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Capitolo 1. La seconda guerra mondiale: nuovi bisogni e nuovi principi (1941-45)

1.1. L’impatto della guerra sulle eredità del passato

La seconda guerra mondiale, con il massiccio coinvolgimento dei civili, comportò la crisi dei sistemi assistenziali che la Francia e l’Italia, come pure gli altri paesi europei, erano andati costruendo a partire dalla fine del XIX secolo. Le politiche di assistenza statali in vigore al momento dello scoppio del conflitto erano fortemente marcate dall’impronta originaria: sia in Francia che in Italia, la congiuntura di fine secolo aveva coinciso con un vero «tornante politico nella storia della povertà e precarietà»11, con l’istituzione di leggi nazionali di assistenza. In

Francia, con l’istituzione della Direzione dell’Assistenza pubblica presso il Ministero dell’Interno, del Consiglio superiore dell’assistenza pubblica (1888), dell’assistenza sanitaria gratuita (1893), dell’assistenza obbligatoria agli anziani, malati e incurabili (1905) e infine dell’assistenza alle famiglie numerose (1913), i radical-repubblicani avevano promosso il definitivo abbandono di una logica della carità a favore di un approccio assistenziale12. Il Congresso internazionale

d’assistenza pubblica che si tenne a Parigi nel 1889 votò una risoluzione che affermava la necessità di una legislazione in favore «degli indigenti che si trov[assero], temporaneamente o definitivamente, nell’impossibilità fisica di fare fronte alle necessità dell’esistenza»13. Questo tipo

di intervento, che sostituiva l’assistenza alla nozione di carità facoltativa14, si giustificava in nome

dell’ideologia repubblicana che postulava un minimo di risorse personali come condizione necessaria della libertà politica e quindi richiedeva la risoluzione della questione della 8 Sandrine Kott, «Internationalism in Wartime. Introduction», Journal of Modern European History 12, n. 3

(2014): 317–22.

9 Moses e Daunton, «Editorial – Border Crossings», 186. 10 Smith, «Renegotiating the Social Contract».

11 Axelle Brodiez-Dolino, «Figures de la pauvreté sous la IIIe République», Communications, n. 98 (2016): 95.

12 Didier Renard, «Logiques politiques et logiques de programme d’action : la création des administrations sociales sous la IIIe République», Revue française des affaires sociales, n. 4 (2001): 34.

13 Didier Renard, «Une vieillesse républicaine ? L’état et la protection sociale de la vieillesse de l’assistance aux assurances sociales (1880-1914)», Sociétés Contemporaines 10, n. 1 (1992): 12.

pauperizzazione di ampie fasce della popolazione che rischiavano di destabilizzare il fragile sistema politico. La mutualità privata era insufficiente per assicurare l’eguaglianza politica e lo Stato doveva perciò intervenire per ricostituire le condizioni normali del contratto sociale15.

L’assistenza si articolava quindi in relazione al principio della riparazione con l’obiettivo del mantenimento delle libertà repubblicane e della pacifica convivenza civile. Allo stesso tempo, per non cadere nel vituperato modello inglese delle Poor Laws che sviliva i cittadini e incoraggiava l’ozio, veniva compiuta un’operazione di selezione dei «buoni poveri» di cui lo Stato doveva prendersi cura16 – categorie indiscutibilmente incapaci di mantenersi, come gli anziani – ma

anche di definizione e circoscrizione del suo intervento. L’insufficienza dell’assistenza comportò il ricorso alla beneficenza privata, anche se il coevo conflitto con la Chiesa cattolica, espressosi nelle leggi di separazione del 1905, portò a limitare l’influenza locale sul funzionamento del sistema assistenziale, per esempio rafforzando il controllo dei prefetti sulle Commissioni di attribuzione, su ospedali e ospizi e sui Bureaux de bienfaisance ereditati dalla Rivoluzione francese. A livello istituzionale, nel 1893 venne quindi introdotto il Bureau d’assistance in ogni comune, con il compito di amministrare l’assistenza sanitaria.

La logica assistenziale che prolungava l’eredità dalla Rivoluzione17 procedeva insieme a quella

assicurativa che andava gradualmente prevalendo: la modestissima legge sulle pensioni operaie venne votata solo nel 1910, ma la sua gestazione cominciò parallelamente a quella per l’assistenza agli anziani nell’ultimo quindicennio del secolo precedente18. Secondo la filosofia di riferimento

dei provvedimenti a cavallo del secolo – il solidarismo giuridico – lo Stato doveva limitarsi a quegli interventi che, da un lato, non potevano essere garantiti dalla partecipazione dei cittadini e, dall’altro, giovavano all’interesse generale della società senza distorcere le gerarchie «naturali» basate sul merito e sulle capacità. La società era considerata un sistema di interazione e interdipendenza e le politiche assistenziali miravano a migliorarne il funzionamento. In questo senso, le leggi sull’assistenza si collocavano a fianco di altre misure, come la regolamentazione dei tempi di lavoro di donne e bambini, la protezione degli incidenti sul lavoro o gli sforzi nel campo dell’istruzione. La legge del 14 luglio 1913 di assistenza alle famiglie numerose prive di mezzi sufficienti per crescere la prole, pur collocandosi nella stessa logica, beneficiò anche del sostegno del movimento natalista, che si sarebbe rafforzato nel primo dopoguerra sulla scorta del discorso bellicista che valorizzava le famiglie numerose che avevano offerto soldati alla patria. L’assistenza offerta attraverso queste leggi non annullava lo status di cittadino, emarginando i beneficiari come le stigmatizzanti Poor Laws inglesi, ma veniva anzi presentata come un effetto della cittadinanza e dei valori che vi erano associati19.

Il carattere riparatorio e il ricorso ai pubblici poteri soltanto in assenza di soluzioni alternative si ritrovano nelle riforme italiane tanto nel periodo crispino quanto in quello successivo giolittiano. Il primo fu segnato dalla legge 6972 del 1890, che, nel solco delle misure sociali e delle inchieste parlamentari del decennio precedente, trasformò le circa 20.000 Opere pie in Istituzioni pubbliche di beneficenza20 (Ipb), ponendole, a livello comunale, sotto il controllo delle

15 Bec, L’assistance en démocratie, 22–27. 16 Brodiez-Dolino, «Entre social et sanitaire», 16.

17 Thomas M. Adams, «Universalism in One Country: La Protection Sociale over the Longue Durée», French

Historical Studies 34, n. 3 (2011): 446–54.

18 Renard, «Une vieillesse républicaine ?», 18.

19 Timothy B. Smith, «The Ideology of Charity, the Image of the English Poor Law, and Debates Over the Right to Assistance in France, 1830–1905», The Historical Journal 40, n. 4 (1997): 1031.

20 Maria Sophia Quine, Italy’s Social Revolution (London: Palgrave Macmillan UK, 2002), 46–49. La natura giuridica delle Ipab (pubbliche o private) fu oggetto del dibattito giuridico dei decenni successivi, che evolse nella prima direzione. Santi Romano propose la nozione di enti autarchici, che evocava un'amministrazione indiretta dello stato e più precisamente, la concessione del diritto all'esercizio di pubbliche funzioni a

Congregazioni di carità, riformate e depurate dell’influenza ecclesiastica. Il provvedimento deve essere letto in chiave bismarckiana, come elemento di una più ampia strategia politica centralizzatrice, antisocialista e secolarizzatrice. Il dibattito parlamentare fece emergere un topos di lungo corso della storia italiana, l’idea che le spese assistenziali italiane fossero del tutto paragonabili a quelle delle altre nazioni, ma male amministrate e male distribuite sul territorio nazionale. La legge si ridusse a stabilire un maggior controllo delle prefetture, incapaci data la mole di lavoro e i magri stanziamenti di esercitare una reale azione di orientamento dell’azione delle Ipb.

Il tentativo di monopolio pubblico della beneficenza non andava nel senso di una pubblicizzazione vera e propria21, ma non per questo si riduceva alla predisposizione di sole forme di controllo e di

disciplina uniforme sulla beneficenza privata. Per Crispi, la beneficenza rappresentava un attributo fondamentale dello stato moderno. All’intervento di coordinamento della beneficenza pubblica – facoltativa – si aggiunse quello di promozione di forme obbligatorie. La legge del 1888 sulla tutela della sanità pubblica disciplinò l’obbligo per i comuni di provvedervi qualora non esistessero Opere Pie che se ne occupavano; nel 1889 la disciplina venne estesa agli inabili al lavoro e nel 1890 i compiti della Congregazione di carità non vennero limitati alla rappresentanza delle Ipb, ma compresero i soccorsi di urgenza ai poveri. Questi interventi – definiti beneficenza legale perché «non soltanto regolat[e] ma anche impost[e] dalla legge»22 – miravano, in un’ottica

di controllo sociale, a soccorrere i poveri vergognosi e a reprimere le forme di povertà esibita, come l’accattonaggio. Le leggi crispine esprimevano una concezione ottocentesca di tipo elemosiniero, come provava l’identificazione dell’assistenza nella «beneficenza legale», esercitata con completa discrezionalità dalle Ipab con la finalità precipua e spesso del tutto predominante su qualunque altro scopo di mantenere l’ordine pubblico23. Su questa seconda strada – la beneficenza

legale, con un’evoluzione verso la nozione di assistenza pubblica – si mossero i provvedimenti varati nel decennio successivo, prendendo atto del fallimento delle leggi crispine24: nel 1904 il

governo Giolitti istituì il Consiglio superiore di assistenza e beneficenza, con diramazioni periferiche, costituite dai comitati provinciali, e promosse indagini sull’assistenza all’infanzia e agli inabili al lavoro, nonché sulla beneficenza pubblica, con lo scopo di migliorare l’erogazione delle prestazioni senza aumentare l’onere finanziario dello Stato25. Il resto dei provvedimenti che

forgiarono la reputazione progressista del periodo giolittiano riguardarono invece i rapporti di lavoro.

Cinque caratteri della legislazione di inizio secolo

Le leggi crispine, ma anche i provvedimenti giolittiani, operavano nella stessa logica di selezione della popolazione assistibile che contraddistingueva le misure adottate in Francia. Gli indigenti validi al lavoro e quelli invalidi erano chiaramente distinti. L’assistenza ai primi costituiva «un’attività puramente volontaria e casuale»: la legislazione italiana sulle forme obbligatorie si rivolgeva alla sola seconda categoria, «in vario grado e misura» con una segmentazione dei persone incorporali le quali pur essendo rivestite di una personalità distinta da quella dello stato, possono tuttavia indirettamente considerarsi come un organo dello stato medesimo: cfr. Angelo Sandulli, «La letteratura in materia di assistenza e beneficenza: percorsi e tendenze», Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1992, 756.

21 Sandulli, «La letteratura in materia di assistenza e beneficenza», 754.

22 Vittorio Brondi, «La beneficenza legale», in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, vol. VIII (Milano: Società editrice libraria, 1905), 11.

23 Nicoletta Vettori, «Persona e diritto all’assistenza», Diritto pubblico, n. 1 (2016): 310. 24 Quine, Italy’s Social Revolution, 60–61.

beneficiari, «dimodoché non [fosse] possibile parlare di organi e di funzioni che in relazione a scopi e servizii determinati»26. Al 1889 risaliva la definizione dello «stato di bisogno» che rimase

in vigore fino agli anni cinquanta e che faceva riferimento a persone che non potevano «procacciarsi il modo di sussistenza» perché in condizioni di inabilità al lavoro per «infermità cronica o per insanabili difetti fisici o intellettuali», nonché «ai fanciulli che non hanno compiuto i dodici anni»27. Una seconda caratteristica duratura, condivisa con il caso francese, stava negli

obblighi di solidarietà familiare, che non erano posti «in un rapporto di alternatività o di sussidiarietà con le forme di solidarietà realizzate dalla collettività» in un sistema globale di protezione sociale28: l’assistenza pubblica aveva una mera funzione integrativa e sussidiaria, tanto

che era contemplato un diritto di rivalsa nei confronti dei soggetti obbligati all’assistenza familiare.

L’assistenza si presentava inoltre strettamente legata alla dimensione locale: in Italia, le Ipab erano istituzioni multiformi che rispondevano ai compiti delimitati dai fondatori negli statuti, mentre in Francia, dopo il fallimento della Rivoluzione nel nazionalizzare l’assistenza29, erano i comuni a

istruire i fascicoli, fissare l’ammontare delle prestazioni, versare i finanziamenti e gestire l’assistenza facoltativa, mentre lo Stato si limitava a un ruolo di impulso legislativo, controllo e parziale finanziamento a compensazione delle diseguaglianze territoriali30. Per ripartire

precisamente gli oneri di assistenza tra le collettività locali, i due sistemi prevedevano il principio del «domicilio di soccorso»: esistente dal 1793 in Francia ma riformato nel 1893, introdotto in Italia nel 1889, esso accompagnò l’obbligatorietà degli interventi e la loro organizzazione come «servizio pubblico»31. L’indigente aveva diritto ai soccorsi da parte degli organismi del luogo dove

aveva acquisito, per nascita, per matrimonio o dopo cinque anni di dimora32, il domicilio di

soccorso, distinto dal domicilio civile33. Limitarsi alla definizione giuridica non permette di

studiare le pratiche concrete di applicazione, ma in questa sede risulta importante semplicemente rilevare come il comune e la dimensione locale venissero «confermati nel loro ruolo di debitori principali dell’assistenza»34. Da un lato, l’assistenza doveva legarsi al contributo che il singolo

aveva dato, con il lavoro e il pagamento delle imposte, alla sua comunità di appartenenza35;

26 Brondi, «La beneficenza legale», 25. 27 R.d. 19 novembre 1889, n. 6335.

28 Vito Marino Caferra, Famiglia e assistenza: il diritto della famiglia nel sistema della sicurezza sociale (Bologna: Zanichelli, 1984), 12.

29 Pierre Rosanvallon, L’Etat en France de 1789 à nos jours (Paris: Editions du Seuil, 1990), 139–42. 30 Rauzy, «L’assistance. Son passé, son avenir», 16.

31 Didier Renard, «Une définition institutionnelle du lien social : la question du domicile de secours», Revue

française de science politique 38, n. 3 (1988): 370–71; Brondi, «La beneficenza legale», 21.

32 La legge francese prevedeva l’impossibilità di acquisire un nuovo domicilio di soccorso dopo i 65 anni e la possibilità, per assenza ininterrotta di un anno, di perdere il precedente; l’onere assistenziale veniva allora trasferito allo Stato e gestito dal dipartimento: Renard, «Une définition institutionnelle du lien social», 377– 78.

33 «Il domicilio di soccorso è l’istituto secondo cui, in base all’appartenenza dei beneficabili a un dato centro di popolazione, si impartisce territorialmente l’onere della beneficenza, ed è la conseguenza diretta e necessaria del carattere locale, che generalmente contraddistingue le manifestazioni della funzione sovventiva»: Brondi, «La beneficenza legale», 256. Alla regola del domicilio di soccorso facevano eccezione, gravando sullo Stato: il mantenimento degli inabili al lavoro, le spese dei ricoveri ospedalieri a Roma e a Acqui Terme, i soccorsi ai pellagrosi poveri, il rimpatrio gratuito degli indigenti al proprio domicilio e le spese per gli stranieri privi di domicilio civile in Italia.

34 Élie Alfandari, Aide sociale, action sociale (Paris: Dalloz, 1974), 8.

35 Il principio del domicilio di soccorso metteva d’accordo tanto concezioni individualiste, che consideravano il singolo come appartenente solo a se stesso, oppure alla nazione, quanto i cattolici che sottolineavano il valore delle comunità naturali. Alla fine dell’ottocento prevalse tuttavia la concezione utilitarista: Renard, «Une définition institutionnelle du lien social», 373–74.

dall’altro, una tale organizzazione rendeva i comuni finanziariamente interessati alla limitazione del numero degli indigenti36.

Un quarto aspetto comune a Francia e Italia derivava dal legame utilitaristico tra l’entitlement e il precedente contributo del potenziale beneficiario alla collettività. Quest’ultima era locale, ma anche nazionale nella misura in cui, con le leggi di fine secolo, era lo Stato ad assumere un ruolo di regolatore imponendo ai comuni norme da rispettare. In piena fase di affermazione di quella che Gerard Noiriel ha chiamato «tirannia del nazionale», l’assistenza era limitata ai cittadini nazionali. Tale situazione riguardava tutta la protezione sociale, ma nel caso della previdenza la discriminazione riguardava la sola misura dei contributi statali: fino alla seconda guerra mondiale, gli stranieri, in linea di massima, non erano trattati su un piano di uguaglianza giuridica nell’accesso ai diritti sociali. In caso di indigenza e quindi di necessità di assistenza, il XIX secolo aveva visto il frequente ricorso all’espulsione. A partire dall’inizio del XX secolo, proprio la Francia e l’Italia si fecero tuttavia promotrici di trattati di reciprocità che accordavano agli immigrati diritti sociali comparabili a quelli dei rispettivi cittadini nazionali. Tra Francia e Italia esisteva un dislivello nella protezione sociale, ma il trattato andava oltre il principio di stretta reciprocità promuovendo in corrispettivo una tendenziale equiparazione dei due paesi negli oneri sociali e nelle condizioni di lavoro. L’eguaglianza tra stranieri e nazionali veniva ricondotta a principi morali ma anche ad una razionalità utilitaristica37: gli accordi bilaterali aprivano la strada

a un’uniformazione dei diritti sociali, che poteva a quel punto essere regolata da convenzioni internazionali. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, la Francia ereditava dal primo quarantennio del secolo convenzioni con l’Italia (1919), la Polonia (1920), il Belgio (1921), il Lussemburgo (1923), la Svizzera (1931) e la Spagna (1932)38, mentre l’Italia si basava ancora

sugli accordi precedenti la prima guerra mondiale, con l’eccezione di quello con il Belgio firmato nel 1921.

Ad accomunare i provvedimenti presi sui due lati delle Alpi era infine un quinto e ultimo aspetto: essi statuivano l’obbligo di assistenza nei confronti di categorie specifiche ma non comportavano un diritto soggettivo. Come rilevò criticamente il socialista Jean Jaurès, l’assistito doveva supplicare per ottenere la concretizzazione di quello che veniva ipocritamente considerato come un diritto. La procedura imponeva all’assistito una posizione subordinata, incompatibile con i suoi diritti politici: lo Stato borghese era in realtà incapace di garantire la solidarietà sociale nella misura in cui poneva i diritti individuali sullo stesso piano del diritto alla proprietà. Nel caso francese, come ha sintetizzato il giurista Élie Alfandari, la legislazione non aveva contemplato

«la notion d’ayant-droit dans l’aide sociale : l’assistance est un droit tutélaire, d’essence unilatérale. […] Le contrat social pour les populations désocialisées est un contrat de tutelle et non une relation d’échange égalitaire ; l’assistance est un droit spécialisé qui ne s’applique qu’à des catégories spécifiques définies par le textes et pour des prestations spécifiques»39.

36 Brodiez-Dolino, «Entre social et sanitaire», 17.

37 Paul-André Rosental, «Migrations, souveraineté, droits sociaux. Protéger et expulser les étrangers en Europe du XIXe siècle à nos jours», Annales. Histoire, Sciences Sociales 66, n. 2 (2011): 335–73.

38 Il trattato del 1919 con l’Italia è disponibile all’indirizzo https://gisti.org/IMG/pdf/convention-france-italie- 1919.pdf (artt. 12-16). Le convenzioni firmate con la Cecoslovacchia, la Romania e il Portogallo non erano state ratificate: Suzanne Picquenard, «L’organisation de l’assistance en France et son application aux étrangers», Informations sociales 5, n. 14 (1951): 951.

39 Elisabeth Maurel, «L’aide sociale à l’hébergement: origine et évolution», in Hébergement et réadaptation

La legge del 1905 aveva previsto una procedura d’iscrizione di ufficio in caso di inazione del comune di appartenenza40, ma il dibattito politico e giuridico finì per negare l’esistenza di un

diritto del cittadino e non riuscì neanche a trovare una definizione condivisa del concetto (alcuni consideravano il diritto soggettivo alla stregua di un diritto naturale preesistente all’intervento del legislatore). Durante i dibattiti parlamentari che portarono all’approvazione delle leggi d’assistenza, la destra e il centro dello scacchiere parlamentare sottolinearono che il diritto dipendeva dal riconoscimento discrezionale e sovrano operato dal legislatore, contro l’approccio dell’estrema sinistra che ne valorizzava il carattere preesistente e naturale (rendendo l’intervento di fatto necessario per non violare «la Giustizia e il Diritto»). Furono tuttavia i primi a prevalere, come il lessico dei provvedimenti, che non evoca i diritti dell’individuo, inequivocabilmente dimostrava. Nello stesso senso si pose la dottrina giuridica: un solidarista come Leon Duguit rifiutò il concetto di diritto all’assistenza negando che potesse essere incluso, al pari di qualunque altro diritto soggettivo, tra i diritti naturali. Lo stesso concetto di diritto naturale era messo in discussione in quanto «individualista»: l’individuo non esisteva che nella società. Se per le destre l’intervento amministrativo derivava dal pericolo che la presenza della povertà imponeva all’ordine sociale, la posizione dei solidaristi riconosceva un dovere sociale di fraternità dello Stato – da tradurre nella creazione di servizi pubblici – ma non faceva corrispondere un diritto a prestazioni all’obbligo dello Stato di assistere i poveri e i malati, corollario della sua inefficacia nell’evitare la povertà.

La nozione di diritto soggettivo, vista come uno strumento pericoloso nelle mani dei cittadini, non penetrò nel diritto amministrativo per tutta la Terza Repubblica. L’assistenza, anzi, cristallizzò «il rifiuto della dottrina giuridica di riconoscere l’esistenza di diritti pubblici soggettivi». I singoli non potevano avere un diritto soggettivo al funzionamento dei servizi pubblici: ammettere l’esistenza di un diritto all’assistenza avrebbe infatti significato attribuire allo Stato un ruolo positivo di intervento e abbandonare la teoria dei diritti negativi del 1789. Quando il Consiglio di Stato, nel 1909, riconobbe l’eleggibilità alle cariche municipali dei beneficiari41, proprio con il pretesto che

si trattava di un diritto e non di una decisione discrezionale, i giuristi sottolinearono che la legge prevedeva soltanto il diritto all’iscrizione nelle liste di assistenza, non quello a una prestazione. D’altra parte il Consiglio di Stato mai si spinse a parlare di un diritto soggettivo. Fu soltanto la generazione di solidaristi successiva – quella dell’entre-deux-guerres – a riconoscere l’esistenza di «diritti pubblici soggettivi»42, senza tuttavia né influenzare significativamente «il credo della

dottrina dominante»43 né applicare la nozione all’assistenza, ormai passata in posizione di

retroguardia nel complesso della protezione sociale44. Se il termine di «diritto soggettivo» era

bandito, come si presentava di conseguenza il diritto all’assistenza consacrato dalle leggi del 1893 e del 1905? Rarissimi furono i casi di riconoscimento, da parte dei giuristi, di un diritto individuale. Per Leon Duguit non esisteva un diritto, ma solo un’applicazione del dovere dello Stato di fare tutto il possibile per assicurare «lo sviluppo della solidarietà sociale»45. Questa

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