OM) ... 53

2.1.2.1. COME VIENE UTILIZZATO: PROPRIETA’ PSICOMETRICHE E SCORING ... 56

2.1.3. ANALISI DEI DATI ... 59

2.2. RISULTATI ... 60 2.3. DISCUSSIONE ... 78 2.4. CONCLUSIONI ... 84 BIBLIOGRAFIA ... 86 SITOGRAFIA ... 95 APPENDICE... 96

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RIASSUNTO

Il nucleo attorno al quale si sviluppa la seguente riflessione è il concetto di benessere preso in ogni sua sfaccettatura, dallo stato fisico (ad esempio sintomi, dolore e immagine del corpo) a quello psicologico (come la preoccupazione legata alla malattia, gli effetti del suo impatto sull’individuo, la mancanza di ascolto e di comprensione adeguati per un’assistenza modellata sulla persona), applicato al contesto ospedaliero, che, in questo caso, è stato rappresentato dal reparto degenze di Ematologia nell'ospedale Santa Chiara di Pisa.

Ciò che ha attirato l’attenzione di questo studio è stato il funzionamento della relazione tra il personale medico e infermieristico ed il paziente, rivelatosi piuttosto scarso in quanto a sostegno psicologico. Infatti, interessi ed investimenti più sostanziali in tale ambiente sanitario sono stati rivolti a quegli aspetti che potrebbero essere definiti come quantitativi: informazioni sotto forma di indicazioni scritte o vere e proprie istruzioni per il comportamento da adottare, da parte dei pazienti, nei confronti dei possibili sintomi avversi di una chemioterapia; o ancora i numerosi protocolli igienici per prevenire la “contaminazione esterna”, come le aree sterilizzate e asettiche, il cibo inscatolato ermeticamente, l’impossibilità di introdurre oggetti personali (se non in ristretta quantità e solo dopo essere stati sottoposti a procedure di disinfezione), le brevissime e rigide visite che costringono il paziente a vedere il proprio amico o parente nascosto interamente da un’uniforme ospedaliera monouso.

Si è vista, quindi, necessaria una riflessione più approfondita per mettere in luce quegli aspetti qualitativi che dovrebbero essere maggiormente trattati in un reparto come questo, per assicurare sia una migliore permanenza ai pazienti ricoverati durante i trattamenti, sia una condizione psicologica, oltre che fisica, più stabile e rassicurante per il soggetto stesso successivamente alla dimissione e, quindi, nel momento in cui torna alla sua precedente vita quotidiana.

La scelta di utilizzare un questionario semplice e relativamente breve, come il Clinical Outcome for Routine Evaluation – Outcomes measure (CORE-OM), deriva dalle caratteristiche e dalla funzione che potrebbe avere, in futuro, questo questionario se applicato abitualmente al contesto ospedaliero. Il suo valore, infatti,

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è quello di valutare, anche periodicamente, il funzionamento della “struttura” del paziente che è lo specchio del funzionamento della “struttura” ospedaliera vera e propria. Si tratta di valutazioni di routine che, se supportate dalla presenza di uno psicologo nel processo di somministrazione, potrebbero funzionare da apripista per tutta una serie di valutazioni più specifiche legate a ciò che davvero potrebbe essere fatto per intervenire sul benessere qualitativo dei pazienti ricoverati. Di fatto, la valutazione degli esiti può risultare molto utile per aumentare il grado di conoscenza su come fornire prestazioni sempre più appropriate, in risposta a bisogni assistenziali e di cura specifici per coloro che ne fanno richiesta.

PAROLE CHIAVE Qualità di vita Cancro

Valutazione CORE

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1. INTRODUZIONE

Durante il secolo scorso, in Europa e negli Stati Uniti, la presa in carico medica e psicologica del cancro ha subito un’evoluzione che ha permesso di riconsiderare questa malattia, di far dubitare in merito alla sua prognosi e soprattutto di modificare il suo approccio. Incisivo per la manifestazione di questi miglioramenti è risultato l’intervento di più fattori (Rixe & Khayat & Fischer, 2002):

- Un maggior ottimismo dovuto ai traguardi terapeutici raggiunti dalla chirurgia, dalla radioterapia e persino dai trattamenti medici utilizzati, come la chemioterapia e l’immunoterapia;

- Lo sviluppo di un approccio pluridisciplinare nella presa in carico delle diverse fasi della malattia, avvicinando figure mediche di ambiti professionali differenti in un’unica équipe curante che rende possibile anche la partecipazione dello psicologo;

- Una comunicazione medico-paziente che sia maggiormente efficace ed empatica, basata sulla veridicità della diagnosi e della prognosi, della gravità della patologia, della possibilità di cura, del rischio di recidiva, delle aspettative di vita e dell’impatto che il cancro avrà su di essa;

- Un miglioramento delle cure complementari e, in particolare, della presa in carico del dolore;

- Una ridefinizione delle cure palliative con l’elaborazione di strutture e di équipe formate per la presa in carico dei pazienti terminali; - La definizione dei diritti dei pazienti.

Risulta evidente, come si desume anche dal secondo punto elencato sopra, l’importanza crescente che assume la figura professionale dello psicologo conseguentemente a tali progressi. Tuttavia, la sua integrazione all’interno dell’équipe curante richiede la conoscenza dei principi fondamentali dei trattamenti antitumorali e, ancora prima, richiede la conoscenza della malattia stessa (Rixe & Khayat & Fischer, 2002).

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1.1. COS’E’ IL CANCRO?

“Il cancro… un processo di creazione impazzito, pensai” (Philip K. Dick)

“Dopo l’operazione chiesi di vederlo. A colpo d’ occhio sembrava una pallina di marmo, innocua, quasi graziosa. Dopo alcuni giorni lo esaminai al microscopio,

e mi resi conto di che cosa fosse capace riproducendosi.

Capii che avevo un nemico dentro di me: un alieno, che ha invaso il mio corpo per distruggerlo. Ora abbiamo un rapporto di guerra: lui vuole ammazzarmi, io

voglio ammazzare lui” (Oriana Fallaci)

“Non sai mai quanto sei forte fino a quando essere forte è la sola scelta che hai” (Cayla Mills)

Sarebbe poco preciso parlare di cancro come di un’unica malattia, dovremmo piuttosto riferirci a diversi tipi di malattie che hanno cause diverse e distinte, che colpiscono organi e tessuti differenti e che richiedono, quindi, esami diagnostici e soluzioni terapeutiche particolari. Esistono, però, alcune proprietà e caratteristiche che accomunano tutti i tumori e che consentono di tentare una risposta valida - almeno in linea generale - per tutte le forme della malattia (Villa, 2014).

Tutti i tumori hanno origine da una cellula. Nei tessuti normali le cellule si riproducono dividendosi in modo da sopperire alle varie necessità dell’organismo - far crescere l’organismo intero o una sua parte oppure rimpiazzare le cellule morte o danneggiate -, ma può capitare, metaforicamente parlando, che una di queste cellule ad un certo punto “impazzisca”, ovvero perda alcune delle sue proprietà acquisendone altre e cominciando a moltiplicarsi illimitatamente. Questa continua riproduzione fuori controllo altera completamente l’equilibrio dell’organismo,

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annullando anche i naturali processi per cui le cellule danneggiate vanno incontro ad una morte programmata, detta apoptosi. All'origine di tutti questi fenomeni ci sarebbero delle alterazioni geniche, dette mutazioni, perlopiù di carattere somatico (ovvero mutazioni che colpiscono singole cellule dell’organismo maturo, quindi non germinali), le quali, sommandosi l’una all’altra, comprometterebbero i meccanismi di controllo e i processi di replicazione e riparazione del DNA (Villa, 2014; Alberts et al., 2011). Non è sufficiente, infatti, che sia difettoso un solo meccanismo ma occorre che gli errori si accumulino perché il tumore possa cominciare a svilupparsi e ciò, ovviamente, non avviene tutto nello stesso momento ma in un arco di tempo che può comprendere molti anni. Le cellule mutate, quindi, entrano in competizione con quelle sane limitrofe ed, essendo avvantaggiate dalla mutazione stessa, primeggiano potenziando la loro proliferazione e la loro sopravvivenza, portando infine alla genesi di cellule cancerose che crescono senza alcun freno all’interno dell’intera popolazione cellulare (Villa, 2014; Alberts et al., 2011).

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1.2. L’INFLUENZA DEL CANCRO SUGLI ASPETTI PSICOLOGICI

“Il carcinoma lavora astutamente dall’interno verso l’esterno. L’individuazione e la cura spesso lavorano più lentamente e a tentoni, dall’esterno verso l’interno”

(Christopher Hitchens)

“Personalmente non credo che la psiche abbia un ruolo nella comparsa e nello sviluppo dei tumori. Credo invece nell’influenza che l’atteggiamento psicologico del malato può avere sulla sua reazione alla cura. L’esperienza clinica ci insegna

che un malato psicologicamente forte reagisce meglio ai trattamenti, perché è capace di aderire alla cura con coscienza, sistematicità e determinazione. L’atteggiamento individuale quindi, anche se non influisce sulla prognosi finale, certamente può influire sulla fasi del decorso della malattia. Un paziente aiutato da un atteggiamento ottimistico guarisce di più anche perché segue meglio le cure, s’impegna a osservare meglio le indicazioni del medico, s’impegna a voler

guarire” (Umberto Veronesi)

“L’incapacità di pensare in positivo può pesare su un malato di cancro come una seconda malattia”

(Barbara Ehrenreich)

Esistono alcuni modelli teorici che cercano di spiegare le possibili relazioni fra i fattori psichici e i processi o l’evoluzione del cancro, giungendo ad una conclusione comune che si traduce nel fatto che gli effetti di questi fattori psicologici si manifestano in una diminuzione della capacità immunitaria dell’organismo e, in particolare, dell’attività citotossica dei linfociti che possiedono proprietà antitumorali (cellule Natural Killer, comunemente conosciute anche con

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l’abbreviazione NK e specializzate nell’induzione di apoptosi in cellule danneggiate, poiché tumorali o infettate da virus).

Un chiaro esempio è rappresentato dal modello emozionale del cancro elaborato da Contrada e coll. (1990), che ha merito di cercare di identificare i meccanismi che collegano la carcinogenesi con i fattori psicologici stabilendo un legame tra questi ultimi e la diminuzione delle difese immunitarie, un legame che andrebbe conseguentemente a generare il rischio di sviluppo e/o di recidività di un tumore. Tale modello, quindi, sosterebbe l’ipotesi di un concatenamento di eventi – seppur variabile a seconda del modo in cui l’individuo riesce a farvi fronte – che scatenerebbe un evitamento emozionale capace di dar vita, a sua volta, a processi cognitivi carichi di forte impatto sullo sviluppo della malattia. Perciò, secondo Contrada e coll. (1990), l’evitamento emozionale costituirebbe un fattore di esposizione al rischio di tumore (Rixe & Khayat & Fischer, 2002).

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1.3. ADATTAMENTO ALLA MALATTIA E COPING

“Noi dobbiamo essere disposti a lasciar andare la vita che abbiamo pianificato, in modo da vivere la vita che ci sta aspettando”

(Joseph Campbell)

“La cosa importante è accettare se stessi. Se la condizione in cui mi trovo è causa di malessere, è segno che la rifiuto. Allora, più o meno coscientemente, tento di essere diverso da come sono; in definitiva non sono io. Se, al contrario, accetto

pienamente il mio stato, troverò la pace […]” (Alejandro Jodorowsky)

“A prescindere da cosa racchiuda il presente, accettalo come se lo avessi scelto. Collabora sempre, non agire contro di esso. Fattelo amico e alleato, non nemico.

Tutto questo trasformerà miracolosamente la tua vita” (Eckhart Tolle)

Ogni qualvolta che ad un individuo viene resa nota la sua condizione con l’annuncio della diagnosi di cancro, si scatenano in lui una serie di reazioni cognitive, emotive e comportamentali che saranno, molto probabilmente, fonte di sconforto psicologico. A quel punto, egli dovrà far fronte a tale notizia e a tutte le potenziali conseguenze della malattia (possibilità di morte, dolore, dipendenza, perdita del lavoro, modificazione dei rapporti interpersonali etc.) e sviluppare strategie di adattamento consone alla sua persona, per prevenire nel miglior modo possibile delle reazioni patologiche (Rixe & Khayat & Fischer, 2002).

Con il concetto di adattamento alla malattia oncologica si intende riferirsi al processo attivo che può includere conseguenze sia positive che negative per il soggetto, ma può anche fornire dei presupposti per un possibile sviluppo di disturbi psicologici o problemi interpersonali (Brennan, 2010; Del Sole & Ciaramella,

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2015). Di fatto, sono molti i punti critici in cui il paziente più trovarsi faccia a faccia con lo sconforto psicologico: dalla diagnosi, al trattamento, all’eventuale recidiva, alla transizione da un trattamento curativo ad uno palliativo, sino ad arrivare alla fase terminale della malattia. In ognuna di queste tappe, la relazione diretta medico-paziente – che si attua in un ambiente calmo ed isolato, ricercando ciò che il paziente sa e vuole sapere, dando spiegazioni chiare, precise e con parole semplici e rispondendo alle domande che il paziente pone – è la base per la condivisione di un’informazione di qualità, che avrà un impatto sicuramente più attenuato sulla persona (Rixe & Khayat & Fischer, 2002). Secondo Cullberg (1975), è importante valutare anche i processi di risposta alla crisi che manifesta il paziente successivamente alla comunicazione della diagnosi (Del Sole & Ciaramella, 2015): - FASE DELLO SHOCK: l’individuo subisce una frattura del senso di continuità dell’esperienza del Sé che lo spinge ad evitare il confronto con quella realtà che non è ancora pronto ad affrontare, perciò questa fase è vissuta come una “catastrofe”;

- FASE DI REAZIONE: il paziente è pervaso da reazioni emozionali quali angoscia, rabbia, disperazione e amarezza e comincia a sviluppare una nuova consapevolezza della realtà che gli viene “imposta” tramite le procedure e i trattamenti a cui viene sottoposto; - FASE DI ELABORAZIONE: dopo il primo periodo attivo di trattamenti, l’individuo inizia a farsi domande sul motivo per cui sia successo proprio a lui e riflette sulla sua nuova vita e sui progetti che aveva fatto precedentemente;

- FASE DI RIORIENTAMENTO: ad ogni controllo, viene rivissuta l’esperienza del percorso esistenziale sostenuto sino a quel momento, quindi può essere un momento molto difficile da affrontare.

Un’altra osservazione dei pazienti oncologici durante il loro percorso di malattia ci viene fornita da Elisabeth Kübler-Ross (1969), la quale identifica diversi fattori che influenzano l’adattamento dell’individuo alla patologia, come la malattia stessa – in quanto a gravità e tipologia di trattamento richiesto –, il numero di eventi

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stressanti incontrati, in base anche allo stadio di malattia e al sito organico in cui si presenta, e infine il ciclo di vita, ovvero l’età in cui viene diagnosticata. Inoltre, Kübler-Ross (1969) individua altre cinque differenti fasi rispetto a Cullberg (1975) che seguono parallelamente l’adattamento dell’individuo alla malattia (Del Sole & Ciaramella, 2015):

- FASE DI NEGAZIONE: reazione psicologica che protegge il soggetto dall’angoscia di morte utilizzando il rifiuto come difesa psicologica che gli permette di adattarsi comunque alla realtà, ma ciò non vuol dire che non stia già elaborando;

- FASE DI RABBIA: si distingue in rabbia esistenziale, per cui il paziente si chiede cosa abbia fatto per causare tale situazione, e in rabbia proiettata verso l’esterno, ovvero verso coloro che lo circondano e si prendono cura di lui;

- FASE DI PATTEGGIAMENTO: il paziente scende a compromessi poiché accetta il lasso di tempo limitato che gli resta, richiedendo un premio in cambio di qualcosa di positivo che promette segretamente a se stesso;

- FASE DELLA DEPRESSIONE: prevede una profonda elaborazione interiore che porta ad una trasformazione ed è caratterizzata da una depressione reattiva (perdita del senso di invulnerabilità, di benessere, del valore di Sé e del proprio ruolo sociale) e da una depressione preparatoria (presa delle distanze da ciò e da coloro che più ama in segno di preparazione alla separazione definitiva);

- FASE DI ACCETTAZIONE: il paziente impara a convivere con questa condizione nonostante gli aspetti negativi che comporta. La Kübler-Ross (1969) è stata anche uno dei primi esponenti ad occuparsi del concetto di coping, oltre a quello di adattamento appena esposto.

Tale nozione deve essere considerata all’interno di un quadro più ampio che riguarda la valutazione personale di una qualsiasi situazione stressante che l’individuo subisce e che impatta sull’organismo in modo tale da andare al di là

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dell’evento stesso. Non ci riferiamo più tanto alle originarie teorizzazioni di Hans Selye (1956), quindi, ma piuttosto alla più recente teoria cognitiva dello stress e del coping di Lazarus e Folkman (1984, 1993). Secondo questi autori, lo stress è una «transazione specifica fra la persona e l’ambiente che è valutata dalla persona come debordante le sue risorse e che può mettere in pericolo il suo benessere» poiché non si sente in grado di affrontarla (Spitz & Fischer, 2002). Di conseguenza, essi sostengono che l’individuo debba mettere in atto innanzitutto due differenti tipi di valutazione cognitiva del significato dell’evento stressante (Del Sole & Ciaramella, 2015; Spitz & Fischer, 2002):

- VALUTAZIONE PRIMARIA: la persona valuta le ripercussioni emozionali e fisiologiche dell’evento per il rispetto del proprio benessere (stress percepito);

- VALUTAZIONE SECONDARIA: riferita alle risorse personali utili a fronteggiare e controllare l’evento, ai giudizi e alle credenze personali ma anche alle possibilità reali di controllo sulla transazione specifica (controllo percepito).

Perciò, con il suddetto concetto di coping, Lazarus e Folkman (1984) intendono definire quell’ «insieme di sforzi cognitivi e comportamentali destinati a controllare, ridurre, o tollerare le esigenze interne o esterne che minacciano o eccedono le risorse di una persona» e, dunque, il suo benessere fisico e mentale (Spitz & Fischer, 2002).

Restringendo nuovamente il focus in ambito oncologico verso quegli individui che sono costretti a fronteggiare la malattia senza alcuna solida certezza di riuscirvi pienamente, è possibile distinguere cinque stili di coping che possono presentarsi frequentemente (Cacace et al., 2009):

- Inermità/disperazione: la persona percepisce uno scarso controllo sulla malattia e perciò sviluppa ansia e depressione, accompagnate da carenti o assenti strategie volte all’accettazione della diagnosi; - Preoccupazione ansiosa: può manifestarsi attraverso una richiesta

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dal contesto di cura in cui si trova, ma in ogni caso sarà presente uno stato emotivo fortemente ansioso;

- Accettazione stoica: i livelli di ansia e depressione risultano diminuiti in quanto l’individuo percepisce uno scarso controllo della malattia dovuto alla compresenza di accettazione e rassegnazione; - Negazione/evitamento: si manifestano bassi livelli di ansia e

depressione mentre la persona è intenta ad evitare il più possibile il confronto con la realtà della malattia;

- Spirito combattivo: la persona sviluppa la convinzione di poter avere un certo grado di controllo sugli eventi e questo rende più vantaggiosa l’adherence e diminuisce i livelli di ansia e depressione rispetto alla situazione.

Oltre agli stili appena menzionati, elenchiamo di seguito anche le quattordici strategie di coping identificate da Carver e coll. (1977, 1989, 1998) allo scopo di permettere una miglior comprensione dell’ampia lista di strategie di coping contenuta nell’inventario breve di valutazione delle strategie di coping, conosciuto come Brief COPE (Coping Orientations to the Problems Experienced, 1997): coping attivo, pianificazione, ricerca di sostegno sociale per ragioni strumentali, ricerca di sostegno sociale per ragioni emozionali, espressione dei sentimenti, disimpegno comportamentale, distrazione, biasimo o rimproveri, reinterpretazione positiva, umorismo, diniego (inteso come rifiuto di credere che l’agente stressante esista, che la malattia sia reale), accettazione (considerata al polo opposto del diniego), religione, consumo di sostanze. Un’osservazione di rilievo nei confronti di queste strategie riguarda il fatto che le ultime nove rappresentino una “lama a doppio taglio”, in quanto possano diventare disfunzionali a seconda delle circostanze. Tuttavia, nonostante vengano utilizzate spesso, non risultano utili nei casi specifici. Di fatto, per un approccio più approfondito, la direzione attualmente preferibile è quella orientata verso la creazione di misure di coping specifiche alle varie patologie e allo stadio della vita in cui compaiono (Spitz & Fischer, 2002). Altri studi ed altri autori (Razavi & Delvaux, 1998) che hanno trattato nello specifico gli aspetti psicologici associati alla malattia cancerosa, e quindi l’adattamento della persona colpita da cancro nei confronti della malattia stessa, si

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sono riferiti anch’essi alla suddivisione delle reazioni del paziente in base al momento cardine in cui egli si trovava, richiamando le diverse fasi di iniziale crisi esistenziale dovuta ai primi sintomi, di trattamento medico e sforzo di aggiustamento ad esso, di ricaduta e perdita di speranza e, infine, quelle preterminale e terminale. Tutto questo, però, è da considerarsi sempre correlato al vissuto associato al cancro, alla sua evoluzione ma, prima ancora, alla vulnerabilità dell’individuo al cancro e dagli stili di coping che è in grado di mettere in atto conseguentemente e che sono caratterizzati da un comune ruolo di passività e di sottomissione, con una tendenza alla repressione delle emozioni (Weisman, 1979, 1989). A tal proposito, Fischer (1999), ad esempio, non intende parlare di un processo cosciente per cui la persona rifiuta liberamente di pensare o parlare di un evento stressante – quale può essere, appunto, la malattia – e le reazioni che gli suscita senza tuttavia negarne l’esistenza (Evitamento). Piuttosto, egli intende alludere al concetto di Diniego, ovvero al processo cognitivo che permette la coesistenza di contraddizioni senza che queste possano influenzarsi, non essendoci un collegamento. Le contraddizioni sarebbero reputabili come coscienti mentre il fatto stesso di ricorrere al Diniego non potrebbe esserlo. Tuttavia, in situazioni di passività obbligata – come in situazioni preoperatorie o di ingente accumulo di stress – “diniegare” può apparire addirittura maggiormente adattivo rispetto al voler affrontare le esigenze che la realtà impone. Per questo motivo, il Diniego può essere considerato certe volte una strategia di aggiustamento, di adattamento alla malattia, un processo cognitivo più o meno ben adattato in funzione della situazione, conferendo al concetto stesso un’estensione più ampia e più positiva di quella di semplice meccanismo di difesa, come sostenuto precedentemente da altri autori1. Resta comunque il fatto che, a lungo termine, è una strategia che rischia di indurre

1 Freud (1926) sosteneva che il diniego consistesse in un meccanismo di difesa patologica,

riferendosi essenzialmente alle psicosi e al feticismo; Hackett, Cassem e Wishnie (1986) lo ritenevano un modo per «minimizzare, addirittura annullare consciamente o inconsciamente una parte o la totalità della significazione di un evento per diminuire la paura, l’ansia o qualsiasi altro affetto sgradevole», lo vedevano come un processo di difesa primitivo di fronte al pericolo fin troppo arcaico, che implicasse necessariamente anche l’utilizzo di altri meccanismi di difesa come lo spostamento, la proiezione e la razionalizzazione; per Breznitz (1985), infine, il diniego rappresenta un meccanismo psichico che mira a rendere le minacce esistenziali non solo più tollerabili, ma anche più semplici da gestire, permettendo all’individuo di misurare la gravità della situazione per non essere sopraffatto dall’impatto psichico della malattia e delle sue conseguenze.

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dei comportamenti non appropriati, come spesso si può esperire avendo a che fare con un paziente che nega la gravità della sua malattia e che, di conseguenza, sviluppa la non-osservanza del trattamento terapeutico a lui necessario (Spitz & Fischer, 2002).

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1.4. RESILIENZA

“Quando la vita rovescia la nostra barca, alcuni affogano, altri lottano strenuamente per risalirvi sopra. Gli antichi connotavano il gesto di tentare di risalire sulle imbarcazioni rovesciate con il verbo ‘resalio’. Forse il nome della qualità di chi non perde mai la speranza e continua a lottare contro le avversità,

la resilienza, deriva da qui” (Pietro Trabucchi)

“Quando soffiano i venti del cambiamento, qualcuno costruisce muri altri costruiscono mulini a vento”

(Proverbio Cinese)

“La resilienza non è solo la voglia di sopravvivere a tutti i costi, ma anche la capacità di usare l'esperienza maturata in situazioni difficili per costruire il

futuro” (Andrea Fontana)

Come già precedentemente trattato, una malattia cronica come il cancro può generare delle rotture, degli squilibri interni o esterni, dei veri e propri punti critici che racchiudono un evento di vita ma allo stesso tempo un momento rischioso e decisivo (Tap et al., 2002). Quindi, con l’annuncio di una malattia o nel momento in cui la persona malata capisce che la guarigione è solo probabile piuttosto che possibile, possono emergere degli elementi che caratterizzano fondamentalmente i disturbi di identità: sentimenti di discontinuità (sentimento di rottura, di impossibile ritorno alla normalità o ad uno stato anteriore valorizzato), di incoerenza (perdita di controllo interno ed esterno) e di negatività (valutazione negativa di sé). Tutto ciò può contribuire a diminuire ancor di più il sentimento soggettivo di benessere o di soddisfazione (Bradburn, 1969; Diener, 1984, 1994; Diener & Diener, 1995; Grob, 1995) che orienta la qualità di vita e la felicità a seconda di quanto influiscono la

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natura e la quantità delle difficoltà e degli eventi di ordine maggiore vissuti dalle persone (Tap et al., 2002).

L’individuo che si trova a dover affrontare avvenimenti simili, dopo molteplici tentativi di presa di coscienza, comincia a percepire sempre più la necessità di operare dei cambiamenti, di elaborare delle strategie di coping, offensive o difensive, in grado di risolvere i conflitti identitari che hanno compromesso l’orientamento personale. E’ qui che entra in gioco anche la resilienza (Rutter & Garmezy, 1983; Fischer, 1994; Cyrulnik, 1999, 2001; Tap & Vinay, 2000; Tap, 2001), ovvero la capacità di far fronte alle situazioni difficili, di adattarsi in modo dinamico alle avversità che generalmente implicano un rischio di esito negativo (Del Sole & Ciaramella, 2015). Più precisamente, tale concetto si riferisce alla “capacità di tenere duro” e alla capacità di “rimbalzare”, che rispettivamente indicano la facoltà di «rimanere se stessi quando l’ambiente ci ostacola e continuare, malgrado gli imprevisti, il nostro percorso umano», annullando l’effetto d’urto provocato da un qualsiasi evento esterno o interno (Cyrulnik, 1998), e pure l’abilità di sapersi rilanciare dopo l’impatto, sfruttando un temperamento ottimista che permetta appunto di “rimbalzare” (Vinay e coll., 2000). Tutto sta nel comprendere che, per poter risolvere anche i suddetti conflitti identitari – e di conseguenza la discontinuità, l’incoerenza e la negatività rivolta a sé –, ogni situazione critica dev’essere vissuta in modo positivo e ciò può accadere solo se associata al processo di transizione. Questa può risultare “morbida” (tenere duro) o “dura” (caduta e atto del rimbalzare), ma in entrambi i casi implica il fatto che la crisi in sé rappresenti, in realtà, un fenomeno di passaggio più o meno “controllato” che sfocerà in una nuova stabilità, in un nuovo benessere (Tap et al., 2002).

A sostegno di quanto asserito sinora, riportiamo qui di seguito i risultati ottenuti da Schumacher e coll. (2013) nella loro indagine per dimostrare che la resilienza può aiutare a capire le variazioni individuali nell’adattamento post trapianto allogenico2 di cellule staminali (alloSCT). Sono stati reclutati 75 pazienti con leucemia,

2 Il trapianto può essere fatto con cellule staminali prelevate da un familiare o da un non

consanguineo (trapianto allogenico da familiare o da volontario non apparentato) oppure dal paziente stesso (trapianto autologo). Il trapianto autologo (o autotrapianto) consiste nella re-infusione al paziente del proprio midollo prelevato in un momento favorevole della malattia (per esempio, dopo una remissione clinica in corso di leucemia) e conservato congelato, in genere in azoto liquido (a meno 196ºC) (ADMO Puglia Onlus, 2008).

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linfoma, mieloma e anemia aplastica, di età compresa tra i 20 e i 76 anni, per valutare il loro livello di resilienza successivamente ad alloSCT. Gli strumenti che sono stati utilizzati dagli autori sono la Resilience Scale RS-25, l’Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS), la General Self-efficacy Scale e l’EORTC QLQ-C30. L’intero campione è stato suddiviso in due gruppi differenti: pazienti con alto livello di resilienza vs. pazienti con basso livello di resilienza; pazienti in base a resilienza e intervallo di tempo susseguitosi all’alloSCT. Ciò che è emerso da questo studio è che l’intervallo di tempo trascorso dall’alloSCT ha una potente influenza sulla resilienza dei pazienti e il fatto di possedere un alto grado di quest’ultima mostra parallelamente migliori qualità di vita e funzionamento fisico, emozionale e sociale rispetto ai pazienti con bassi livelli di resilienza. Per di più, pazienti con alto grado di resilienza hanno riportato un diminuito livello d’ansia e di depressione e un aumentato livello di autoefficacia.

Appare chiaro, quindi, come la resilienza – ma anche l’autoefficacia, ritenuta una risorsa positiva per la gestione delle crisi e delle malattie – possa essere considerata un fattore psicosociale protettivo per pazienti con patologie cancerose e possa aiutarli ad adattarsi alla propria situazione e a riprendere la conduzione della propria vita quotidiana. La ricerca di altre variabili psicosociali protettive necessita, tuttavia, di ulteriori analisi e approfondimenti.

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1.5. GLI EFFETTI SULL’IDENTITA’

Arrivati a questo punto della trattazione, è opportuno aprire una parentesi per soffermarsi brevemente sulla profondità e sulla gravità che possono essere raggiunte dall’azione distruttrice che può assumere una malattia cronica come il cancro. Non si tratta solo di scalfire superficialmente la persona colpita (sintomi, dolore), ma anche, e soprattutto, internamente e profondamente come già accennato (perdita della propria continuità, coerenza, positività, distorsione della propria figura e della stima di sé, perdita dei propri valori etc.). Può capitare, infatti, che alcuni individui a cui viene diagnosticata la malattia possano non essere in grado di sviluppare una giusta autoconsapevolezza e coscienza della situazione e che non riescano, perciò, ad attuare delle adeguate strategie di fronteggiamento e adattamento per superare i momenti più critici causati dalla malattia stessa. E’ possibile, quindi, che si verifichi un tracollo della persona più o meno possibile da risolvere, dal momento che va a sgretolare le fondamenta su cui si sono costruite l’identità e la personalità di tale individuo, il suo intero Sé.

A tale proposito, potremmo portare come esempio più emblematico la complicazione neuropsichiatrica più comune e devastante tra i pazienti oncologici (Lawlor & Bruera, 2002): il Delirium, ovvero un disturbo della coscienza accompagnato da cambiamenti nella cognizione che non possono essere giustificati dalla presenza di un pre-esistente quadro demenziale (Sannino & Ciaramella, 2015). Si caratterizza per una ridotta capacità di focalizzare, sostenere o spostare l’attenzione, alterazioni delle funzioni cognitive, sintomatologia fluttuante e presenza di una causa organica (American Psychiatric Association, 2000). L’eziopatogenesi del delirium in oncologia è piuttosto varia: secondo Lawlor e coll. (2000) ogni episodio delirante non è dovuto ad una singola causa organica, bensì a ad una molteplicità di fattori che, interagendo in maniera negativa gli uni con gli altri, determinano l’insorgenza del disturbo. Infatti, anche nel paziente oncologico i fattori di rischio per l’insorgenza del delirium sono rappresentati da età avanzata e difficoltà cognitive, ma, in questa particolare popolazione clinica, costituiscono degli elementi di vulnerabilità anche le metastasi ossee e i tumori ematici, le chemioterapie e gli oppioidi utilizzati per la cura del dolore (Ljubisavljevic & Kelly, 2003). In aggiunta, in almeno il 50% dei casi una persistenza del disturbo può

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determinare una riduzione del periodo di sopravvivenza soprattutto in soggetti con più di 50 anni (Maltoni et al., 2005; Cole, 2009).

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1.5.1. IL CONCETTO DI SE’ E L’IMMAGINE CORPOREA “Non c'è presa di coscienza senza dolore”

(Carl Gustav Jung)

“Andare sulla luna, non è poi così lontano. Il viaggio più lontano è quello all’interno di noi stessi”

(Anaïs Nin)

Il corpo è unico in quanto viene esperito sia dal di dentro sia dall’esterno; esso è contemporaneamente sé ed oggetto. Il modo in cui sono soggettivamente consapevole del mio corpo è diverso dal modo in cui percepisco un blocco di legno. Ma sono pure consapevole che il mio corpo è un oggetto nel mondo, visibile e tangibile.

Per la maggior parte del tempo noi non abbiamo consapevolezza del nostro corpo, ma in una condizione di estrema ansia, di dolore o di eccitamento sessuale, per esempio, è presente una consapevolezza dei sistemi fisiologici o degli organi in quanto oggetti: “il cuore mi batte, mi tremano le dita” (Sims, 2009). Per il resto del tempo noi assumiamo che le parti del corpo siano integrate in un “sé” di cui non abbiamo consapevolezza in modo separato, e che, anzi, diamo per scontato. Ma è grazie al nostro corpo che noi entriamo in contatto con il mondo che ci circonda, e lo facciamo attraverso i “movimenti” che esso riesce a compiere.

Sono molti i termini che vengono utilizzati per descrivere il modo in cui una persona concettualizza se stessa, ma tutti quanti si riferiscono approssimativamente alla stessa cosa, solo con sfumature differenti. Ad esempio: il concetto di sé tende a far riferimento alla coscienza piena e alla consapevolezza astratta di sé; il termine immagine corporea è più focalizzato sugli aspetti inconsci e fisici, ma anche su quelli esperienziali della consapevolezza corporea; lo schema corporeo implica invece un qualcosa che a volte viene concettualizzato come indipendente dalla propria “gabbia”, il corpo, ovvero un elemento spaziale che perciò risulta generalmente più esteso del corpo stesso e dipendente dalle circostanze.

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Ovviamente gli aspetti sociali hanno la loro importanza; secondo Schilder (1935), infatti, l’immagine corporea non è mai isolata, ma sempre circondata da quelle degli altri, questo proprio perché hanno una natura sociale. Tuttavia, la nostra immagine corporea e il modo in cui ci vedono gli altri non dipendono l’una dall’altra; ciò significa che una persona si vede e forma un’immagine di sé in un contesto sociale, ma il suo punto di vista su se stesso, in verità, non dipende da come un’altra persona lo vede, quanto piuttosto da come egli crede che le persone lo possano vedere. Secondo Bahnson (1969) invece, l’unica cosa che l’individuo percepisce è una ridotta varietà di possibili immagini di sé, che sviluppa man mano che riesce ad aumentare gli scopi e la complessità delle proprie relazioni: “i sé fenomenologici si sovrappongono gli uni agli altri come gli strati di una cipolla”, per cui una cosa e ciò che osserva quest’ultima non possono essere lo stesso oggetto, non possono coincidere, ma tuttavia è insito nella natura del sé o io il fatto di poter essere esperito o come oggetto o come soggetto.

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1.5.2. I DISTURBI DEL SE’ (O DISTURBI DELL’IO)

“Fino a quando non siamo perduti non cominciamo a conoscere noi stessi” (Henry David Thoreau)

“Ogni uomo ha in sé diversi uomini, e la maggior parte di noi rimbalza da un’identità all’altra senza nemmeno sapere chi è”

(Paul Auster)

Si tratta di esperienze interiori anomale dell’incertezza del sé e dei suoi domini che si riscontrano nei disturbi psichiatrici e possono intervenire nello stato di consapevolezza interiore del paziente (Berrios & Markova, 2003). Secondo Jaspers (1913 [1959]), quest’ultima consisteva nella capacità di distinguere l’io dal non io in base a quattro caratteristiche formali, le quali però sono state successivamente riprese da Scharfetter (1981, 1995, 2003) e arricchite di una quinta dimensione, la vitalità dell’io – in precedenza appartenente alla consapevolezza dell’attività. Ad oggi, quindi, le cinque dimensioni della consapevolezza del sé e le loro relative anomalie sono le seguenti:

 SENTIMENTO DELLA CONSAPEVOLEZZA DI ESSERE O ESISTERE (vitalità dell’io)

Il fatto di sapere di esistere fonda la consapevolezza di sé, è un assunto che si accetta come una certezza assoluta. Ma questa dimensione dell’essere, ovvero l’esperienza che un paziente fa della sua stessa esistenza, può venire alterata; ad esempio, nella DP si verifica come alterazione dell’esperienza di sé accompagnata dal sentimento di un mutamento, o una perdita del significato attribuito al sé (“mi sento irreale, confuso, come se non fossi più certo di essere ancora me stesso”) (Nietzsche, 1901; Berrios & Markova, 2003).

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 SENTIMENTO DI CONSAPEVOLEZZA DELL’ATTIVITA’ (attività dell’io)

Possibilità di riconoscersi in qualità di soggetto attivo, capace di avviare e svolgere i propri pensieri e le proprie azioni, per cui si è consapevoli che l’esperienza affrontata ha la qualità unica di essere propria. E’ proprio nelle nostre azioni, incluso il pensiero, che troviamo la conferma della nostra esistenza (Nietzsche, 1901). Tuttavia, in questa dimensione movimento, memoria, immaginazione e volontà possono subire alterazioni.

 CONSAPEVOLEZZA DI UNITA’ (consistenza e coerenza dell’io)

In qualsiasi momento si è in grado di affermare di essere una sola persona, ovvero si ha un alto livello di integrazione tra il pensato e l’agito. In alcune condizioni però, come ad esempio anche un semplice sogno, questa unità può andare perduta e il sé può divenire sia osservatore che oggetto osservato. Nella letteratura psichiatrica questo disturbo si può riscontrare nei fenomeni autoscopici, del doppio o Doppelgänger e di personalità multipla (Bahnson, 1969; Damas Mora et al., 1980; Lukianowicz, 1958; Fish, 1967; Sims, 1994; Todd & Dewhurst, 1962):

 AUTOSCOPIA (eautoscopia): rappresenta un’esperienza di sdoppiamento somatico che rientra in quelle rare esperienze caratterizzate dalla presenza di due personalità simultanee nello stesso soggetto con caratteri di identità ben definiti e indipendenti (sdoppiamento della personalità) ed ascrivibili al disturbo dell’unità dell’Io - pur non coincidendo propriamente con le personalità multiple. In generale, è stata definita come perdita del senso di familiarità per se stessi, ma anche come “percezione allucinatoria psicosensoriale complessa in cui un soggetto esperisce la propria immagine corporea proiettata nello spazio visivo esterno” (Lukianowicz, 1958), e illustrata come “strana esperienza in cui il paziente è in grado di vedersi e di sapere che ciò che vede è se stesso. Non è semplicemente un’allucinazione visiva, dal momento che sensazioni cinestesiche e somatiche devono essere presenti insieme

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per dare al soggetto l’impressione che l’oggetto allucinato è lui stesso” (Fish, 1967). Successivamente, la sua definizione è stata notevolmente allargata riferendola all’“esperienza di duplicazione del proprio sé reale” (Damas Mora, Jenner, Eacott, 1980), che comprende appunto la forma descritta sinora di allucinazione autoscopica (allucinazione speculare); il delirio autoscopico (delirio del doppio soggettivo), ovvero una credenza delirante e permanente che esista una forma concreta di sé separato in cui manca però l’esperienza percettiva complementare; ed infine la depersonalizzazione autoscopica, simile al Doppelgänger o esperienza del sosia descritta di seguito.

 FENOMENO DEL DOPPIO: DOPPELGÄNGER (fenomeno soggettivo del sosia): consiste nella consapevolezza di sé come esistente al tempo medesimo fuori, di fianco e dentro di sé, per cui il soggetto ha visione dell’immagine di se stesso o di parti di essa (volto, testa, busto) come fosse posta a breve distanza e di dimensioni naturali. L’immagine è trasparente, di consistenza simile alla gelatina, come se fosse proiettata sul vetro, priva di colore e con particolari nitidi. Si manifesta per lo più di notte o al tramonto e dura solo pochi secondi. E’ un fenomeno cognitivo e ideativo piuttosto che necessariamente percettivo; infatti, la visione di se stesso o del sosia compare nel folklore e nelle credenze religiose di molte società primitive soprattutto del Nord Europa, principalmente considerato come sinistro presagio di morte (vedere poco prima di morire il proprio doppio fluttuare davanti agli occhi assieme a tutti gli atti più riprovevoli compiuti in vita) (Todd, Dewhurst, 1962), ma sembra essere stato sperimentato anche da vari narratori e poeti (Maupassant, Wilde, Richter, Shelley, etc.). La peggiore caratteristica del “doppio”, però, rimane il terribile coinvolgimento che lo lega al soggetto e lo costringe a subire mortificazione e distruzione del doppio e/o del sé. Styron (1990), descrisse tale distruttività nella malattia depressiva grave come “la sensazione di

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essere accompagnati da un secondo sé – un osservatore-spettro, capace di osservare con curiosità indifferente mentre il suo compagno si batte contro il disastro imminente, o decide di accettarlo”.

 PERSONALITA’ MULTIPLA (disturbo dissociativo dell’identità): è un fenomeno che va contro alla naturale intuizione per cui ogni essere umano è indivisibile e consiste nella personificazione di una singola individualità proprio per il fatto che rende manifesta l’esistenza di almeno due personalità aggiuntive all’interno di una stessa identità. Vengono incluse negli stati dissociativi (isterici) (Abse, 1982; McDougall, 1911; Prince, 1905) e nella pratica clinica sono vengono distinte in personalità parziali simultanee; ben definite che si succedono; multiple a grappolo. (Fahy, 1988; Larmore et al., 1977; Merskey, 2000; SIMS, 1994)

 CONSAPEVOLEZZA DI IDENTITA’ (identità dell’io)

Normalmente vi è una continuità biografica, fisionomica, di appartenenza di genere, di origine genealogiche etc., ovvero si può affermare di essere sempre stati la stessa persona. Può capitare che un individuo si senta molto cambiato rispetto a ciò che egli era, ma solitamente si verifica in seguito ad una situazione di vita particolarmente importante oppure nel corso dello sviluppo in assenza di un evento esterno. Quando questo aspetto viene intaccato più gravemente, però, possono manifestarsi dei cambi dell’identità del sé nel tempo. Il sentimento di continuità per se stessi e per il proprio ruolo, infatti, viene tramutato in un’esperienza di passività, per la quale si nutrono dei dubbi circa la continuità di noi stessi dal nostro passato fino al nostro presente. Questa condizione è tipica anche dei pazienti schizofrenici in quanto insistono che ad una certa epoca della loro vita sono stati completamente cambiati in altre persone, le quali risultano essere appunto quelle che sono adesso.

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 CONSAPEVOLEZZA DEI CONFINI DEL SE’ (demarcazione dell’io) Essere coscienti della diversità che ci distingue dalle altre cose e da altri esseri viventi, o meglio saper riconoscere ciò che è me stesso dal mondo esterno, il confine esistente tra sé e non sé. Il sintomo che caratterizza la condizione opposta, invece, è proprio un’alterazione di quella coscienza, ovvero l’incapacità di discernere dove finisca l’io e cominci il non io: “Se dalla stanza usciva qualcuno mi sentivo come se mi avessero sottratto qualcosa. Diventavo più piccolo e mi sentivo assai vulnerabile” (Sims, 2009). Non è uno stato correlato unicamente alla schizofrenia ma può presentarsi anche in altri condizioni, quali ad esempio quella di intossicazione da dietilammide dell’acido lisergico (LSD) (Anderson & Rawnsley, 1954).

Tutte queste anomalie della consapevolezza del sé fanno parte di quello che è il carattere particolarmente spiacevole dell’esperienza dissociativa subìta dall’individuo e che diviene, per esso, il fulcro della sua descrizione esperienziale, attorno alla quale si sviluppano appunto i vari sintomi correlati (Ackner, 1954). Ma tale descrizione, in realtà, è rappresentata più da una sorta di precisazione ricercata dal paziente nel tentativo di indicare un uso metaforico delle parole nelle sue esposizioni, poiché è difficile per il medico delineare fenomeni simili ma è altrettanto, se non maggiormente difficile, per il paziente trovare il modo di descriverli. Più precisamente, il concetto di base legato ad essi viene definito sentimento del “come se” (Hélène Deutsch, 1934; Ackner, 1954; Fewtrell, 1986; Saperstein, 1949). Da non sottovalutare a questo riguardo, è anche il fattore culturale che tende appunto a differenziare da popolo a popolo, a seconda dei costumi, le credenze e le valutazioni sui vari sintomi e sulle varie malattie in cui essi possono imbattersi, cosicché ogni paziente può essere spinto a considerare questi ultimi allo stesso modo della comunità nella quale è cresciuto. Per questo motivo, il sentimento del “come se” viene utilizzato per cercare di comunicare nel modo più semplice ed esplicativo possibile quella percezione delle esperienze sgradevoli come uniche per se stesso, tanto da portare alcuni individui inizialmente

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ad ometterle oppure a premettere in modo imbarazzato che si tratta di episodi che lo stesso ascoltatore reputerà bizzarri:

“Lei dottore penserà che io sono molto particolare, quando le dirò questa cosa, ma…”;

“Mi sento strana nella testa. Ho un grosso tormento. La mente non vuol lasciarmi sola. E’ quello che mi circonda; non posso riguadagnare la mente a me stessa. Mi sento come se stessi per mancare. Mi sento come se fossi persa nella nebbia. Mi

sento proprio come se non fossi in me. Mi sento annebbiata”. (Sims, 2009) In realtà, questa esperienza del “come se” è molto comune tra i pazienti psichiatrici e si verifica nel 30% di ogni prima visita ambulatoriale (Sims, 2009).

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1.6. ENRICO CHELI: COME RAGGIUNGERE LA PROPRIA AUTOCONSAPEVOLEZZA, LA CONOSCENZA DI SE’, ATTRAVERSO LA COMUNICAZIONE INTRAPERSONALE DELLE MOLTEPLICI SUB-PERSONALITA’

“Possono abitare allo stesso indirizzo, ma l’uomo che rincasa è sempre diverso da quello che è uscito la mattina”

(Henry Ford)

“Il nostro senso dell’io nasce nelle nostre interazioni sociali: gli altri sono gli specchi che riflettono la nostra immagine, un’idea che è stata riassunta nella

frase: «Sono ciò che penso che tu pensi che io sia»” (Daniel Goleman)

Per conoscere se stessi – quindi sviluppare al meglio la propria autoconsapevolezza ed autoconoscenza così da essere “pronti”, “più efficaci” di fronte alle situazioni ostili proprio come il fatto di dover affrontare una malattia – è necessario ampliare ed affinare la propria consapevolezza, intesa come la capacità di prestare attenzione a ciò che esiste e accade dentro e fuori di noi, interpretandolo correttamente. Ma per far ciò dobbiamo essere il più possibile liberi da pregiudizi, da condizionamenti, da credenze e schemi culturali, politici e religiosi che possano distorcere la nostra percezione e il nostro giudizio. Nessuno è esente da pregiudizi e condizionamenti, se però accettiamo questa realtà con umiltà e disponibilità a metterci in discussione, possiamo ricercare in noi i pregiudizi e i condizionamenti e, pian piano, ripulirci e liberarci. Perché questo percorso avvenga, perché la paura del cambiamento venga superata, occorre una motivazione più forte, talvolta drammatica, come il ritrovarsi per l’appunto ad affrontare una crisi.

La conoscenza di noi stessi si limita, dunque, a quella ristretta parte di noi che i valori e le credenze della nostra cultura ci permettono di ammettere senza vergogna né scetticismo (coscienza ordinaria), mentre sappiamo poco o nulla di ciò che sta al di sotto della coscienza (sub-conscio), di ciò che sta al di sopra (super-conscio) e di ciò che sta attorno (inconscio collettivo). Possiamo però colmare queste lacune ed

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esplorare questi mondi interiori, ed è un viaggio che vale la pena di fare perché lì risiedono molte delle cause dei nostri problemi, anche relazionali, e molte delle capacità latenti che, se opportunamente coltivate, ci aiuteranno a risolverli.

Oltre alla suddivisione della coscienza nei tre livelli illustrati, è importante tenere presente anche un altro fattore: la molteplicità della personalità. Secondo vari psicologi (da Jung a Berne, da Pearls agli Stone), la personalità umana non è qualcosa di unitario e coerente come molti avevano ritenuto, ma si compone di un insieme di tratti o sub-personalità distinte e non necessariamente coerenti e collaborative tra di loro, in quanto ognuna è portatrice di propri bisogni e proprie modalità espressive e interattive. Ciò che rimane comune a questo insieme, tuttavia, è il desiderio che abbiamo fondamentalmente tutti sin da bambini di essere accettati ed apprezzati, da cui consegue la tendenza ad enfatizzare certi tratti e a nascondere e rinnegare gli altri. Ecco, allora, che solo una parte della personalità potenziale viene riconosciuta come propria dall’individuo e sviluppata, mentre la parte rimanente viene rimossa o, come sostengono H. Stone e S. Stone (2003), rinnegata, e pertanto imprigionata nel subconscio. Ma da un punto di vista comunicativo, quindi interpersonale oltre che intrapersonale, entrano in gioco non solo le sub-personalità coscienti, ma anche tali parti rinnegate, le quali danno luogo a vari fenomeni disfunzionali e patogeni (ad esempio la proiezione delle proprie paure sull’altro). Di conseguenza, più che comunicare veramente con l’altro comunichiamo con i nostri conflitti e fantasmi interiori, proiettati sull’altra persona senza realmente ascoltare la sua unicità, capirla ed entrarci in contatto.

L’apporto terapeutico consiste, allora, nel rendere l’individuo consapevole della sua molteplicità e nel riportare a livello conscio il dialogo tra le diverse sub-personalità – quelle accettate e quelle rinnegate – aiutandolo a risolvere i conflitti tra i diversi punti di vista e i diversi bisogni di cui ogni sub-personalità è portatrice e ad integrarle nella propria identità globale. Perciò, per arrivare anche a comprendere e migliorare i nostri rapporti con gli altri in una visione più ampia rispetto alla nostra sola persona, è importante prendere consapevolezza dell’influenza che i membri della nostra famiglia interiore3 (o sé) esercitano sui nostri pensieri e sul nostro agire

3 Stone & Stone (2003) sostengono l’esistenza di una famiglia interiore oltre che esteriore,

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sociale. Oltre a tali sé ben integrati con la struttura di valori del nostro sistema familiare e socioculturale e denominati dagli Stone sé primari, sono presenti nella personalità anche altre parti che rappresentano i valori opposti, quelli che sono stati rifiutati durante il processo di crescita: i suddetti sé rinnegati o rifiutati. Questi sé riposano nel nostro inconscio, aspettando l’occasione di emergere e di vedere considerati i loro bisogni e i loro sentimenti: anche se inconsci, hanno un impatto straordinariamente potente sulle nostre vite (ad esempio, nelle proiezioni ed aspettative nei confronti di altre persone). Il presupposto terapeutico di fondo, come già Jung aveva intuito, è che i sé rinnegati (da lui chiamati lati ombra) non sono negativi in assoluto ma solo fino a quando vengono ritenuti tali e confinati nell’inconscio. Al contrario, se si ha il coraggio di prenderne coscienza e di dialogare con essi, è possibile trasformarli da elementi negativi in risorse altamente creative e positive migliorando sia il nostro senso di identità, sia la qualità delle relazioni con gli altri. Infatti Jung (1977), parla inizialmente del concetto di “ombra” riferendosi agli aspetti della personalità di cui non siamo consapevoli e che tendiamo invece a vedere e disprezzare nelle altre persone, come l’invidia, la rabbia, la gelosia e via dicendo. Li giudichiamo negativamente, non ammettiamo a noi stessi di averli e li proiettiamo sugli altri, privandoci così anche dei loro lati positivi. Tali aspetti, infatti, sono negativi solo se presenti in eccesso, altrimenti vanno considerate delle caratteristiche preziose ed utili per l’individuo perché niente è negativo o positivo in assoluto, tutto dipende dalle quantità. L’ “ombra” è negativa più per il fatto che la crediamo tale e che la temiamo, che non per la sua natura intrinseca.

Se la comprensione e l’integrazione di queste considerazione non avviene, la presa di coscienza e di consapevolezza si sgretola e con essa anche l’individuo stesso in ogni suo pensiero e valore connaturato, portandolo inesorabilmente alla resa. Ma la risoluzione può giungere anche dall’esterno, soprattutto nelle situazioni peggiori e più rischiose: il rapporto interpersonale può fare la differenza, può ribaltare totalmente le circostanze ma solo se generato ed utilizzato nel modo giusto, ovvero quello più adatto per il paziente in questione.

nostri amici o di chiunque abbia una qualche influenza su di noi, oppure, all’inverso, costituita da caratteristiche di personalità (o sé) che rappresentano gli schemi esattamente opposti.

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1.6.1. L’ASCOLTO E L’EMPATIA COME STRUMENTI DI AIUTO SECONDO CHELI

“L’incapacità dell’uomo di comunicare è il risultato della sua incapacità di ascoltare davvero ciò che viene detto”

(Carl Ransom Rogers)

“Dobbiamo imparare a considerare le persone meno alla luce di ciò che fanno o dimenticano di fare, e più alla luce di ciò che soffrono”

(Dietrich Bonhoeffer)

“Non passione ci vuole, ma compassione, capacità cioè di estrarre dall’altro la radice prima del suo dolore e di farla propria senza esitazione”

(Fëdor Dostoevskij)

C’è un grande potenziale di consapevolezza e crescita personale nelle relazioni interpersonali: in primo luogo perché forniscono occasioni di confronto e di scambio; in secondo luogo perché ci permettono di scoprire tramite l’altro aspetti di luce e di ombra che ci appartengono ma di cui non siamo consapevoli, o perché li abbiamo rinnegati e rimossi, o perché non abbiamo ancora avuto la possibilità di scoprirli; in terzo luogo perché ci permettono di prendere coscienza della nostra responsabilità e del nostro potere, di capire cioè che ciò che di positivo o di negativo ci accade nei rapporti con gli altri dipende in larga misura da noi stessi, dalla nostra visuale ampia o ristretta, dal nostro approccio amichevole o ostile, dal nostro atteggiamento ottimista o pessimista. Questi aspetti racchiudono grande importanza nelle relazioni che si istaurano in un contesto di malattia come il cancro, o in quelle che ne subiscono l’influenza, e proprio per favorire la maturazione di quel gran potenziale utile al paziente si tende a far leva su alcuni delicati elementi relazionali che possono costituire una premessa di rilievo per una comunicazione efficace, la quale faccia da tramite al paziente stesso per ottenere quella maggior

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consapevolezza e coscienza di malattia che gli permettano di mantenere il controllo sui suoi pensieri e sulle sue auto-considerazioni.

Ciò a cui stiamo indirettamente alludendo riguarda sia la capacità di ascolto e di osservazione che l’empatia:

 ASCOLTO: non è solo un mezzo per aumentare l’efficacia comunicativa ma è anche un fine, o meglio, il fine per eccellenza della comunicazione. Ascoltare l’altro significa sia cercare di capire cosa sta dicendo (ascolto del messaggio che l’interlocutore cerca di inviarci), sia come sta reagendo ai nostri messaggi mentre ci ascolta (ascolto del feedback che viene rimandato all’interlocutore). Nel primo caso, si tratta di un’attività più semplice in quanto più familiare e richiedente minor complessità; nel secondo caso, invece, la difficoltà aumenta poiché necessita di un’abilità che non siamo abituati ad attuare spesso e soprattutto deve essere eseguita mentre siamo impegnati a parlare, perciò dobbiamo distribuire la nostra attenzione su più fronti. Tale feedback, più in generale, esprime la reazione di ciascun soggetto ai messaggi provenienti dall’esterno, a prescindere dalla loro intenzionalità e consapevolezza, e può interessare sia quanto viene espresso verbalmente a seguito di un determinato messaggio, sia ciò che viene esternato attraverso un comportamento, un atto che risulta collegabile “causalmente” alle diverse componenti del sistema comunicativo (ad esempio: rispondere con certi argomenti piuttosto che con altri ad una data domanda e, nonostante ciò, ricevere comunque una risposta). Perciò il significato del feedback, come del resto di ogni altro messaggio, non dipende solo dalle parole usate ma anche dalla comunicazione non verbale, come l’espressione del volto, la gestualità, il tono della voce e via dicendo. Un altro aspetto importante del feedback è che esso non si manifesta sempre in modo chiaro ed univoco, così come può darsi il caso che, per vari motivi, esso esprima una reazione che non è quella reale bensì una simulazione intenzionale; oppure può accadere che a livello razionale la persona reagisca in un modo ma a livello inconscio reagisca in un altro, così che conseguiranno due significati compresenti e contraddittori, rispettivamente veicolati dalle parole e dal linguaggio non verbale.

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Ai fini di una effettiva comprensione di quanto sta davvero avvenendo durante la comunicazione, diviene, quindi, indispensabile saper osservare ed interpretare correttamente i messaggi non verbali, soprattutto quando ci troviamo faccia a faccia con persone fragili e spossate a causa della malattia che stanno affrontando e per cui hanno perso stabilità, certezze, stima e valori di sé, e spesso anche la forza di desiderare ancora di poter tornare alla loro normalità. Così, rientrerebbero in questo ambito tutte quelle strategie attive (ascolto attivo) attraverso le quali è possibile migliorare il contatto e la sintonia con l’altro, con il paziente, e ottenere da questo ulteriori utili informazioni per comprenderlo meglio – facendogli domande su aspetti specifici che riteniamo importanti, riassumendo con parole nostre quanto abbiamo capito del suo punto di vista e sottoponendoglielo affinché ci dica se abbiamo capito bene o meno, facendolo sentire ascoltato con la richiesta di informazioni per poter fare maggior chiarezza, manifestando il proprio interesse per quanto dice ed esprimendo segnali di comprensione appropriati.

 EMPATIA: concetto neutro, libero da connotazioni di senso comune (come la simpatia, o meglio simpateticità, che significa propriamente stesso-sentire4) o religiose (come la compassione5). Il termine deriva dal greco empatheia (sentire dentro) e fu inizialmente utilizzato dai teorici dell’estetica6 per indicare la capacità di percepire l’esperienza soggettiva altrui, mentre il primo psicologo ad utilizzarlo fu Titchener negli anni ’20, il quale cercava proprio un’espressione diversa rispetto a “simpateticità” (sympathy). Egli riteneva che l’empatia scaturisse dall’imitazione fisica della sofferenza altrui, che poi evocava a sua volta gli stessi sentimenti anche nell’imitatore; pertanto, comportava una vera e propria immedesimazione nello stato dell’altro. Successivamente, però, il termine

4 Ci permette di entrare in contatto diretto con l’altra persona, fino in alcuni casi a fondersi in

un’unica esperienza.

5 Capacità di entrare in contatto col sentire dell’altro, a prescindere dalla somiglianza e dall’affinità. 6 Robert Vischer, studioso di arti figurative nell’ambito della riflessione estetica, alla fine

dell’Ottocento introdusse il termine di Einfühlung per definire la capacità della fantasia umana di cogliere il valore simbolico della natura. Solo successivamente (1909) venne tradotto in lingua inglese come empathy (Benelli & La Spina).

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ha assunto una seconda accezione, soprattutto in ambito psicoterapeutico, secondo la quale l’empatia sarebbe un sentire l’altro senza confonderlo con il sé: un processo volontario e consapevole in cui, dopo aver sospeso ogni giudizio morale, ci si immedesima nell’altro, ci si mette nei suoi panni, si avvertono eventuali risonanze con le proprie emozioni e situazioni, mantenendo però la necessaria lucidità e la consapevolezza dei confini tra la propria identità personale e quella dell’altro. La simpateticità, la compassione e l’empatia hanno tutte il loro precursore in quella esperienza simbiotica di fusione sensoriale ed emozionale che caratterizza in genere la relazione madre-bambino nella prima infanzia e che vari autori definiscono del contagio empatico (Hoffmann, 1987; Draghi & Lorenz, 1995). Quest’ultimo comporterebbe un “pieno immedesimarsi” nella realtà emotiva dell’altro e presuppone sia un automatismo emotivo non differenziato (chiamato “empatia globale” da Hoffmann), sia funzionamenti di tipo imitativo-reattivo.

L’empatia viene ritenuta da molti autori una delle capacità più importati per migliorare la relazione con gli altri e poterli all’occorrenza aiutare a superare difficoltà comunicative, incomprensioni, sofferenze affettivo-emozionali. Le esperienze di condivisione emotiva, se liberamente vissute, possono rappresentare non solo uno strumento per aiutare l’altro, ma anche un’opportunità di arricchimento reciproco. Accogliere su di sé il dolore dell’altro richiede però una sufficiente integrità psichica, tale cioè da non sentirsi minacciati dalla risonanza interna di emozioni negative (Underwood & Moore, 1977; Barnett, 1979). Per aiutare gli altri è fondamentale sentire come stanno, sapersi porre in contatto con loro attraverso l’ascolto e, se possibile, l’empatia e far sentire loro che sono accolti, che ci siamo e che il contatto è reale. Questo, tuttavia, può comportare anche dei problemi poiché attivare un contatto empatico con una qualsiasi persona che sta molto male con se stessa a causa di una malattia, significa provare dolore, almeno per un po’ di tempo, anche per chi se ne prende cura. E’ il caso di molti operatori sanitari che tendono, di fatto, a mantenere le distanze sul piano emotivo – soprattutto in contesti di malattie a lento decorso, con scarsa tendenza a

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risolversi oppure irreversibili – divenendo a volte fin troppo asettici e distaccati: tale condotta starebbe a simboleggiare un modo per esorcizzare la malattia, per proteggersi da un eccesso di emozioni e sofferenze che non si è in grado di gestire, un po’ come accade al paziente stesso che vive ancora più intimamente la condizione in cui si trova. Un’alternativa al chiudere definitivamente il canale empatico però esiste e viene definita empatia matura, ovvero una dimensione dell’esperienza spontanea di immedesimazione con l’altro più evoluta e consapevole che rimanda ad una padronanza del proprio sentire al punto da dirigerlo dove, come e quando si desidera, sentendo la sofferenza dell’altro quel tanto che basta a capire come poterlo aiutare e a farlo sentire compreso, ma sempre rimanendo centrati su di sé.

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1.7. APPROCCIO PSICOSOCIOLOGICO E CONCETTO DI QoL

“E ancora mi azzardo a sbandare con le onde, infilare le mani nel pulsare delle meduse, bucare il cielo con i morsi, scavare la terra fino a toccare la lava al suo

centro e poi battermi con il buio perché non sorprenda il mondo. Ancora mi azzardo a sentire la vita”

(Fabrizio Caramagna)

“La vita è come un’eco: se non ti piace quello che ti rimanda, devi cambiare il messaggio che invii”

(James Joyce)

La qualità di vita è un concetto che, a prima vista, può apparire semplice a causa del largo utilizzo che ne viene fatto. Tuttavia, è necessaria una certa cautela poiché, a seconda del contesto in cui viene inserito, il senso di questo concetto può variare. Perciò, come ha sottolineato anche Martin (1999), ci sono diversi approcci all’argomento che devono essere presi in considerazione. Focalizzandosi, ad esempio, su quello psicosociologico vediamo come i professionisti in tale campo si sono occupati principalmente di “verità di ciascuno sulla qualità di vita” piuttosto che di “verità sulla qualità di vita”, concentrandosi sulla valutazione del livello di qualità di vita di una popolazione. Parallelamente, i sociologi si sono interessati alle componenti affettive e cognitive della felicità – definita come benessere psicologico, soddisfazione di vita, adattamento sociale e qualità di vita – e del benessere, nonché ai fattori interni (nozione di scopo e di senso di vita, sentimento di efficacia personale, relazioni sociali, autostima, bisogni, desideri, aspirazioni, elementi psicopatologici) ed esterni (aspetti sociodemografici, eventi di vita, sostegno sociale). Così facendo, però, hanno trascurato la componente comportamentale, la quale è stata ripresa successivamente – tramite la definizione di attitudine – proprio per delineare il concetto di qualità di vita. Tale nomenclatura è divenuta ufficiale soltanto nel 1976 con i lavori di Bradburn sulla struttura psicologica del benessere. In definitiva, quindi, il concetto di qualità di vita,

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