• Non ci sono risultati.

L’EDIFICIO LINGUISTICO-LETTERARIO DI CAMILLO SCROFFA

CAMILLO SCROFFA E I CANTICI DI FIDENZIO

7. L’EDIFICIO LINGUISTICO-LETTERARIO DI CAMILLO SCROFFA

L’esperimento scroffiano prende corpo all’interno della grande dicotomia rinascimentale tra petrarchismo ostentato fino a ridursi in “voga capricciosa”160

e un antipetrarchismo che potremmo azzardare a definire “costruttivo”, sulla base dell’acuta definizione di Graf: “Se il petrarchismo importa, anzi tutto, una esagerata venerazione pel Petrarca, l’antipetrarchismo non include di necessità avversione al grande imitato, ma è più spesso semplice avversione alle dottrine, agl’intendimenti e alla pratica letteraria degli imitatori”161

. La parodia, dunque, diventava l’unica valvola di sfogo di spiriti “potenti per intelletto, ma mancanti di quei nobili sentimenti, ch’erano stati

157 “C.S. lasciatosi dietro nome et fama di non esser stato meno erudito de le greche, latine e volgari

lettere, che destrissimo et eccellentissimo in poesia” (da I. Marzari, La historia di Vicenza divisa in due

libri, Venezia, 1591, II, p.199).

158 Camillo Scroffa, I Cantici di Fidenzio con appendice di poeti fidenziani, a.c. di Pietro Trifone, 1981,

Roma, Salerno Editrice, p.XLVIII.

159 Ne dà notizia una carta del fratello Niccolò, scritta il 24 ottobre 1574: “…ho voluto destender a mia

satisfazione li conti nelli quali si convengono tutte le partite di dinari, che sono pervenuti alle mie mani, incominciando dall’anno 1564 del mese di Ottobre, nel quale tempo Camillo mio fratello, che in bona parte disponeva delle nostre intrade, si ammalò e moritte poi del Zenaro dei seguenti alli 5, et similimente del detto mese si ammalò q. mio fratello Piero Antornio e morite poi del mese di Aprile 1565”. E più avanti “Durò la malattia di Camillo dal mese di Ottobre fino alli 5 Zenaro 1565; quella de Piero Antonio fino alli 29 Aprile d.a.” (cito da Crovato, pp.11-12).

160 A. Graf, Attraverso il Cinquecento, 1926, Torino, Chiantore, p.35 161

sempre l’ideale de’ più illustri trecentisti”162

. Mancanza che, si potrebbe aggiungere, non derivava tanto dall’aridità spirituale delineata dal Crovato, quanto dall’effettiva carenza di strumenti linguistici con cui palesare “quei nobili sentimenti”. L’appiattimento letterario e lessicale sgorgato dai dettami del Bembo aveva portato con sé un progressivo impoverirsi anche dei contenuti. Come sottolinea ancora il Crovato, “i poeti, anche quelli relativamente più onesti, ammirabili nella forma, ma superficiali e frivoli nella sostanza, non curavano l’argomento e la morale; a loro bastava soltanto di fare bei versi, secondo tutte le regole d’arte, poiché, solo in ciò riuscendo, non sarebbero loro mancate lodi e protezioni”163

. Su questo terreno di per sé fragile perché oramai consunto, si instaura l’energico rifiuto di quanti avevano “non solo un buon concetto di ciò che deve essere poesia in genere, ma ancora come un presentimento indistinto ed ansioso di un’arte nuova che dovesse avvenire […] e non potevano acconciarsi di quella poesia peritosa e servile, sonante di parole e vuota di idee”164

. La necessità di cambiamento diede vita a una sorta di rivoluzione letteraria in cui gli imitatori venivano non solo imitati, ma beffati e derisi, retrocessi al rango non più di soggetto, ma di oggetto poetico165. 162 G. Crovato, op.cit., p.15. 163 Ibidem, p.16. 164 A. Graf, op.cit., p.47. 165

Riporto, a tale proposito, l’Epistola eloquentissimi oratoris ac poetae clarissimi d. Marii Aequicolae in

sex linguis, scritta nel 1512, in cui l’anonimo autore (che attribuisce l’epistola stessa a Mario Equicola)

parodizza sei lingue: la lingua antiqua latina, l’apuleiana sive del Pio, la mariana latina, la lingua

poliphylesca, la thoscana e la mariana vulgare. Gli intenti risultano chiari a partire dalla lettera

dedicatoria: « Hercules Parionius Romanus Baptistae Pio Bononiensi gtmnasiarchae cunctiscio atque inter polyhistoras coriphaeo beneagere. Epistolium ab illo ipso Mario physiculatum et expectoratum, cuius gnaritatem omnium rerum multesime apud te et amicos rumiferavi, sex linguis variegatum, seu potius verbidemiationem sex linguarum, sententiis haud contortuplicatis sed undulatis, et grandaevitate privorum verborum opuliscenter edulcatum, quod meam nuper esuriginem pulchritate sua festiviter satulavit, tibi delico, ne me vanasse te pensicules, et ut clareat illum virum non monagrammam scientiarum, sed viriatum, sed κέρας ’Αμαλθείας, sed flavisam virtutum esse, adeo ut livor contra isthaec noenon hostire petile valeat, sed se pernicet scelerosus, ac Momus non insolus deblatterare in hoc σανδάλιον non ruspet, verum ringetur et rabeat dividia; et, ne te prolixitudine tricem, vale ». Segue l’epistola vera e propria (in Appendice [11]). Il testo è riportato da Dionisotti (Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze, Le Monnier, 1968),che più avanti commenta: “Abbiamo dunque in uno stesso documento ben distinte e pur strettamente congiunte le due questioni, della lingua latina e di quella volgare [...]. Dunque l’umanista della satira, che con tutta chiarezza vedeva e colpiva insieme nel loro pedantesco intreccio il latino degli apuleiani e il volgare del Polifilo, coinvolgeva però anche nello stesso grottesco miscuglio il toscano boccaccesco del Bembo [...]. Raccogliendo le fila del discorso, mi pare assodato che nel 1512-13 a Roma, indipendentemente dal Bembo e in parte contro di lui, la polemica umanistica latina già si era estesa al campo della lingua e letteratura volgare, coinvolgendo in una sola condanna la degenerazione pedantesca dei professori e l’artificiosa frivolezza amorosa dei letterati di corte. Nell’un caso e nell’altro la questione della lingua e dello stile era questione di misura e di grazia, di dignità e di certezza. E’ probabile che gli avversari del Pio e dell’Equicola avessero un’idea chiara dell’antica e nuova latinità, che doveva per loro trionfare. Potevano sussistere divergenze particolari, anche aspre, fra ciceroniani e non ciceroniani, ma nel fondo l’accordo era saldo” (pp. 107-112).

Tale inquietudine intellettuale fu percepita anche a Vicenza, dove fiorirono tre Accademie (dei Costanti, dei Segreti e l’Accademia Olimpica) e in cui si formarono letterati e insegnanti quali Giangiorgio Trissino, Fulvio Morato, Bernardino Partenio e il succitato maestro dello Scroffa, Bernardino Trinagio. Accanto a un ravvivato interesse per la cultura classica, faceva presa un particolare gusto della poesia bernesca e maccheronica, “quest’ultima più adatta a muovere il riso e più nota in Vicenza nel cui territorio, presso Campese, era morto Teofilo Folengo”166

. Gli intellettuali vicentini, dunque, si trovavano in una vantaggiosa posizione di frontiera tra rime forbite alla maniera del Della Casa e novelle di stampo burlesco. Su questo vivace humus culturale fiorirono Camillo Scroffa e i suoi Cantici.

166

IV