J
UDENFRAGE: D
OHM, M
ENDELSSOHN, F
RIEDLÄNDER,
S
CHLEIERMACHER3.1 Arendt a confronto con Dohm: la riduzione del progetto di emancipazione a
teoria della storia
Dopo aver redatto insieme a Mendelssohn e Cerfbeer una memoria da presentarsi al Conseil d’Etat parigino in favore degli ebrei alsaziani, Christian Wilhelm Dohm pubblica nel 1781 Über die bürgerliche Verbesserung der Juden (Sul miglioramento civile degli ebrei), dando origine ad un acceso dibattito sull’emancipazione degli ebrei dal quale due anni dopo scaturisce una riedizione del testo con una seconda sezione contenente le recensioni e i commenti epistolari ritenuti da Dohm più significativi. Nel 1782 Mendelssohn dà alle stampe una traduzione dell’opera del rabbino di Amsterdam Ben Israel aggiungendovi una
Vorrede (Prefazione) che si presenta come un riesame dello scritto di Dohm e
degli argomenti da lui sollevati. Rispetto alle soluzioni di parificazione civile più avanzate prospettate su basi diverse da Dohm e Mendelssohn, molti dei recensori che fra il 1781 e il 1783 si occupano del lavoro di Dohm su riviste come le
Göttingische Gelehrten Anzeigen, le Ephemeriden der Menschheit o la Allgemeine Deutsche Bibliothek si schierano o su posizioni più moderate, elencando problemi
da risolvere e condizioni preliminari da soddisfare prima dell’emancipazione, oppure su posizioni del tutto opposte, basate sul presupposto che la corruzione degli ebrei sia insanabile (la fonte più autorevole di quest’opinione è Michaelis)1.
Sia nella biografia di Rahel Varnhagen che nel saggio arendtiano
Illuminismo e questione ebraica, i brevi passi dedicati all’opera di Dohm
contengono ben poca traccia dell’intensità di questo dibattito, così come della complessità e diversità delle proposte e delle controargomentazioni che in esso erano emerse. In Illuminismo e questione ebraica l’accenno a Dohm viene fatto da Arendt per richiamare un’unica accezione minimale di storia che non viene liquidata dagli ebrei sulla spinta dell’assimilazione. Sebbene inizialmente questo aspetto venga presentato in contrapposizione all’eliminazione totale della considerazione della storia che per Arendt si riscontra nel pensiero di Mendelssohn, con un accento che in apparenza sembrerebbe relativamente positivo, la spiegazione della natura di tale residuo di storicità ne chiarisce i limiti. Questa incomprensione degli ebrei per la storia, fondata sul loro destino di essere privi di storia, e alimentata da un illuminismo assimilato e compreso solo a metà, è contrastata in un punto dalla teoria dell’emancipazione di Dohm – la cui argomentazione resta decisiva nel corso dei decenni seguenti. Infatti, gli ebrei non sono mai per Dohm […] il «popolo di Dio» o anche solo il popolo dell’Antico Testamento. Essi sono invece uomini come tutti gli altri. Ma la storia ha rovinato
1 Per uno studio più dettagliato della ricezione del testo di Dohm e del confronto innescato dai suoi contenuti cfr. PAOLO BERNARDINI, La questione ebraica nel tardo illuminismo tedesco. Studi
intorno allo “Über die bürgerliche Verbesserung der Juden” di C. W. Dohm (1781), Firenze, La Giuntina, 1992. Una ricca ricostruzione della genesi, degli argomenti e degli effetti dell’opera di Dohm si trova anche in DOMINIQUE BOUREL¸ Moses Mendelssohn. La naissance du judaïsme
questi uomini. Ed è soltanto questo il concetto di storia che gli ebrei adesso fanno proprio. […] Per loro la storia diventa in linea di principio la storia di quanto è loro estraneo; è la storia dei pregiudizi di cui erano prigionieri gli uomini prima dell’illuminismo: la storia è storia del passato maligno oppure del presente ancora attaccato ai pregiudizi. Liberare il presente dal fardello e dalle conseguenze di questa storia diventa l’opera dell’emancipazione e dell’integrazione degli ebrei nella società civile.2
La concezione della corruzione e dell’inferiorità culturale degli ebrei come mera conseguenza di un percorso storico ingiusto e insensato viene presentata come la visione più adatta all’assimilazione condotta mediante l’emancipazione, perché in essa la storia diventa il perfetto alter ego negativo della ragione rischiarata, un ricettacolo di tutto quanto è escluso dall’illuminismo. Spinta in tale cornice a giocare il ruolo di mero contrappeso e resistenza rispetto agli sforzi di liberazione dei lumi, la storia perde il carattere vincolante che le deriva dall’essere all’origine di una conformazione specifica del tessuto sociale e può essere liquidata con un colpo di spugna. Svolgendo la funzione di raccogliere tutto quanto si oppone alla ragione illuminata, rappresenta il necessario completamento e rafforzamento di quest’ultima, che le affida tutto quanto non riesce a metabolizzare.
Non si deve tuttavia pensare che Arendt stia semplicemente ripetendo i gridi di battaglia del romanticismo contro il presunto carattere antistorico dell’illuminismo. L’opinione che l’intero settecento illuminista abbia trascurato la storia3 viene implicitamente confutata da Arendt sia nella sua allusione ad una scoperta della storia da parte di Lessing, di cui si è fatta menzione nel capitolo precedente, sia nella trattazione su Herder nella parte conclusiva di Illuminismo e
questione ebraica. Nell’analisi arendtiana della nozione di storia conservata in
Dohm, l’oggetto del discorso è piuttosto l’intreccio fra la teoria dohmiana e la sua ricezione in ambito ebraico. Nel passo sopra citato l’argomentazione scivola rapidamente dall’idea di emancipazione di Dohm all’utilità con cui essa, una volta opportunamente aggiustata, si presta all’autocomprensione degli ebrei, e questa intersezione di argomenti rende le riflessioni di Arendt tutt’altro che univoche. Da una parte la critica è rivolta solo in parte al carattere illuministico del progetto dohmiano, mentre si fa più aspra nei confronti del riadattamento ebraico, dall’altra, in maniera circolare, la valutazione arendtiana di Dohm segue quella della sua ricezione.
L’eliminazione della storia, o la sua riduzione a “contenitore di scarico” per la ragione, viene attribuita alla specifica rielaborazione ebraica dell’illuminismo tedesco, che in Illuminismo e questione ebraica viene presa in esame attraverso Mendelssohn e Friedländer. Anche quando allude ad un “illuminismo assimilato e compreso solo a metà” dagli ebrei (“einer nur halberfaßten and assimilierten Aufklärung”) è probabile che Arendt abbia in mente soprattutto questi due autori, che rappresentano due dei principali esponenti della corrente dell’Haskalah, o illuminismo ebraico4. In realtà Arendt non si occupa minimamente di questo
2 HANNAH ARENDT, Aufklärung und Judenfrage, in EAD., Die verborgene Tradition, cit., pp. 114- 115; trad. it. cit., pp. 426-427.
3 Per una confutazione esemplare di quest’asserzione si veda il quinto capitolo (intitolato La conquista del mondo storico) dello scritto di Cassirer sull’illuminismo: ERNST CASSIRER, La filosofia dell’Illuminismo, Firenze, La Nuova Italia, 1935, pp. 277-324.
4 La bibliografia su questo argomento è molto vasta. Come fonti di utili informazioni generali e bibliografiche segnalo a titolo indicativo i seguenti titoli: DAVID SORKIN, The transformation of
complesso movimento di rinnovamento culturale e sociale, ma, sulla base dell’ottica della critica all’assimilazione, si limita a rilevare la funzionalizzazione delle idee illuministiche al giudaismo che ha luogo in Mendelssohn e Friedländer come singoli pensatori. La rilettura ebraica dei temi dell’illuminismo costituisce per Arendt non solo un obiettivo polemico estremo, ma anche un punto d’arrivo e un riferimento essenziale per l’interpretazione e la valutazione dell’illuminismo non ebraico. Sebbene Arendt sovraccarichi con la critica la ricezione ebraica più che la controparte tedesca, la visione dell’illuminismo non ebraico è inevitabilmente influenzata da questa impostazione nella stessa misura in cui la considerazione di principi generali è modificata dal giudizio dato sui loro esiti particolari. Questo tipo di reciprocità, con la duplicità e l’ambiguità correlate, è all’opera anche nella raffigurazione che in Illuminismo e questione ebraica viene data del pensiero di Lessing rispetto a quello di Mendelssohn, come abbiamo accennato nel capitolo precedente.
Il modo in cui il riferimento alla ricezione ebraica retroagisce sull’interpretazione di Dohm è percepibile anche dai passi della biografia di Rahel Varnhagen che affrontano la questione dell’emancipazione.
La rivendicazione di un «miglioramento della condizione legale degli ebrei» diventa effettiva in Prussia sotto l’influsso dell’Illuminismo; viene enunciata con la massima completezza dal funzionario prussiano Christian Wilhelm Dohm. Esclusi da secoli dalla cultura e dalla storia del loro ambiente, agli occhi dei popoli che li ospitano, gli ebrei sono rimasti ad un grado più basso della cultura umana. […] In nome degli oppressi Dohm fa appello alla coscienza dell’umanità; non in nome di concittadini e nemmeno di un popolo a cui in qualche modo ci si senta legati. […] Gli ebrei si assimilano a questa e ad analoghe teorie illuministiche di emancipazione. Ammettono con entusiasmo la propria inferiorità, che è colpa degli altri; la malvagità cristiana e la sua oscura storia li ha rovinati – la loro è completamente dimenticata. […] Naturalmente non si resterà legati all’ebraismo – visto che tutta la tradizione e la storia ebraica risulta essere un prodotto della miseria del ghetto, di cui inoltre non si ha nessuna colpa! A prescindere dalla questione della colpa, rimane segretamente il fatto dell’inferiorità.5
Anche in questo caso il discorso su Dohm e sull’emancipazione slitta abbastanza rapidamente sulla constatazione della facilità con cui gli ebrei potevano scrollarsi di dosso la responsabilità per la propria situazione attraverso le teorie illuministiche, grazie alle quali tutte le colpe passavano automaticamente alla storia, in particolare alla storia non ebraica dell’oppressione e della persecuzione. In questo incrocio fra il progetto di Dohm e il modo in cui esso fu accolto nell’ebraismo i punti più importanti che Arendt mette in rilievo e da cui prende le distanze sono due. Il primo è costituito dalla maniera indiretta in cui viene prospettata l’emancipazione, cioè come contributo per promuovere gli universali diritti umani che sono calpestati negli ebrei, anziché come risultato di un’attenzione ai problemi di un popolo specifico. Il secondo consiste nell’idea dell’inferiorità degli ebrei, che, pur essendo relativizzata come condizione transitoria mediante il riferimento alla storia non ebraica e la promessa di rigenerazione dei diritti civili, viene mantenuta come diagnosi dello stato
Jerman Jewry 1780-1840, New York, Oxford University Press, 1987; SHMUEL FEINER e DAVID
SORKIN, New Perspectives on the Haskalah, Londra, The Littman Library of Jewish Civilization, 2001; MOSHE PELLI, The age of Haskalah. Studies in Hebrew Literature of the Enlightenment in
Germany, Leiden, E. J. Brill, 1979.
dell’ebraismo del tempo e come premessa per l’elaborazione di soluzioni per l’avvenire.
Entrambi gli aspetti si ritrovano nel testo di Dohm, ma sotto una luce prevalentemente giuridica e politica. Dohm non si propone di scrivere un’apologia degli ebrei, ma piuttosto un trattato in cui convergano la difesa dei diritti dell’umanità e la questione dell’utilità per la ragion di stato. Inoltre Dohm rappresenta l’ebraismo come dimensione religiosa e sociale originariamente positiva, corrotta e degenerata soprattutto per il mancato godimento dei diritti civili e per l’esclusione dalla maggior parte delle professioni, che ha reso la dedizione al commercio una necessità, e non una scelta. L’assunzione cristiana dell’inferiorità teologica dell’ebraismo, corroborata dall’accusa di deicidio, viene trasformata nel quadro dell’illuminismo in un’inferiorità secolare e morale, non più costitutiva ma di carattere storico-contingente.
Quando io avessi dimostrato con la storia, che gli Ebrei considerati nello stato di uomini e di cittadini, non si sono fatti conoscere corrotti, se non perché non si ammettevano al godimento dei diritti comuni agli uni e agli altri, avrei creduto poter osare con maggior successo d’incoraggiare i governi ad accrescere il numero dei buoni cittadini, cessando di obbligare gli stessi Ebrei ad essere cattivi cittadini.6
Se è vero come sostiene Arendt che l’idea dell’emancipazione si appoggia ad una Verderbnistheorie, ad una teoria della degenerazione, la corruzione morale e civile cui fa riferimento Dohm non è da imputare in maniera generica alla storia, ma dipende innanzitutto dall’assenza di un uguale accesso ai diritti, dalla permanenza degli ebrei in una condizione giuridica di “stranieri” rispetto ai cittadini. La mancata parificazione è certo un fenomeno storico, che ha avuto una sua continuità nei secoli di persecuzione, ma questo non determina per Dohm alcun ostacolo all’emancipazione, che anzi può essere effettuata dall’alto rovesciando istantaneamente la tradizione di oppressione. La storicità non è che la conferma del carattere casuale, non necessario dell’esclusione, e non costituisce la chiave di volta del discorso di Dohm, focalizzato sulla possibilità di ribaltare in qualsiasi momento il passato di corruzione mediante la forza dell’azione statale. L’impostazione eminentemente politica del progetto di Dohm è anche ciò che ne esprime la potenziale radicalità.
Il legame fra corruzione e assenza dei diritti civili è asserito sulla base della fiducia nella plasmabilità del carattere attraverso l’educazione che è centrale nell’illuminismo e che sfocia direttamente nell’enfasi pedagogica tipica dell’ideale della Bildung. All’affidamento nella perfettibilità dell’essere umano Dohm conferisce però un significato specifico subordinando tutte le qualità della persona a quella “sociale” di cittadino. L’enfasi sulla Geselligkeit e sul progressivo miglioramento dell’uomo mediante la vita in società indica il ruolo fondamentale che nella teoria di Dohm svolge l’integrazione nella sfera dei diritti goduti dai cittadini. Solo con tale inclusione l’elemento sociale può dispiegare il suo effetto benefico sul carattere. Sulla base di queste assunzioni Dohm può richiedere per gli ebrei un’emancipazione immediata, senza la limitazione di un adeguamento preventivo a presunti standard di civiltà più elevati da compiersi
6 CHRISTIAN KONRAD WILHELM VON DOHM, Über die bürgerliche Verbesserung der Juden, 2 Teile in einem Band, postfazione di Franz Reuß, Hildesheim New York, Georg Olms, 1973, pp. 2- 3.
attraverso una formazione, una Bildung addizionale. La massima funzione formativa è infatti intrinseca allo stesso godimento dei diritti, e non ha senso restringere o rimandare la parificazione al compimento di un processo di formazione e rigenerazione, perché i diritti sono la premessa e la condizione necessaria del miglioramento, e non viceversa. Il rinnovamento morale, il progresso civile e la riabilitazione come cittadini sono per Dohm un fenomeno unitario, nella cornice di una visione fiduciosa nell’unità di morale e politica. Proprio perché insiste sul fatto che la corruzione non è soltanto materia di cultura o di eticità, ma conseguenza di una precisa situazione politica, la proposta di Dohm ha una connotazione pratica e permette di prescindere parzialmente dal “quid pro quo” della rigenerazione in cambio dell’emancipazione7. La richiesta degli ebrei di una parificazione dei diritti non viene elusa con la controrichiesta di un preliminare miglioramento e rinnovamento culturale e non viene perciò riportata dal livello giuridico a quello meramente educativo.
D’altra parte, pur negando la necessità di una riforma dell’ebraismo come precondizione della parificazione, con il suo progetto di emancipazione Dohm presenta un piano di rinnovamento della struttura sociale, della giurisdizione, della ripartizione delle professioni, della cultura e dell’educazione nelle comunità ebraiche. Questi cambiamenti sono visti all’interno di un programma più generale di trasformazione dell’intera società tedesca, che attraverso passi graduali, come l’abolizione delle corporazioni, doveva condurre verso un modello retto dall’individualismo del merito e dall’azione dello Stato assolutista. Da questo punto di vista l’emancipazione rappresenta indubbiamente il primo passo di un processo di integrazione condotto sotto l’egida dello Stato tutelare, e corrisponde alla fine dell’autonomia delle comunità ebraiche e all’inclusione degli ebrei nella struttura politica di uno Stato sempre più concentrato sull’unificazione del proprio corpo sociale.
Rispetto a questa equivalenza fra emancipazione e inizio di una riforma complessiva dell’ebraismo, la tesi arendtiana secondo cui la teoria di Dohm finisce per significare l’assimilazione nei termini di una cancellazione della storia ebraica possiede in fin dei conti una certa plausibilità, pur essendo alquanto approssimativa. Tuttavia l’aspetto che sfugge completamente all’analisi di Arendt è lo specifico carattere politico della teoria dohmiana, ovvero il fatto che Dohm, anche quando segue le logiche potenzialmente assimilatorie della corruzione e della rigenerazione, collochi la concessione dei diritti civili all’inizio del processo di rinnovamento invece che alla sua fine (come faranno molti suoi critici e recensori). Non si tratta di una semplice svista, ma piuttosto di un aspetto che sembra volutamente accantonato da Arendt perché considerato inessenziale. Nell’ottica arendtiana la questione dei diritti civili assume il significato di semplice espediente per incoraggiare e facilitare la rimozione della storia.
Il problema dell’emancipazione nei testi di Arendt che abbiamo considerato è dunque subordinato e incorporato in quello più importante della salvaguardia della storia, e l’interpretazione arendtiana di Dohm, che sorvola sul primato dell’aspetto politico, è strettamente condizionata da questa impostazione. Ancora una volta viene confermata la centralità che la tradizione e la storia rivestono nelle riflessioni di Arendt nei primi anni trenta. Inoltre, l’enfasi data alla dimenticanza
7 Su questo tema si vedano le illuminanti osservazioni contenute in DAVID SORKIN, The transformation of German Jewry, cit., in particolare nel primo capitolo.
della realtà storica rispetto alla parificazione dei diritti chiarisce che Arendt, indipendentemente dalla radicalità del progetto di Dohm, non può riconoscersi né nell’assunto della corruzione, né in quello dell’emancipazione come chiave della rigenerazione e della Bildung: entrambi prescindono dall’assunzione della storia, nel bene e nel male, come matrice identitaria di un popolo.
3.2 Moses Mendelssohn tra Bildung illuministica e difesa dell’ebraismo
Si è già accennato al fatto che nel passaggio di molte idee del pensiero di Lessing in quello di Mendelssohn Arendt veda un deterioramento verso un tipo di illuminismo sempre meno critico e articolato. Nella biografia di Rahel Varnhagen Arendt parla di falsificazione in relazione al modo con cui Mendelssohn riprende la tesi della separazione tra verità di ragione e verità storiche. L’eliminazione della storia viene sottolineata richiamando anche la presa di distanze di Mendlssohn dall’idea lessinghiana di un’educazione e di un progresso del genere umano.
Solo con la ricezione mendelssohniana «le verità della storia e quelle della ragione» vengono separate così definitivamente l’una dall’altra che l’uomo stesso, in cerca della verità, esce dalla storia. Si rivolge espressamente contro la filosofia della storia di Lessing: «l’educazione del genere umano, che il mio defunto amico Lessing si è lasciato imporre da non so quale storico erudito». A tutto ciò che è reale – ambiente, storia, società – manca, per fortuna, la legittimazione della ragione.8
Circa venti anni dopo la stesura di queste pagine, Karl Jaspers, scrivendo ad Arendt nell’agosto del 1952 dopo aver letto la biografia, si mostrerà abbastanza perplesso in merito a questa valutazione antitetica di Lessing e Mendelssohn. Pur riconoscendo anch’egli nel secondo un autore più piatto e dogmatico, Jaspers afferma l’esistenza di un impeto comune ad entrambi, e soprattutto rifiuta la distinzione condotta sulla base di una presunta filosofia della storia in Lessing, perché ritiene che tutti e due i pensatori sostengano a ragione l’idea di un’intima costituzione sovrastorica della razionalità umana9. In Arendt autrice di queste pagine della biografia di Rahel Varnhagen prevale invece la convinzione che l’astrazione dalla storia sia solo una liberazione apparente, e che nell’affermazione di questa autonomia illusoria il pensiero lessinghiano, pur contenendo le necessarie compensazioni, abbia predisposto anche alcune premesse potenziali, portate a compimento e riadattate all’assimilazione ebraica da Moses Mendelssohn.
In Illuminismo e questione ebraica la riflessione di Arendt sviluppa in modo più ampio l’interpretazione di Mendelssohn, insistendo sulla rimozione della storia come sottoprodotto della duplicità che inerisce alla compresenza della
Bildung illuministica e dell’apologia dell’ebraismo. In questo caso Arendt non si
limita al livello delle indicazioni generali fornite nella biografia di Rahel
8 HANNAH ARENDT, Rahel Varnhagen, ed. tedesca cit., pp. 26; trad. it. cit., p. 20.
9 HANNAH ARENDT E KARL JASPERS, Briefwechsel, cit., p. 229, e IID., Carteggio, cit., p. 111: “Il Suo contrapporre a Mendelssohn la «ragione» di Lessing come storicamente fondata (in base a «L’educazione del genere umano»), mi pare che non stia in piedi. Anche in Lessing – grazie a Dio